11.9.18

I “non rifugiati”. Un viaggio tra milioni di uomini che non hanno o non vogliono asilo (Lara Ricci)



Abituati come siamo a un racconto della storia che poggia sui territori, ci perdiamo un’altra storia, quella di chi una terra non ce l’ha più, «la macchia scura che passa le frontiere sulle carte geografiche e ne dissolve le forme» (Derek Walcott in Migranti). Coloro che hanno abbandonato le proprie case e vivono anche per tutta la vita in abitazioni di fortuna o nel limbo di campi profughi, l’1% della popolazione mondiale, 65 milioni di persone di cui solo un terzo ha attraversato confini nazionali, il resto è sfollato nel proprio paese.
Non siamo rifugiati, del giornalista catalano Agus Morales (pref. di Martín Caparrós, trad. di Sara Cavarero, foto di Anna Surinyach, Einaudi, Torino), spostandosi attraverso 17 Stati, racconta «chi sono quelli che vogliamo ignorare, che vogliamo rifiutare; da dove vengono, perché vengono», dove si fermano, «come, quando, dove arrivano quelli che arrivano» (scrive Martín Caparrós nella prefazione), sempre che arrivare significhi qualcosa. Rende conto del «continente dei rifugiati senza rifugio», che si è formato molto tempo prima che, per poco, l’opinione pubblica europea sembrasse veramente interessarsene, scossa dall’emozione per un figlio dei fantasmi che pareva nostro, arenato a faccia in giù su una spiaggia turca, ben prima che tale continente informe fosse definito un’emergenza e trasformato in un serbatoio di paure, di un innumerabile esercito che preme alle nostre porte.
Probabilmente questo articolo o il reportage narrativo di cui parla lo leggerà solo chi già un po’ sa, chi è disposto a sapere e ben poco vale allora che Morales annunci che «in questo libro non c’è un ritratto tipo del nemico invasore che una parte della destra vuole creare» e che «non c’è un ritratto tipo dell’amico vulnerabile che una parte della sinistra vuole creare: non ci sono esseri angelicali, non ci sono lacrimevoli bugie, non c’è una rivendicazione dell’apertura delle frontiere» (affermando poi che «però in questo libro non c’è una falsa equidistanza»). Ma così è, si tratta di un testo meditato che aiuta a capire, non a rafforzare le proprie opinioni o a difendere le proprie debolezze.
Non siamo rifugiati non è certo il primo volume che si occupa di coloro che l’esclusivo status di rifugiato non lo otterranno mai e di quelli che spariscono prima di arrivare, di clandestini, «di chi per morte s’imbarca / come su di un’arca/ di libertà, coi bisogni/ stretti alla vita e i sogni/ zavorra viavia/ da gettare» (come Stefano D’Arrigo descrive gli emigranti siciliani in Pregreca, 1957). Vanno ricordati (e riletti) almeno lo struggente Bilal (Rizzoli, 2007), dell’inviato Fabrizio Gatti che coi migranti ha attraversato il Sahara da Dakar alla Libia, una delle tratte più pericolose; o La frontiera (Feltrinelli, 2015), del giornalista Alessandro Leogrande che ha ascoltato per vent’anni le testimonianze di chi arriva e, di riflesso, ha ricostruito quel che subivano gli stranieri nel Sinai o in Libia ben prima dello “scoop” della CNN del 2017, o l’orrore che si perpetua in Eritrea, per esempio nei già campi di concentramento italiani; o ancora, abbandonando il reportage per passare alla poesia e alla narrativa, L’opposta riva e L’opposta riva (dieci anni dopo) (Lieto Colle, 2006, La vita felice 2013) di Fabiano Alborghetti, poeta che ha vissuto per tre anni con i clandestini e ha dato vita a una «Spoon River dei vivi» - ma invisibili - sottile e penetrante, e Lei è un altro paese (Casagrande, 2018), i perturbanti racconti dello scrittore Saleh Addonia che nei campi profughi è cresciuto.
Non siamo rifugiati è però il testo più aggiornato e l’autore ha fatto un considerevole sforzo per dare forma e coerenza a questo continente sparpagliato di gente che con la terra ha perduto quasi tutti i diritti, per restituire loro una storia e una dignità («la dignità consiste nel risanare la tua vita»), un «dirsi presenti anche senza il luogo» (Alborghetti).
Ponendo particolare enfasi su coloro che vogliono solo tornare a casa o che rifugiati non saranno mai o non si considerano affatto, il viaggio di Morales passa dall’AfPak (acronimo dell’inscindibile regione afgano-pakistana) alla Repubblica Centrafricana, dalla Siria (dove «il silenzio divora le ore») al Sudan del Sud e al centro America. L’autore cerca di raccontare le vite delle persone e non solo i loro traumi, come fa chi «fomenta la compassione e la condiscendenza spinto forse da qualche senso di superiorità». C’è Mohamed Abyad, il chirurgo siriano dalla «voce rotta, grave, cavernosa come un adolescente che la sta cambiando, tra l’afonia e la maturità», l’ateo che ricuciva i corpi spaccati dalle bombe, non voleva essere rifugiato e diceva «non baratto la mia libertà per la mia sicurezza», ucciso come tanti medici e giornalisti, c’è la congolese Julienne Akilimali che a casa non tornerà mai perché è stata violentata con sua figlia e la comunità le rifiuterebbe («lo stupro è un’arma di sfollamento ”forzoso”»).
Scrive Fabrizio Gatti nella prefazione di Mare Nero (Ernesto Di Lorenzo editore, Alcamo) - raccolta di reportage di Francesco Viviano sul “fronte dei migranti” - «i sopravvissuti all’Olocausto ci hanno insegnato che chi ascolta un superstite diventa a sua volta testimone». Anche chi non si sente colpevole, a torto o a ragione, in questi anni non può non accettare la responsabilità del testimone.

“il Sole 24 ore Domenica”, 26 agosto 2018

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