Vittorio Gassman con Agostina Belli in "Profumo di donna" (Dino risi, 1974) |
La grande maggioranza
degli italiani che non ha mai visto Vittorio Gassman a teatro lo
ricorderà per i film: visti al cinema, rivisti in tv, sepolti nella
memoria collettiva. Ebbene, per paradossale che possa sembrare, una
valutazione del Gassman cinematografico è difficile ancora oggi, ed
è stata estremamente di-continua nel corso dei decenni.
Oggi può apparire
incredibile, ma alla fine degli anni ‘50 (prima dei Soliti
ignoti, che è un titolo di svolta) la prestigiosa Enciclopedia
dello Spettacolo, in una voce firmata da Giulio Cesare Castello,
poteva scrivere: «Di ben modesta rilevanza appare il contributo
recato da Gassman al cinema»; e in quello stesso periodo Mario
Monicelli doveva lottare per imporlo come protagonista dei Soliti
ignoti. Esattamente come Sordi prima di Un americano a Roma,
Gassman - questa la «vox populi», soprattutto di distributori ed
esercenti - «faceva scappare la gente dal cinema». Era considerato
«trombone» ed «antipatico». Il fatto che potesse far ridere, poi,
era pura fantascienza.
Ingiustizia? Cecità?
Invidia?
Meglio considerare un
altro aspetto della vicenda: innamorato, da attore autentico, del
teatro, Gassman detestava il cinema e ne era in qualche misura
ricambiato.
Gli affidavano ruoli da
cattivo, o da seduttore. Spesso lo doppiavano. Pochi registi
riuscivano a «scrostare», dalla sua recitazione, l’impostazione
teatrale e la conseguente artificiosità, che al cinema sono a volte
deleterie. Di più: l’esperienza a Hollywood, fra il 1953 e il
1955, era stata - umanamente e professionalmente - un disastro.
L’unico titolo, di quel primo decennio, baciato da indiscusso
successo era stato Riso amaro, di Giuseppe De Santis: e anche
lì era il cattivo, il gangster bellimbusto che mette nei guai la
dolce Silvana Mangano. A rivedere, oggi, quel film si affacciano
prepotenti due considerazioni. La prima: il successo era dovuto in
buona misura alla presenza folgorante della Mangano, e alla magica
miscela che De Santis aveva saputo operare fra neorealismo e cinema
popolare. La seconda: è incredibile quanto sia più sobria, e quindi
più «cinematografica», la prova di Raf Vallone.
Infilato nel cinema degli
anni ’40 e ‘50, Gassman sembrava l’incongrua citazione di un
universo alieno e inconciliabile. Le cose non miglioravano granché
in film avventurosi come La figlia del capitano, Il lupo
della Sila, Il leone di Amalfi, Lo sparviero del Nilo,
Il sogno di Zorro, L’urlo dell’inseguito: bastano i
titoli, no? Poi, nel ’58, vennero I soliti ignoti e Peppe
«er Pantera», pugile suonato e ladro improbabile. Quale fu la
tattica di Monicelli? Intanto fece ingoiare la sua presenza
affiancandogli due nomi più rassicuranti al botteghino come Marcello
Mastroianni e Renato Salvatori, e garantendosi una comparsata di
Totò. Poi affidò Gassman al truccatore Piero Gherardi che gli
gonfiò le guance, gli abbassò la fronte, gli stortò il naso.
Infine, lo costrinse al dialetto: un romanesco balbuziente e ruspante
che, nelle scene con la servetta Nicoletta (Carla Gravina), sfociava
in un folle miscuglio di piemontese e veneto (memorabile quando
chiama Mastroianni «poareto») e naturalmente faceva a pugni con
l’italiano, quando pretendeva di spiegare i suoi piani per il colpo
in modo «sc-sc-scientifico».
Fu una rivelazione.
L’incontro fra la recitazione comica nutrita dal varietà (da cui
proveniva il 99% della commedia all’italiana) e i trucchi della
commedia dell’arte (quello di Peppe è un tipico «capitano»
cialtrone, circondato da luogotenenti ancor più scalcinati) fu
deflagrante. Il film ebbe un successo strepitoso e diede vita a un
seguito altrettanto divertente e fortunato, Audace colpo dei
soliti ignoti (1959). E Gassman divenne il quarto nome di un
magnifico poker, con Sordi, Tognazzi e Manfredi.
Ripercorrere le commedie
interpretate da Gassman significa citare i film della nostra
infanzia.
In rapida successione
vennero La grande guerra, altro capolavoro di Monicelli in cui
faceva l’imboscato milanese (1959); Crimen di Camerini
(1960); lo straordinario Il mattatore di Risi (1960), scritto
da un quartetto di geni come Age, Scarpelli, Scola & Maccari, in
cui Gassman si scatena interpretando un Fregoli della truffa capace
di mirabolanti trasformismi (è di fatto un film sul «mestiere di
attore», uno dei più importanti per capire la vera stoffa
dell’uomo); di nuovo con Risi, La marcia su Roma (1962) in
coppia con Tognazzi e naturalmente, nello stesso anno, Il
sorpasso, forse il suo ruolo in assoluto più memorabile. E
l’anno dopo, di nuovo con Risi e Tognazzi, l’affresco dei Mostri,
il documentario più feroce sull’Italia del boom.
Sta diventando un attore
«realistico», Gassman? Un interprete del costume, una maschera
multiuso per i vizi e i vezzi dell’italiano medio, come Sordi? Non
sia mai. Arriva il 1965 e arriva l’altro ruolo imprescindibile, il
cavaliere cialtrone di L’armata Brancaleone (regia di
Monicelli). Sentirlo mentre vanta le sue vittorie contro «Groppone
da Ficulle», insulta il suo ca-vallo («Aquilante! Mala bestia!»)
ed incita i suoi «prodi» a seguirlo fino «a lo santo, a lo
santissimo Sepolcro» rimarrà per sempre una delle esperienze
fondanti della nostra vita di spettatori.
Dopo Brancaleone alle
crociate, In nome del popolo italiano (1970, il film di
Risi che anticipa Tangentopoli), dopo Il tigre, Gassman è ricco, è
indiscusso, fa ciò che vuole a teatro e comincia a levarsi degli
sfizi anche al cinema. Si diverte a incontrare registi lontani dal
genere comico, come il Marco Ferreri dell’Udienza (1971) o
il Valerio Zurlini del Deserto dei tartari (1976). Si diverte
a scegliere ruoli di puro divertimento istrionico, come lo Scarpia di
La Tosca (di Gigi Magni, 1973) o il vecchio ufficiale cieco di
Profumo di donna (di Risi, 1974). Apprezza moltissimo il
coinvolgimento in due film di Robert Altman, Un matrimonio
(1978) e l’innevato, surreale Quintet (1979).
E poi, naturalmente,
trova in Ettore Scola il terzo regista (dopo Risi e Monicelli) che
gli regala ruoli dove il divertimento si incontra con lo spessore
drammaturgico: è magnifico, accanto a Manfredi, in C’eravamo
tanto amati, dove incarna le disillusioni di un’Italia passata
dall’epopea partigiana al capitalismo burino (fantastiche le scene
in coppia con il suocero-palazzinaro Aldo Fabrizi, che gli urla,
paralitico: «Semo rimasti solo io e te. E io nun moro!»). È un
deputato comunista, psicologicamente devastato da una relazione
extraconiugale, nella Terrazza, ed è il patriarca Carlo nella
Famiglia, dove dimostra di aver imparato, con gli anni, a
recitare sotto le righe, e riesce a raccontare una vita mangiando un
piatto di spaghetti; mettete questa scena, seria, accanto a quella,
comica, di Sordi in Un americano a Roma («Macaroni! M’hai
provocato e te distruggo») e avrete, in folgorante sintesi, la
storia d’Italia.
Citare tutti i film
riempirebbe questo giornale. Gli ultimi due ruoli, curiosamente, sono
da boss mafioso: nel filmone hollywoodiano Sleepers e nel
piccolo film italiano La bomba, di Giulio Base, accanto a suo
figlio Alessandro. Chissà se amava ancora il cinema, se lo vedeva,
se si raccapezzava fra effetti speciali ed eterna «crisi» del
cinema italiano. È più verosimile che solo il teatro, il rapporto
diretto con gli allievi e gli spettatori, desse sollievo alla
depressione che lo colpiva negli ultimi anni. E che se il cinema del
2000 avesse potuto parlargli, e chiedergli il segreto dei bei film di
una volta, avrebbe ricevuto la stessa risposta che nella Grande
guerra il fante Giovanni Busacca rivolge all’ufficiale
austriaco, per poi affrontare, improvvisamente spavaldo, il plotone
d’esecuzione: «Mi te disi un bel nient, faccia de merda!».
“l'Unità”, 30 giugno
2000
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