20.9.18

La scienza in scena (Luca Ronconi)

Luca Ronconi
Nel 2001 mentre preparava non solo con suoi attori, ma anche con allievi della scuola di teatro del “Piccolo” e con ricercatori e studenti del Politecnico meneghino la sua traduzione teatrale di Infinities del cosmologo e matematico inglese John D. Barrow, rappresentata al Piccolo Teatro di Milano a partire dal marzo 2002, fu invitato a un convegno veneziano a discorrere del rapporto scienza-teatro. Impossibilitato a partecipare inviò il contributo scritto che segue, prima pubblicato nel volume che raccoglieva gli atti dell'incontro lagunare (Matematica e cultura, Springer Verlag 2002) poi diffusa in rete da Alfabeta 2, dal cui sito l'ho ripreso. Non si tratta, a mio avviso, di un contributo di tipo teorico o storiografico; è piuttosto un'interrogazione sul proprio modo di fare teatro e sul valore della scienza dentro di esso, una pagina di “poetica”. (S.L.L.)

Una foto di scena da "Infinities"
Forse come d’obbligo di queste occasioni ufficiali, ma certo con sincerità e una convinzione che hanno poco a che spartire con il garbato formalismo delle frasi fatte e dei cerimoniali di circostanza, desidero in primo luogo ringraziare gli organizzatori di questo convegno per la stima e la considerazione dimostratemi, invitandomi a prendere parte alla giornata di studi da loro promossa. D’altro canto a questo doveroso ringraziamento devo subito associare delle scuse non meno doverose: essendo ormai imminente il debutto del prossimo spettacolo, mi trovo infatti in questi giorni nella materiale impossibilità di allontanarmi da Milano accettando l’invito indirizzatomi. Non potendo prendere parte all’incontro ho allora creduto giusto affidare a queste poche cartelle di appunti il mio saluto a distanza a tutti i presenti e soprattutto le mie opinioni, o forse meglio impressioni – sul rapporto teatro/scienza, tema intorno al quale avrebbe dovuto vertere la mia relazione al simposio veneziano.
Per fissare immediatamente i limiti delle mie considerazioni ritengo necessario premettere a questo breve intervento – quasi epistolare – una sorta di dichiarazione di metodo o di principio. In oltre trent’anni d’attività mi è capitato in più di una circostanza di dichiarare di non essere, a differenza di altri miei colleghi del passato e del presente, un regista teorico: come spesso mi sono trovato ad osservare nel corso di interviste, dibattiti o altri appuntamenti culturali, il mio lavoro non nasce dall’applicazione di una teoria e nemmeno amo teorizzare a posteriori sul teatro – ho come l’impressione infatti che se lo facessi non sarei più in grado di cimentarmi in quell’operazione sempre nuova che è la messa in scena di un testo. Proprio in virtù di questa mia spontanea inclinazione al culto di quella che, con Goethe, mi piace definire la delicata empiria, nell’affrontare una questione complessa come quella del rapporto tra discorso scientifico e azione drammatica, dalla tragedia greca all’allegoria barocca, dal grandguignol alle ricerche post-avanguardia, mi limiterò ad esprimere il mio personalissimo punto di vista riguardo alla possibilità e all’opportunità di teatralizzare l’appassionante avventura della scienza a partire da un caso concretissimo: lo spettacolo scientifico che, come già stato più volte annunciato nei mesi scorsi, nel corso della prossima stagione dirigerò per il Piccolo Teatro di Milano lavorando su un testo scritto per l’occasione da John D. Barrow.
Il mio interesse registico per l’esperienza scientifica nasce dall’esigenza – per non dire dall’urgenza – di trovare nuovi modi per portare – o in un certo senso riportare – la contemporaneità in teatro. Da Brech ad Artaud, da Lukacs a Szondi, tutti i maggiori militanti e teorici della scena del Novecento si sono interrogati sulla possibilità o impossibilità di raccontare teatralmente il mondo contemporaneo... Veri e propri fiumi di inchiostro sono stati versati in questi ultimi decenni intorno alla crisi della scrittura per la scena...
Se dall’antichità classica fino alle soglie del ventesimo secolo le diverse civiltà che si sono avvicendate nel mondo occidentale hanno sempre finito con l’autorappresentarsi sulle tavole di ben precisi e strutturati palcoscenici ideali, la sensazione oggi diffusa è che al contrario, l’euforica e immemore società dello spettacolo in cui viviamo tenda paradossalmente a sottrarsi alla possibilità di affabularsi in altrettanto precisi e strutturati paradigmi drammaturgici. Personalmente ritengo che la via da percorrere per riscoprire l’attualità dell’esperienza scenica non sia tanto quella di perseguire una iperrealistica mimesi del quotidiano – postmoderno aggiornamento della poetica verista della tranche de vie che, riducendo il teatro a cronaca, come per altro il proprio archetipo borghese/ottocentesco, condanna l’esperienza drammaturgica ad invecchiare con la stessa rapidità con cui si fa carta straccia dei giornali del giorno prima – né tanto meno quella di un’ennesima rivisitazione up to date del mito, modello Dioniso in scarpe da tennis – perniciosa variazione spettacolare del pericolosissimo progetto rètro di evasione dalla storia - ma sia piuttosto rappresentata dal tentativo di individuare dei precisi correlati drammaturgici ai nostri moderni modi percettivi e cognitivi.
Muovendo da questo presupposto, credo dunque che – come già anni fa in Italia hanno dimostrato, sul versante delle lettere, scrittori di chiara fama e di indiscussa oltre che indiscutibile autorità quali Vittorini e Calvino, ma come non citare con loro anche il nome dell’ingegner Gadda con quella sua ermeneutica narrativa a soluzioni multiple, distillato di oltre due secoli di impegno gnoseologico di letteratura lombarda ad un tempo così scopertamente figli dell’epistemologia novecentesca - nell’era della scienza in cui viviamo, nel saeculum cioè che forse più di ogni altro ha visto i copioni della vita di ogni giorno adeguarsi direttamente o indirettamente ai precetti del pensiero scientifico, la scienza potrebbe rivelarsi il più conveniente palcoscenico per ospitare un’azione drammatica genuinamente contemporanea.
Sia in obbedienza ai condizionamenti soggettivi imposti dalla mia formazione personale, sia nel rispetto di quella che credo essere l’essenza più profonda del fare teatro, sono dell’avviso che in questa prospettiva di teatralizzazione della prassi scientifica, tesa ad aprire inediti e suggestivi scorci storici sul nostro oggi, sia più conveniente adottare il punto di vista del fruitore non competente, che quello dell’esperto conoscitore. Perché il linguaggio della scienza, trasferendosi in teatro possa sviluppare fedelmente trascritto in scena, evitando ogni filtro esplicativo. In altre parole per progettare uno spettacolo autenticamente scientifico, e non semplicemente di argomento scientifico, sono convinto si debba rinunciare alla strategia politicamente corretta – e tutto sommato demagogica – della divulgazione e si debba piuttosto puntare sulla natura squisitamente esoterica della raffinatissima scienza specialistica moderna. Pur essendo convinto che l’esperienza teatrale non possa non darsi come percorso di conoscenza, non nego però di nutrire una profonda diffidenza verso una scena che si voglia programmaticamente didattica.
L’aula scolastica è la sede più idonea alla spiegazione; il teatro – ben lo sapeva Nietzsche – anche quello a vocazione più scopertamente razionalista, è piuttosto il luogo deputato ad una conoscenza che passa attraverso l’epifania del numinoso, di qualche cosa, cioè, che eccede sempre e comunque le nostre possibilità di conoscere analiticamente. Il futuro della scena credo sia in questo senso legato alla sua matrice antropologica: non a caso fin dalle prime fasi di elaborazione del progetto di drammaturgia scientifica cui ho fatto prima cenno, e che porteremo a compimento la prossima stagione, uno dei primi termini di riferimento – per non dire modelli – dello spettacolo che proprio allora si cominciava a studiare, mi è parso essere l’Orestea, la straordinaria ed inesauribile trilogia di Eschilo espressione, all’epoca del suo compimento, dell’ineffabile pulsione dionisiaca madre della tragedia, ad exemplum, ai giorni nostri, di una ricchissima summa di sapere, condannata a restare per noi inattingibile nella sua insondabile profondità misterica ed al più soltanto intuibile per improvvise folgorazione a-logiche.
Chiarito che principio guida del mio soggettivo approccio teatrale al pensiero scientifico è che la scienza debba essere messa in scena secondo la capacità cognitiva del profano – dunque nella sua irriducibile ed incomprensibile alterità - vorrei ora spiegare brevemente in che termini il commercio teatrale con la scienza possa schiudere, a mio giudizio, inediti orizzonti al linguaggio drammaturgico.
La scelta di drammatizzare il discorso scientifico porta innanzi tutto autori, attori, registi e pubblico a doversi porre radicalmente il problema del funzionamento della comunicazione teatrale, oggi spesso troppo frettolosamente eluso, non solo sul piano della possibilità di trasmissione del messaggio – nei termini di quell’antitesi di transitività ed intransitività del testo cui abbiamo appena fatto cenno - ma anche e soprattutto a livello dei modi di funzionamento del linguaggio tout court. Forma compiuta nell’immaginario collettivo della razionalità analitica dell’oggettivo sapere scientifico, sempre ad un passo dal rischio di sclerotizzarsi in formula, a ben guardare il linguaggio scientifico è invece, per sua intrinseca natura, un codice essenzialmente figurato in rapporto conflittuale con il reale che è chiamato a designare, e che per di più fa criticamente del proprio impianto per tropi e dei propri corto-circuiti referenziali il vero oggetto dei propri enunciati.
Nata dalla necessità di nominare attraverso il vecchio delle precedenti acquisizioni, il nuovo delle continue scoperte, la lingua della scienza, in apparenza paradigma della trasparente e anodina razionalità procedurale postmetafisica, è di fatto il regno dell’irrazionale distorsione della metafora e della riflessione sui fraintendimenti che proprio il continuo ricorso alla metafora porta inevitabilmente con sé. Concentrando di fatto l’attenzione di produttori e fruitori dell’evento teatrale sulle dinamiche evolutive della lingua in generale - sia nei rapporti interni tra i vari elementi del codice linguistico, sia nei rapporti esterni tra il codice e il mondo - il linguaggio della scienza portato in scena, credo possa riuscire a sottrarre la drammaturgia ai ristagni espressivi più diffusi tra i vari registi della scrittura per la scena attuale – dalle sacche tradizionali della caduta nella retorica puramente esornativa o nel vuoto calco gergale alle paludi, forse di più recente formazione, ma non per questo meno pericolose, del compiaciuto abbandono all’apologia dell’incomunicabilità interpersonale, o dell’assurdo dell’esistenza- per restituire il linguaggio del teatro al problematico, ma vivacissimo flusso della comunicazione contemporanea.
Precipitato teatrale delle alterazioni percettive che il progresso culturale e tecnologico ha prodotto soprattutto nel corso dell’ultimo secolo, la trasposizione scenica dell’indagine scientifica permette poi di trovare a mio parere un’adeguata traduzione drammaturgica del mutevole e complesso punto di vista che l’uomo ha oggi sul mondo. Come studiosi ben più dotti e competenti di me, da Walter Benjamin a Stephen Kern, hanno ampiamente dimostrato nei loro eruditi saggi, la nascita del cinema, il trionfo dei nuovi mezzi di locomozione, l’avvento dei media e del sistema delle telecomunicazioni, così come l’esplorazione dell’inconscio o l’imporsi di nuove condizioni di vita nell’orizzonte metropolitano, hanno ridotto negli ultimi cent’anni una drastica relativizzazione delle categorie tradizionali di spazio e tempo, relativizzazione a cui credo si possano aggiungere senza tema di smentita, le strutture drammaturgiche convenzionali – di cui di fatto spesso la scrittura per la scena contemporanea anche nelle sue varianti di ricerca più eterodosse sembra ancora prigioniera – faticano, se non addirittura non riescono a recepire.
L’apertura drammaturgica alla fisica postnewtoniana, alle geometrie non-euclidee o al calcolo infinitesimale - per non fare che alcuni esempi del tutto casuali di teatralizzazione della scienza contemporanea – credo sia dunque un modo per porsi quanto meno il problema di come sia possibile portare in scena la nostra nuova logica di comprensione e percezione della realtà. Per quanto mi riguarda, al fondo di questa volontà di rappresentare il composito sguardo col quale siamo ora portati a capire quanto ci circonda, sta, non lo nego, il sogno che inseguo da una vita – tra gli anfratti dello spazio, gli interstizi del tempo, le incrinature dell’identità e le slabbrature dell’essere sui quali prolifera il nostro oggi, di presentare uno spettacolo infinito, uno spettacolo cioè capace di eccedere nel tempo e nello spazio le facoltà percettive del pubblico, uno spettacolo costruito sulle alterazioni della percezione che possa essere colto da ogni singolo spettatore solo per frammenti e che a posteriori riviva nella memoria di ogni singolo fruitore come soggettivo montaggio delle schegge di messa in scena da lui rubate nel vario offrirsi - e sfarsi – della rappresentazione.
Necessaria conseguenza semantica di quanto sin qui osservato – provvisoria morale in forma di conclusione aperta che per non abusare più a lungo della pazienza dei miei “destinatari” intendo dare a questa teoria di glosse drammaturgiche irrelate, stese al possibile margine scenico della sapienza attuale – è che nello sfolgorante baluginio della sua aforistica sapienza in fitto dialogo col buio dell’enigma, il problematico discorso scientifico contemporaneo, emblema del nostro presente oggettivamente disperso, asincronico, trasformistico e virtuale, portato sulle tavole del palcoscenico, pare ben prestarsi a raccontare la sfuggente varietà dei nostri tempi non meno sfuggenti. Luogo mentale molteplice e diveniente di incontri e separazioni incrociate, mai uguale a se stesso nel suo metamorfico gioco di perpetue smentite, rifondazioni, critiche e scoperte, distribuito su temporalità plurime organizzate per fasce di sovrapposizione simultanea e destrutturabile in un serrato montaggio di prospettive eterogenee, pronte a dispiegarsi nell’infinita curva dell’universo, il discorso scientifico è innegabilmente la scena ideale del nostro senso contemporaneo, di un senso cioè che si rivela e si nasconde in un perpetuo essere altrove, di una verità che esiste, ma sfugge e che non possiamo immaginare ubicata in nessun segreto ricetto da cercare e violare, ma che ci cammina a fianco, si sposta con noi, come il discontinuo giro del nostro orizzonte.
Se il teatro vuole quindi ritrovare oggi al propria dignità e funzione culturale “storica” di luogo di una conoscenza complessa maturata attraverso l’esperienza, è dunque alla scienza che deve probabilmente anche guardare; non già per imitarla pedestramente o peggio ancora per normalizzarla e banalizzarla, riducendola ai propri schemi, ma per trovare in un serio confronto con questo universo cognitivo complementare e antitetico, la propria vera identità e inattualissima attualità.

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