7.9.18

Cesare come Al Capone. Amore, poesia e racket nella Roma imperiale. Intervista a Paul Veyne (Laura Xella)


Una vecchia, bella intervista a un grande antichista francese, i cui studi restano fondamentali.
Vi si illustrano i temi di uno dei suoi libri più importanti, sull'elegia latina, e si anticipano al lettore italiano i criteri del primo volume di una Storia della vita privata, curato da Veyne e al tempo pubblicato solo in Francia e tradotto per Laterza nel 1985. (S.L.L.)

Paul Veyne nel 2008
Studioso del mondo greco e romano, ex collaboratore di Michel Foucault, Paul Veyne è una delle personalità più in vista dell'attuale storiografia francese. Lo abbiamo incontrato al Collège de France dove quest'anno tiene corsi su Nerone e su Sparta. Cuu lo humour e l'irruenza polemica che si ritrovano nei suoi libri ha acconsentito a rispondere ad alcune domande, non solo su La poesia, l'amore, l'occidente — il saggio dedicato all'elegia erotica latina uscito di recente in traduzione italiana presso Il Mulino — ma anche su altri temi connessi alla sua ricerca: dalla sociologia della letteratura alla morale dei Romani, dai nuovi orientamenti della scuola storica francese alla grande Histoire de la vie privée diretta da Georges Duby con l'apporto di eminenti specialisti. Di Paul Veyne sono stati tradotti in Italia anche i volumi Come si scrive la storia (presso Laterza), I greci hanno creduto al loro miti? e Il Pane e il circo (presso Il Mulino). (l.x.)
Paul Veyne da giovane
Il suo libro sull'elegia erotica latina ha sconvolto vecchi e diffusi schemi di lettura ed ha suscitato vivaci reazioni anche in Italia. Dobbiamo davvero rinunciare all'idea che Cinzia, Corinna, Delia siano le belle crudeli oggetto di passioni realmente vissute? Dobbiamo considerarle creature fittizie di un puro gioco letterario?
«La vecchia idea che le opere d'arte riflettano la società implica due cose molto diverse, la prima delle quali è falsa. Di solito, si da per scontato che quando un poeta romano parla d'amore lo descriva cosi come era praticato realmente a Roma. Si dimentica che la letteratura ha una funzione essenzialmente di evasione e che in generale non c'è nessun rapporto tra l'arte o la letteratura di un'epoca e la realtà di quella stessa epoca. Il secondo aspetto della questione riguarda il ruolo della fantasticheria. Lo spirito, la mentalità di una determinata epoca sono un elemento molto leggero. E noi siamo portati a pensare che le infrastrutture pesanti lo attirino a sé, plasmando l'immaginazione. Invece lo spirito è qualcosa di molto volatile e, lungi dall'essere plasmato sulla realtà, evade nelle direzioni più diverse. La letteratura, insomma, svolge più una funzione di evasione che una funzione di "riflesso". Ma la tendenza diffusa è di supporre che, per esempio, i trovatori descrivano le abitudini amorose del loro tempo. Non è assolutamente così: quella che i loro testi ci offrono è pura fantasticheria. Allo stesso modo, i romanzi cosiddetti picareschi evocano determinati comportamenti, ma ciò non significa che in Spagna al tempo di quei romanzi ci fosse più malavita di prima. Sarebbe come credere che la moda del romanzo poliziesco, dal 1900 in poi, corrisponda a un aumento della criminalità».

Nei suoi libri lei ha preso apertamente posizione contro la sociologia della letteratura. A chi è rivolta in particolare questa critica?
«Soprattutto a Lukàcs. Ma bisogna intendersi. Un atteggiamento antisociologico porta a sottolineare nella letteratura l'elemento di gioco immaginario, che nel caso degli elegiaci romani è un libero contratto con il lettore. Al lettore viene detto: faremo finta di credere che esista un ambiente caratterizzato da una grande libertà di costumi. Crederemo allora che esso esiste e ci divertiremo, a livello immaginario, di fronte all'evocazione di questo mondo di abitudini libertine, di risse, di tradimenti, di avventure notturne, di costumi facili. Ciò non significa che a Roma imperversasse una estrema libertà di costumi, ma che tra autore e lettore è stato stipulato il contratto di crederci. Su questo punto, un sociologo, Jean Claude Passeron, mi ha fatto notare, a ragione, qualcosa che non contraddice le mie posizioni, ma piuttosto le integra. "Nelle tue analisi — mi ha detto — hai finito per recuperare la sociologia". Non si tratta però, evidentemente, della sociologia tradizionale; è vero, infatti, che, perché ci sia gioco con il lettore, questi deve capire e accettare le regole del gioco. Ma se il lettore non è più in grado di capire, se cambiamo secolo, si produrranno enormi malintesi. Qui sta la dimensione sociologica della letteratura: i contratti immaginativi a distanza di secoli non vengono più compresi. Proprio come nel caso del romanzo picaresco, che oggi rischia di essere inteso come rappresentazione di un mondo reale. Forse, di qui a qualche secolo, i film gialli americani, i romanzi polizieschi saranno scambiati per quadri veritieri della nostra epoca. In sostanza, la sociologia della letteratura non può consistere nello spiegare gli autori attraverso il contesto sociale, nel credere che il romanzo rifletta realmente la società. Alla sociologia dell'autore o dell'opera bisogna sostituire una sociologia del lettore. A chi dimentica le nozioni di patto, di regola del gioco su cui si basa ogni evento letterario, si potrebbe ricordare la storiella di quell'uomo che non aveva mai visto un incontro di calcio e che, di fronte a due gruppi di persone in lotta per il possesso di un pallone, diceva: "Basterebbe dare loro due palloni per farli contenti". La comprensione dell'opera è un contratto con la società: occorre decifrarlo».

Per tornare agli elegiaci, se tutto nella loro poesia rinvia a una dotta convenzione letteraria, quale è il posto di ciò che noi chiamiamo passione nella vita dei Romani?
«Ebbene, c'erano, come oggi, delle persone che provavano intense passioni. Non c'è motivo di credere che fosse diversamente. Il problema è sapere in che termini se ne parlava. La passione esisteva, come in ogni altra epoca, è ovvio. Ma innanzitutto se ne poteva parlare in termini positivi o in termini negativi. Di qualcuno che era innamorato si poteva dire per esempio "ha perduto la testa per una donna", e biasimarlo per questo. Anche nella nostra società, del resto, ci sono ambienti in cui la passione è ammessa e altri, come quello militare, in cui è malvista. A Roma si parlava della passione un po' come se ne parla oggi nei nostri ambienti militari. Si preferiva l'amore coniugale; la passione ispirava diffidenza. C'è poi un secondo problema, molto più sottile. Penso che in ogni epoca gli uomini abbiano provato più o meno gli stessi sentimenti. Ma sentimenti anche estremamente violenti possono passare completamente inosservati. Un esempio: è solo da una trentina d'anni che si è preso atto del rilievo delle relazioni omosessuali. Ma un'altra categoria, statisticamente altrettanto importante, quella delle relazioni sadomasochistiche è sottoposta a interdetto: difficilmente se ne parla».

Qual è allora lo sfondo di norme morali che regola i comportamenti amorosi a Roma?
«Primo: l'amore a Roma è una cosa seria ed è ammesso come argomento di conversazione solo se è coniugale. Secondo: finché si tratta di una passione unicamente sensuale — e se non si perde la testa — si chiudono gli occhi. Terzo: i giovani godono di una grande libertà fin dall'età di quattordici anni (solo i maschi, naturalmente). Quarto: nell'alta società la libertà di costumi degli uomini e anche delle matrone è molto ampia. Non per liberalismo, ma per emanazione di orgoglio aristocratico. Un po' come accade nel XVIII secolo. Solo Cesare ha potuto pretendere che la virtù di stia moglie fosse al di sopra di ogni sospetto».

Il problema della sincerità in letteratura va ricondotto secondo lei a un concetto di pragmatica. Quali sono le sue fonti in questo senso?
«Fondamentalmente i Formalisti russi. A differenza di Lukàcs, che non ha dimostrato alcuna autentica inventività e ha finito per fare del marxismo scolastico, 1 Formalisti russi hanno aperto la strada a tutta la critica attuale, alla semiotica, alla narratologia. È probabilmente Il più grande contributo della cultura russa alle scienze umane».

In contrapposizione al manierismo e allo humour degli elegiaci lei traccia un rapido profilo della «estetica dell'intensità», propria della tradizione poetica moderna e contemporanea. Quale è il suo atteggiamento di fronte ai poeti dell'intensità, come René Char per esempio?
«Tra i poeti italiani ce n'è uno che amo molto: Montale. Mi sembra — ed è un elogio — un liquore concentrato ad un grado mai raggiunto in precedenza. Quanto a Char, sto scrivendo un libro su di lui; è un amico. Lo considero il più grande poeta vivente. Mi affascina l'oscurità favolosa dei suoi testi».

Colpisce nel suo libro la ricchezza di riferimenti a testi letterari anche lontani dal suo ambito di studi. Quali sono le sue abitudini di lettura?
«Le farò una confidenza: non leggo mai romanzi. Amo molto la poesia. Quando ci si occupa di storia, è facile avere un rifiuto per i romanzi».

Forse trova nella storia la dimensione romanzesca?
«Sì, è così. Prenda il caso di Zola: tutta la parte non "estetica", non "poetica" della sua opera svanisce al contatto con la storia».

Vuole dirci qualcosa sull'«Histoire de la vie privée», l'imponente impresa storiografica di cui è uscito da poco il primo tomo da lei curato, relativo al periodo «Dall'Impero romano all'anno mille»? «L'idea è partita da Philippe Ariès, l'autore dei saggi sulla storia della morte in Occidente, scomparso l'anno scorso. Si può dire che questa iniziativa sancisca due cose: da un lato l'esaurirsi della tradizione delle Annales, dall'altro l'emergere nella scuola storiografica francese di una tendenza storicistica che va ricollegata, direttamente o indirettamente, al lavoro di Michel Foucault. Gli storici francesi hanno finalmente cessato di essere cartesiani».

Come va intesa la nozione di «privato»? Non si tratta, suppongo, solo di una storia della vita quotidiana.
«Occorre partire da due idee: 1) Gli uomini, a differenza degli animali, sono esseri che hanno un'idea di se stessi e che la organizzano. È quello che si definisce lo "stile di vita". 2) È possibile cominciare a trasformare le relazioni umane senza aspettare una rivoluzione più generale. Spesso i piccoli dettagli fanno vacillare le grandi strutture: sono come il granello di sabbia che blocca l'ingranaggio».

Un'ultima domanda: l'indagine sul privato dei Romani ha rivelato particolari nascosti o inattesi? 
«Abbiamo potuto osservare il ruolo enorme, gigantesco della corruzione. L'impero romano, come l'impero turco, come l'impero cinese, si fonda sul backehich (la bustarella) e sulla estorsione. Ma ciò non era recepito in modo apocalittico: era ammesso. L'eccezione, semmai, è il funzionario integerrimo quale lo vorrebbe l'occidente moderno. In tutti gli Imperi antichi ciò che oggi chiamiamo Amministrazione era in effetti un racket. L'amministrazione romana, di cui spesso si vanta l'efficienza, e una mafia che invece di essere perseguita dalla polizia è utilizzata dal potere centrale, con relativa spartizione dei profitti. In epoca moderna c'è stato un equivalente molto preciso: Al Capone, padrone onnipotente di Chicago, durante la crisi del '29 distribuiva cibo alla gente e intratteneva ottimi rapporti con il sindaco della città. L'Impero romano non è altro che questo».


l'Unità, 8 gennaio 1986

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