Una vecchia, bella
intervista a un grande antichista francese, i cui studi restano
fondamentali.
Vi si illustrano i temi
di uno dei suoi libri più importanti, sull'elegia latina,
e si anticipano al lettore italiano i criteri del primo volume di una
Storia della vita privata,
curato da Veyne e al tempo pubblicato solo in Francia e tradotto per
Laterza nel 1985. (S.L.L.)
Paul Veyne nel 2008 |
Studioso del mondo
greco e romano, ex collaboratore di Michel Foucault, Paul Veyne è
una delle personalità più in vista dell'attuale storiografia
francese. Lo abbiamo incontrato al Collège de France dove quest'anno
tiene corsi su Nerone e su Sparta. Cuu lo humour e l'irruenza
polemica che si ritrovano nei suoi libri ha acconsentito a rispondere
ad alcune domande, non solo su La poesia, l'amore, l'occidente
— il saggio dedicato all'elegia erotica latina uscito di recente in
traduzione italiana presso Il Mulino — ma anche su altri temi
connessi alla sua ricerca: dalla sociologia della letteratura alla
morale dei Romani, dai nuovi orientamenti della scuola storica
francese alla grande Histoire de la vie privée diretta da
Georges Duby con l'apporto di eminenti specialisti. Di Paul Veyne
sono stati tradotti in Italia anche i volumi Come si scrive la
storia (presso Laterza), I greci hanno creduto al loro miti?
e Il Pane e il circo (presso Il Mulino). (l.x.)
Paul Veyne da giovane |
— Il suo libro
sull'elegia erotica latina ha sconvolto vecchi e diffusi schemi di
lettura ed ha suscitato vivaci reazioni anche in Italia. Dobbiamo
davvero rinunciare all'idea che Cinzia, Corinna, Delia siano le belle
crudeli oggetto di passioni realmente vissute? Dobbiamo considerarle
creature fittizie di un puro gioco letterario?
«La vecchia idea che le
opere d'arte riflettano la società implica due cose molto diverse,
la prima delle quali è falsa. Di solito, si da per scontato che
quando un poeta romano parla d'amore lo descriva cosi come era
praticato realmente a Roma. Si dimentica che la letteratura ha una
funzione essenzialmente di evasione e che in generale non c'è nessun
rapporto tra l'arte o la letteratura di un'epoca e la realtà di
quella stessa epoca. Il secondo aspetto della questione riguarda il
ruolo della fantasticheria. Lo spirito, la mentalità di una
determinata epoca sono un elemento molto leggero. E noi siamo portati
a pensare che le infrastrutture pesanti lo attirino a sé, plasmando
l'immaginazione. Invece lo spirito è qualcosa di molto volatile e,
lungi dall'essere plasmato sulla realtà, evade nelle direzioni più
diverse. La letteratura, insomma, svolge più una funzione di
evasione che una funzione di "riflesso". Ma la tendenza
diffusa è di supporre che, per esempio, i trovatori descrivano le
abitudini amorose del loro tempo. Non è assolutamente così: quella
che i loro testi ci offrono è pura fantasticheria. Allo stesso modo,
i romanzi cosiddetti picareschi evocano determinati comportamenti, ma
ciò non significa che in Spagna al tempo di quei romanzi ci fosse
più malavita di prima. Sarebbe come credere che la moda del romanzo
poliziesco, dal 1900 in poi, corrisponda a un aumento della
criminalità».
— Nei suoi libri lei
ha preso apertamente posizione contro la sociologia della
letteratura. A chi è rivolta in particolare questa critica?
«Soprattutto a Lukàcs.
Ma bisogna intendersi. Un atteggiamento antisociologico porta a
sottolineare nella letteratura l'elemento di gioco immaginario, che
nel caso degli elegiaci romani è un libero contratto con il lettore.
Al lettore viene detto: faremo finta di credere che esista un
ambiente caratterizzato da una grande libertà di costumi. Crederemo
allora che esso esiste e ci divertiremo, a livello immaginario, di
fronte all'evocazione di questo mondo di abitudini libertine, di
risse, di tradimenti, di avventure notturne, di costumi facili. Ciò
non significa che a Roma imperversasse una estrema libertà di
costumi, ma che tra autore e lettore è stato stipulato il contratto
di crederci. Su questo punto, un sociologo, Jean Claude Passeron, mi
ha fatto notare, a ragione, qualcosa che non contraddice le mie
posizioni, ma piuttosto le integra. "Nelle tue analisi — mi ha
detto — hai finito per recuperare la sociologia". Non si
tratta però, evidentemente, della sociologia tradizionale; è vero,
infatti, che, perché ci sia gioco con il lettore, questi deve capire
e accettare le regole del gioco. Ma se il lettore non è più in
grado di capire, se cambiamo secolo, si produrranno enormi malintesi.
Qui sta la dimensione sociologica della letteratura: i contratti
immaginativi a distanza di secoli non vengono più compresi. Proprio
come nel caso del romanzo picaresco, che oggi rischia di essere
inteso come rappresentazione di un mondo reale. Forse, di qui a
qualche secolo, i film gialli americani, i romanzi polizieschi
saranno scambiati per quadri veritieri della nostra epoca. In
sostanza, la sociologia della letteratura non può consistere nello
spiegare gli autori attraverso il contesto sociale, nel credere che
il romanzo rifletta realmente la società. Alla sociologia
dell'autore o dell'opera bisogna sostituire una sociologia del
lettore. A chi dimentica le nozioni di patto, di regola del gioco su
cui si basa ogni evento letterario, si potrebbe ricordare la
storiella di quell'uomo che non aveva mai visto un incontro di calcio
e che, di fronte a due gruppi di persone in lotta per il possesso di
un pallone, diceva: "Basterebbe dare loro due palloni per farli
contenti". La comprensione dell'opera è un contratto con la
società: occorre decifrarlo».
— Per tornare agli
elegiaci, se tutto nella loro poesia rinvia a una dotta convenzione
letteraria, quale è il posto di ciò che noi chiamiamo passione
nella vita dei Romani?
«Ebbene, c'erano, come
oggi, delle persone che provavano intense passioni. Non c'è motivo
di credere che fosse diversamente. Il problema è sapere in che
termini se ne parlava. La passione esisteva, come in ogni altra
epoca, è ovvio. Ma innanzitutto se ne poteva parlare in termini
positivi o in termini negativi. Di qualcuno che era innamorato si
poteva dire per esempio "ha perduto la testa per una donna",
e biasimarlo per questo. Anche nella nostra società, del resto, ci
sono ambienti in cui la passione è ammessa e altri, come quello
militare, in cui è malvista. A Roma si parlava della passione un po'
come se ne parla oggi nei nostri ambienti militari. Si preferiva
l'amore coniugale; la passione ispirava diffidenza. C'è poi un
secondo problema, molto più sottile. Penso che in ogni epoca gli
uomini abbiano provato più o meno gli stessi sentimenti. Ma
sentimenti anche estremamente violenti possono passare completamente
inosservati. Un esempio: è solo da una trentina d'anni che si è
preso atto del rilievo delle relazioni omosessuali. Ma un'altra
categoria, statisticamente altrettanto importante, quella delle
relazioni sadomasochistiche è sottoposta a interdetto: difficilmente
se ne parla».
— Qual è allora lo
sfondo di norme morali che regola i comportamenti amorosi a Roma?
«Primo: l'amore a Roma è
una cosa seria ed è ammesso come argomento di conversazione solo se
è coniugale. Secondo: finché si tratta di una passione unicamente
sensuale — e se non si perde la testa — si chiudono gli occhi.
Terzo: i giovani godono di una grande libertà fin dall'età di
quattordici anni (solo i maschi, naturalmente). Quarto: nell'alta
società la libertà di costumi degli uomini e anche delle matrone è
molto ampia. Non per liberalismo, ma per emanazione di orgoglio
aristocratico. Un po' come accade nel XVIII secolo. Solo Cesare ha
potuto pretendere che la virtù di stia moglie fosse al di sopra di
ogni sospetto».
— Il problema della
sincerità in letteratura va ricondotto secondo lei a un concetto di
pragmatica. Quali sono le sue fonti in questo senso?
«Fondamentalmente i
Formalisti russi. A differenza di Lukàcs, che non ha dimostrato
alcuna autentica inventività e ha finito per fare del marxismo
scolastico, 1 Formalisti russi hanno aperto la strada a tutta la
critica attuale, alla semiotica, alla narratologia. È probabilmente
Il più grande contributo della cultura russa alle scienze umane».
— In
contrapposizione al manierismo e allo humour degli elegiaci lei
traccia un rapido profilo della «estetica dell'intensità», propria
della tradizione poetica moderna e contemporanea. Quale è il suo
atteggiamento di fronte ai poeti dell'intensità, come René Char per
esempio?
«Tra i poeti italiani ce
n'è uno che amo molto: Montale. Mi sembra — ed è un elogio — un
liquore concentrato ad un grado mai raggiunto in precedenza. Quanto a
Char, sto scrivendo un libro su di lui; è un amico. Lo considero il
più grande poeta vivente. Mi affascina l'oscurità favolosa dei suoi
testi».
— Colpisce nel suo
libro la ricchezza di riferimenti a testi letterari anche lontani dal
suo ambito di studi. Quali sono le sue abitudini di lettura?
«Le farò una
confidenza: non leggo mai romanzi. Amo molto la poesia. Quando ci si
occupa di storia, è facile avere un rifiuto per i romanzi».
— Forse trova nella
storia la dimensione romanzesca?
«Sì, è così. Prenda
il caso di Zola: tutta la parte non "estetica", non
"poetica" della sua opera svanisce al contatto con la
storia».
— Vuole dirci
qualcosa sull'«Histoire de la vie privée»,
l'imponente impresa storiografica di cui è uscito da poco il primo
tomo da lei curato, relativo al periodo «Dall'Impero romano all'anno
mille»? «L'idea è partita da Philippe Ariès, l'autore dei
saggi sulla storia della morte in Occidente, scomparso l'anno scorso.
Si può dire che questa iniziativa sancisca due cose: da un lato
l'esaurirsi della tradizione delle Annales, dall'altro l'emergere
nella scuola storiografica francese di una tendenza storicistica che
va ricollegata, direttamente o indirettamente, al lavoro di Michel
Foucault. Gli storici francesi hanno finalmente cessato di essere
cartesiani».
— Come va intesa la
nozione di «privato»? Non si tratta, suppongo, solo di una storia
della vita quotidiana.
«Occorre partire da due
idee: 1) Gli uomini, a differenza degli animali, sono esseri che
hanno un'idea di se stessi e che la organizzano. È quello che si
definisce lo "stile di vita". 2) È possibile cominciare a
trasformare le relazioni umane senza aspettare una rivoluzione più
generale. Spesso i piccoli dettagli fanno vacillare le grandi
strutture: sono come il granello di sabbia che blocca l'ingranaggio».
— Un'ultima domanda:
l'indagine sul privato dei Romani ha rivelato particolari nascosti o
inattesi?
«Abbiamo potuto osservare il ruolo enorme, gigantesco
della corruzione. L'impero romano, come l'impero turco, come l'impero
cinese, si fonda sul backehich (la bustarella) e sulla
estorsione. Ma ciò non era recepito in modo apocalittico: era
ammesso. L'eccezione, semmai, è il funzionario integerrimo quale lo
vorrebbe l'occidente moderno. In tutti gli Imperi antichi ciò che
oggi chiamiamo Amministrazione era in effetti un racket.
L'amministrazione romana, di cui spesso si vanta l'efficienza, e una
mafia che invece di essere perseguita dalla polizia è utilizzata dal
potere centrale, con relativa spartizione dei profitti. In epoca
moderna c'è stato un equivalente molto preciso: Al Capone, padrone
onnipotente di Chicago, durante la crisi del '29 distribuiva cibo
alla gente e intratteneva ottimi rapporti con il sindaco della città.
L'Impero romano non è altro che questo».
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