Una foto di Steven Meisel da Vogue Italia |
Seducente, ammiccante,
allusiva. Provocante e provocatoria. Bulimica e sfacciata, onnivora e
corrosiva. Ma, soprattutto, politica. Ai mille attributi della
fotografia di moda, alle sue diverse anime e ai suoi conflitti
interiori – tra le ragioni della creatività e quelle del
commercio, con tutte le sfumature che ci sono nel mezzo – sono oggi
dedicati due percorsi, un libro e una mostra, che riflettono sulla
sua capacità di essere un efficace barometro del tempo in cui
viviamo.
«Il commercio
svanisce, la foto resta»
Fashion & Politics
in Vogue Italia, curata da Alessia Glaviano e Chiara Bardelli
Nonino per il prossimo Photo Vogue Festival (a Base Milano dal 16 al
19 novembre), è un percorso dagli anni ’90 a oggi tra le pagine
del più celebre fashion magazine italiano. Attraverso le immagini
degli editoriali di moda realizzati negli anni della direzione di
Franca Sozzani da fotografi come Steven Meisel, David LaChapelle, Tim
Walker, Peter Lindbergh, Miles Aldridge o Ellen Von Unwerth, la
mostra provoca la nozione comune di buongusto e solleva alcune
questioni: in che modo la fotografia di moda può veicolare idee e
ideali che vanno oltre i semplici intenti commerciali? Ridurre questo
genere a una semplice vetrina pubblicitaria ci aiuta a capire la
portata del suo impatto nel modellare/manipolare il nostro
immaginario e con esso la nostra opinione politica? Tutto avviene
senza voler offrire risposte univoche né rassicuranti.
«Vogue Italia ha sempre
utilizzato la moda per parlare d’altro», spiega Alessia Glaviano.
«Il fatto che un giornale di moda sia un veicolo commerciale non
significa che non possa trasmettere contenuti sociali o anche
esercitare un senso critico sul sistema di cui è parte».
Sviluppando diversi
nuclei tematici, Fashion & Politics mette in relazione
arte e cultura di massa, immagini coraggiose e icone controverse,
rimasticamenti e proiezioni della nostra memoria collettiva. Kristen
McMenamy ritratta da Steven Meisel nei panni di una sirena dark
portata a riva dalla marea nera diventa evocazione del disastro
petrolifero nel Golfo del Messico e metafora di una dialettica sempre
più conflittuale tra uomo e natura. Le bellissime aliene di Peter
Lindbergh reinterpretano, nello scenario di un incerto futuro, la
paura del diverso che segna il contemporaneo. Le bambole in
technicolor di Miles Aldridge, con il carrello della spesa sempre
pieno e la messa in piega perfetta, danno corpo alla caricatura di
un’America bianca, borghese e disperata. I profili neri e fieri
delle modelle di colore, fotografate ancora da Maisel per la cover
del celebre Black Issue di Vogue Italia, sono il volto di una
denuncia, dall’interno del sistema, nei confronti di un’industria
che ha lungamente praticato il razzismo in passerella e nelle pagine
dei magazine. «Black Issue era un atto politico dovuto», afferma
Glaviano. «La fashion photography può e deve preoccuparsi di
questioni come la razza, il genere, l’inclusività, strettamente
connesse al discorso moda; e anche, perché no, spingersi in altri
territori».
Ma fino a dove è lecito
avventurarsi? Dove finisce il diritto/dovere della fotografia di moda
di esprimere una coscienza etica e politica e dove comincia la
strumentalizzazione del conflitto e la glamourizzazione della
protesta? Esiste una differenza tra il Make Love Not War di
Steven Meisel, editoriale del 2007 ispirato alla Guerra del Golfo con
modelle seminude avvinghiate ai soldati in mimetica, e la pubblicità
della Pepsi (poi ritirata per il diluvio di critiche) in cui la musa
degli stilisti e dei millennial Kendall Jenner offre una lattina di
cola a un poliziotto durante una manifestazione, citando l’iconico
scatto Taking a Stand in Baton Rouge in cui Ieshia Evans
fronteggia pacificamente i poliziotti durante gli scontri del Black
Lives Matter? «Per me l’unico discrimine», sostiene Glaviano, «è
la qualità del lavoro e la credibilità del contesto che lo veicola.
Il legame della fotografia di moda con il commercio, in realtà, è
transitorio: finito il tempo della collezione, l’intento
commerciale svanisce; mentre la foto, se è in grado di comunicare su
altri piani, resta. In queste immagini gli abiti sono uno degli
elementi che servono a raccontare la storia, non è la storia che è
a servizio dell’abito».
Esprimere
un’opinione sul mondo
Se la moda è un
territorio di contraddizioni e rivoluzioni, in precario equilibrio
tra consumismo ed elitarismo, rivendicazione identitaria e
omologazione di massa, la fotografia di moda non può che essere un
linguaggio complesso: un codice che, plasmando l’immaginario,
orienta non solo i consumi, ma anche i valori.
Sul filo di questa
riflessione corre un’altra strada, quella del libro Fashion
Photography: The Story in 180 Pictures di Eugénie Shinkle
(Aperture): un percorso in 180 immagini sull’impatto che la
fotografia di moda ha storicamente avuto sulla società e sulla
cultura. «La storia della fotografia di moda», scrive Shinkle, «è
anche la storia di una crescente fiducia di questo genere fotografico
nella propria capacità di esprimere un’opinione sul mondo».
E se gli esordi già
parlano chiaro – basta guardare la satira sociale di Old and New
Styles, immagine stereoscopica realizzata nel 1860 dal fotografo
inglese Michael Burr – è dal secondo dopoguerra che la fotografia
di moda comincia a schierarsi in maniera più esplicita: fotografi
come Henry Clarke danno il loro contributo al cambiamento del ruolo
delle donne nella società, artisti come William Klein mettono in
discussione le convenzioni e incoraggiano un processo di autocritica,
innovatori come Richard Avedon si assumono dei rischi per abbattere
barriere razziali e consuetudini editoriali (a lui si deve la
pubblicazione, su Harper’s Bazaar del 1959, del primo scatto di una
modella non bianca, la cinese-portoghese China Machado).
Negli anni ’90, riviste
come The Face e i-D e immagini come quelle di Corinne Day proiettano
il grunge, con la sua sfida al capitalismo e alla
rispettabilità borghese, verso il grande pubblico, influenzando i
modelli estetici, culturali e sociali di una generazione e aprendo la
strada a una fotografia di moda più concettuale e contaminata.
Una foto di moda di Corinne Day |
Ideali a misura di
t-shirt
Oggi, nell’era del fast
fashion, la moda procede in bilico tra grandi statement e
macroscopiche ipocrisie. Se sfilate e campagne diventano vetrine per
esporre il proprio impegno politico, sono pochi i brand che accettano
di ripensare in maniera più etica la propria produzione: meglio
stampare slogan femministi sulle t-shirt che assumersi la
responsabilità per le condizioni di lavoro disumane della manodopera
femminile a basso costo che le cuce all’altro capo del mondo. La
fashion photography, d’altro canto, fa i conti con vecchie e
nuove schizofrenie. I social network hanno trasformato percorsi e
linguaggi della fotografia di moda: Instagram ha spalancato una nuova
frontiera di espressione e riflessione a fotografi come Campbell
Addy, Harley Weir, Robi Rodriguez o Mayan Toledano, che veicolano,
tra arte e moda, la propria coscienza politica; ma ha anche dischiuso
il claustrofobico confine della cameretta delle influencer, nei cui
specchi distorcenti la realtà sembra ridursi a un #lookoftheday.
«Le immagini veicolate
dai social», dice Alessia Glaviano, «stanno contribuendo a far
cadere pregiudizi e a cambiare l’opinione pubblica, trasformando
pure le dinamiche dell’industria. Ma la moda oggi passa anche e
soprattutto per gli account di ragazze carine che si limitano a
indossare vestiti. Mi auguro che, dopo quest’ubriacatura di
apparenza, il loro ruolo possa cambiare: sarebbe bello che in futuro
esercitassero la loro influenza non solo per ispirare nuovi look, ma
anche nuove consapevolezze sociali, culturali ed etiche».
Pagina 99, 10 novembre
2017
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