12.9.18

Branca e gli altri. Vittorio Gassman al cinema (Alberto Crespi)

Vittorio Gassman con Agostina Belli in "Profumo di donna" (Dino risi, 1974)

La grande maggioranza degli italiani che non ha mai visto Vittorio Gassman a teatro lo ricorderà per i film: visti al cinema, rivisti in tv, sepolti nella memoria collettiva. Ebbene, per paradossale che possa sembrare, una valutazione del Gassman cinematografico è difficile ancora oggi, ed è stata estremamente di-continua nel corso dei decenni.
Oggi può apparire incredibile, ma alla fine degli anni ‘50 (prima dei Soliti ignoti, che è un titolo di svolta) la prestigiosa Enciclopedia dello Spettacolo, in una voce firmata da Giulio Cesare Castello, poteva scrivere: «Di ben modesta rilevanza appare il contributo recato da Gassman al cinema»; e in quello stesso periodo Mario Monicelli doveva lottare per imporlo come protagonista dei Soliti ignoti. Esattamente come Sordi prima di Un americano a Roma, Gassman - questa la «vox populi», soprattutto di distributori ed esercenti - «faceva scappare la gente dal cinema». Era considerato «trombone» ed «antipatico». Il fatto che potesse far ridere, poi, era pura fantascienza.
Ingiustizia? Cecità? Invidia?
Meglio considerare un altro aspetto della vicenda: innamorato, da attore autentico, del teatro, Gassman detestava il cinema e ne era in qualche misura ricambiato.
Gli affidavano ruoli da cattivo, o da seduttore. Spesso lo doppiavano. Pochi registi riuscivano a «scrostare», dalla sua recitazione, l’impostazione teatrale e la conseguente artificiosità, che al cinema sono a volte deleterie. Di più: l’esperienza a Hollywood, fra il 1953 e il 1955, era stata - umanamente e professionalmente - un disastro. L’unico titolo, di quel primo decennio, baciato da indiscusso successo era stato Riso amaro, di Giuseppe De Santis: e anche lì era il cattivo, il gangster bellimbusto che mette nei guai la dolce Silvana Mangano. A rivedere, oggi, quel film si affacciano prepotenti due considerazioni. La prima: il successo era dovuto in buona misura alla presenza folgorante della Mangano, e alla magica miscela che De Santis aveva saputo operare fra neorealismo e cinema popolare. La seconda: è incredibile quanto sia più sobria, e quindi più «cinematografica», la prova di Raf Vallone.
Infilato nel cinema degli anni ’40 e ‘50, Gassman sembrava l’incongrua citazione di un universo alieno e inconciliabile. Le cose non miglioravano granché in film avventurosi come La figlia del capitano, Il lupo della Sila, Il leone di Amalfi, Lo sparviero del Nilo, Il sogno di Zorro, L’urlo dell’inseguito: bastano i titoli, no? Poi, nel ’58, vennero I soliti ignoti e Peppe «er Pantera», pugile suonato e ladro improbabile. Quale fu la tattica di Monicelli? Intanto fece ingoiare la sua presenza affiancandogli due nomi più rassicuranti al botteghino come Marcello Mastroianni e Renato Salvatori, e garantendosi una comparsata di Totò. Poi affidò Gassman al truccatore Piero Gherardi che gli gonfiò le guance, gli abbassò la fronte, gli stortò il naso. Infine, lo costrinse al dialetto: un romanesco balbuziente e ruspante che, nelle scene con la servetta Nicoletta (Carla Gravina), sfociava in un folle miscuglio di piemontese e veneto (memorabile quando chiama Mastroianni «poareto») e naturalmente faceva a pugni con l’italiano, quando pretendeva di spiegare i suoi piani per il colpo in modo «sc-sc-scientifico».
Fu una rivelazione. L’incontro fra la recitazione comica nutrita dal varietà (da cui proveniva il 99% della commedia all’italiana) e i trucchi della commedia dell’arte (quello di Peppe è un tipico «capitano» cialtrone, circondato da luogotenenti ancor più scalcinati) fu deflagrante. Il film ebbe un successo strepitoso e diede vita a un seguito altrettanto divertente e fortunato, Audace colpo dei soliti ignoti (1959). E Gassman divenne il quarto nome di un magnifico poker, con Sordi, Tognazzi e Manfredi.
Ripercorrere le commedie interpretate da Gassman significa citare i film della nostra infanzia.
In rapida successione vennero La grande guerra, altro capolavoro di Monicelli in cui faceva l’imboscato milanese (1959); Crimen di Camerini (1960); lo straordinario Il mattatore di Risi (1960), scritto da un quartetto di geni come Age, Scarpelli, Scola & Maccari, in cui Gassman si scatena interpretando un Fregoli della truffa capace di mirabolanti trasformismi (è di fatto un film sul «mestiere di attore», uno dei più importanti per capire la vera stoffa dell’uomo); di nuovo con Risi, La marcia su Roma (1962) in coppia con Tognazzi e naturalmente, nello stesso anno, Il sorpasso, forse il suo ruolo in assoluto più memorabile. E l’anno dopo, di nuovo con Risi e Tognazzi, l’affresco dei Mostri, il documentario più feroce sull’Italia del boom.
Sta diventando un attore «realistico», Gassman? Un interprete del costume, una maschera multiuso per i vizi e i vezzi dell’italiano medio, come Sordi? Non sia mai. Arriva il 1965 e arriva l’altro ruolo imprescindibile, il cavaliere cialtrone di L’armata Brancaleone (regia di Monicelli). Sentirlo mentre vanta le sue vittorie contro «Groppone da Ficulle», insulta il suo ca-vallo («Aquilante! Mala bestia!») ed incita i suoi «prodi» a seguirlo fino «a lo santo, a lo santissimo Sepolcro» rimarrà per sempre una delle esperienze fondanti della nostra vita di spettatori.
Dopo Brancaleone alle crociate, In nome del popolo italiano (1970, il film di Risi che anticipa Tangentopoli), dopo Il tigre, Gassman è ricco, è indiscusso, fa ciò che vuole a teatro e comincia a levarsi degli sfizi anche al cinema. Si diverte a incontrare registi lontani dal genere comico, come il Marco Ferreri dell’Udienza (1971) o il Valerio Zurlini del Deserto dei tartari (1976). Si diverte a scegliere ruoli di puro divertimento istrionico, come lo Scarpia di La Tosca (di Gigi Magni, 1973) o il vecchio ufficiale cieco di Profumo di donna (di Risi, 1974). Apprezza moltissimo il coinvolgimento in due film di Robert Altman, Un matrimonio (1978) e l’innevato, surreale Quintet (1979).
E poi, naturalmente, trova in Ettore Scola il terzo regista (dopo Risi e Monicelli) che gli regala ruoli dove il divertimento si incontra con lo spessore drammaturgico: è magnifico, accanto a Manfredi, in C’eravamo tanto amati, dove incarna le disillusioni di un’Italia passata dall’epopea partigiana al capitalismo burino (fantastiche le scene in coppia con il suocero-palazzinaro Aldo Fabrizi, che gli urla, paralitico: «Semo rimasti solo io e te. E io nun moro!»). È un deputato comunista, psicologicamente devastato da una relazione extraconiugale, nella Terrazza, ed è il patriarca Carlo nella Famiglia, dove dimostra di aver imparato, con gli anni, a recitare sotto le righe, e riesce a raccontare una vita mangiando un piatto di spaghetti; mettete questa scena, seria, accanto a quella, comica, di Sordi in Un americano a Roma («Macaroni! M’hai provocato e te distruggo») e avrete, in folgorante sintesi, la storia d’Italia.
Citare tutti i film riempirebbe questo giornale. Gli ultimi due ruoli, curiosamente, sono da boss mafioso: nel filmone hollywoodiano Sleepers e nel piccolo film italiano La bomba, di Giulio Base, accanto a suo figlio Alessandro. Chissà se amava ancora il cinema, se lo vedeva, se si raccapezzava fra effetti speciali ed eterna «crisi» del cinema italiano. È più verosimile che solo il teatro, il rapporto diretto con gli allievi e gli spettatori, desse sollievo alla depressione che lo colpiva negli ultimi anni. E che se il cinema del 2000 avesse potuto parlargli, e chiedergli il segreto dei bei film di una volta, avrebbe ricevuto la stessa risposta che nella Grande guerra il fante Giovanni Busacca rivolge all’ufficiale austriaco, per poi affrontare, improvvisamente spavaldo, il plotone d’esecuzione: «Mi te disi un bel nient, faccia de merda!».

“l'Unità”, 30 giugno 2000

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