Abituati come siamo a un
racconto della storia che poggia sui territori, ci perdiamo un’altra
storia, quella di chi una terra non ce l’ha più, «la macchia
scura che passa le frontiere sulle carte geografiche e ne dissolve le
forme» (Derek Walcott in Migranti). Coloro che hanno
abbandonato le proprie case e vivono anche per tutta la vita in
abitazioni di fortuna o nel limbo di campi profughi, l’1% della
popolazione mondiale, 65 milioni di persone di cui solo un terzo ha
attraversato confini nazionali, il resto è sfollato nel proprio
paese.
Non siamo rifugiati,
del giornalista catalano Agus Morales (pref. di Martín Caparrós,
trad. di Sara Cavarero, foto di Anna Surinyach, Einaudi, Torino),
spostandosi attraverso 17 Stati, racconta «chi sono quelli che
vogliamo ignorare, che vogliamo rifiutare; da dove vengono, perché
vengono», dove si fermano, «come, quando, dove arrivano quelli che
arrivano» (scrive Martín Caparrós nella prefazione), sempre che
arrivare significhi qualcosa. Rende conto del «continente dei
rifugiati senza rifugio», che si è formato molto tempo prima che,
per poco, l’opinione pubblica europea sembrasse veramente
interessarsene, scossa dall’emozione per un figlio dei fantasmi che
pareva nostro, arenato a faccia in giù su una spiaggia turca, ben
prima che tale continente informe fosse definito un’emergenza e
trasformato in un serbatoio di paure, di un innumerabile esercito che
preme alle nostre porte.
Probabilmente questo
articolo o il reportage narrativo di cui parla lo leggerà solo chi
già un po’ sa, chi è disposto a sapere e ben poco vale allora che
Morales annunci che «in questo libro non c’è un ritratto tipo del
nemico invasore che una parte della destra vuole creare» e che «non
c’è un ritratto tipo dell’amico vulnerabile che una parte della
sinistra vuole creare: non ci sono esseri angelicali, non ci sono
lacrimevoli bugie, non c’è una rivendicazione dell’apertura
delle frontiere» (affermando poi che «però in questo libro non c’è
una falsa equidistanza»). Ma così è, si tratta di un testo
meditato che aiuta a capire, non a rafforzare le proprie opinioni o a
difendere le proprie debolezze.
Non siamo rifugiati non è
certo il primo volume che si occupa di coloro che l’esclusivo
status di rifugiato non lo otterranno mai e di quelli che spariscono
prima di arrivare, di clandestini, «di chi per morte s’imbarca /
come su di un’arca/ di libertà, coi bisogni/ stretti alla vita e i
sogni/ zavorra viavia/ da gettare» (come Stefano D’Arrigo descrive
gli emigranti siciliani in Pregreca, 1957). Vanno ricordati (e
riletti) almeno lo struggente Bilal (Rizzoli, 2007),
dell’inviato Fabrizio Gatti che coi migranti ha attraversato il
Sahara da Dakar alla Libia, una delle tratte più pericolose; o La
frontiera (Feltrinelli, 2015), del giornalista Alessandro
Leogrande che ha ascoltato per vent’anni le testimonianze di chi
arriva e, di riflesso, ha ricostruito quel che subivano gli stranieri
nel Sinai o in Libia ben prima dello “scoop” della CNN del 2017,
o l’orrore che si perpetua in Eritrea, per esempio nei già campi
di concentramento italiani; o ancora, abbandonando il reportage per
passare alla poesia e alla narrativa, L’opposta riva e
L’opposta riva (dieci anni dopo) (Lieto Colle, 2006, La vita
felice 2013) di Fabiano Alborghetti, poeta che ha vissuto per tre
anni con i clandestini e ha dato vita a una «Spoon River dei vivi»
- ma invisibili - sottile e penetrante, e Lei è un altro paese
(Casagrande, 2018), i perturbanti racconti dello scrittore Saleh
Addonia che nei campi profughi è cresciuto.
Non siamo rifugiati
è però il testo più aggiornato e l’autore ha fatto un
considerevole sforzo per dare forma e coerenza a questo continente
sparpagliato di gente che con la terra ha perduto quasi tutti i
diritti, per restituire loro una storia e una dignità («la dignità
consiste nel risanare la tua vita»), un «dirsi presenti anche senza
il luogo» (Alborghetti).
Ponendo particolare
enfasi su coloro che vogliono solo tornare a casa o che rifugiati non
saranno mai o non si considerano affatto, il viaggio di Morales passa
dall’AfPak (acronimo dell’inscindibile regione afgano-pakistana)
alla Repubblica Centrafricana, dalla Siria (dove «il silenzio divora
le ore») al Sudan del Sud e al centro America. L’autore cerca di
raccontare le vite delle persone e non solo i loro traumi, come fa
chi «fomenta la compassione e la condiscendenza spinto forse da
qualche senso di superiorità». C’è Mohamed Abyad, il chirurgo
siriano dalla «voce rotta, grave, cavernosa come un adolescente che
la sta cambiando, tra l’afonia e la maturità», l’ateo che
ricuciva i corpi spaccati dalle bombe, non voleva essere rifugiato e
diceva «non baratto la mia libertà per la mia sicurezza», ucciso
come tanti medici e giornalisti, c’è la congolese Julienne
Akilimali che a casa non tornerà mai perché è stata violentata con
sua figlia e la comunità le rifiuterebbe («lo stupro è un’arma
di sfollamento ”forzoso”»).
Scrive Fabrizio Gatti
nella prefazione di Mare Nero (Ernesto Di Lorenzo editore,
Alcamo) - raccolta di reportage di Francesco Viviano sul “fronte
dei migranti” - «i sopravvissuti all’Olocausto ci hanno
insegnato che chi ascolta un superstite diventa a sua volta
testimone». Anche chi non si sente colpevole, a torto o a ragione,
in questi anni non può non accettare la responsabilità del
testimone.
“il Sole 24 ore
Domenica”, 26 agosto 2018
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