La vicenda sta tutta nel
titolo (Le nozze di al-Zain):
l'eccentrico e sgraziato al-Zain (in arabo: «la bellezza»),
macchietta del paese, che per anni ha favorito i matrimoni di tante
fanciulle dicendosene innamorato e attirando così su di esse
l'attenzione di pretendenti più adeguati, finisce davvero per
sposarsi. Impalmerà Ni'ma («la grazia»), la ragazza più bella ma
anche quella dal cuore più buono e incline alla compassione. L'esile
trama, però, non è altro che un pretesto per presentare al lettore
un vivace e accattivante bozzetto di vita di villaggio nel Sudan di
cinquant'anni fa. Un brillante saggio di scrittura da parte di un
degno erede dell'antica tradizione delle maqamàt arabe.
L'autore, lo scrittore
sudanese Tayeb Salih - nato nel 1929 e morto nel 2009 - unanimemente
riconosciuto come il maggiore esponente della letteratura del suo
paese, ha composto le sue opere di maggior successo in un arco
temporale assai ristretto, intorno alla metà degli anni '60: un
romanzo lungo, La stagione della migrazione a nord (1966), e
un romanzo breve Le nozze di al-Zain, pubblicato prima in una
rivista (1961) e poi in volume insieme ad alcune novelle. Il romanzo
maggiore, tra i primi che affrontarono in modo esplicito la tematica
della difficile integrazione nella società europea da parte di chi
vi emigrava provenendo dai paesi ex-coloniali (lo stesso autore era
stato tra i primi della sua generazione a completare gli studi in
Inghilterra), è stato già stato pubblicato in italiano da Sellerio
(1992, 2011), che oggi propone anche la versione italiana di Le
nozze di al-Zain (traduzione di Lorenzo Declich e Daniele
Mascitelli) insieme a due novelle, Una manciata di datteri e Il dum
di Wad Hamid, anch'esse ambientate nel mondo rurale sudanese.
Pur nel contesto quasi da
favola del racconto, la vita del villaggio di Zain, prototipo di
tanti centri rurali sudanesi lontani dal mondo cittadino, viene
tratteggiata con molta freschezza e precisione. I singoli personaggi,
ciascuno con il proprio carattere e il proprio modo di vivere,
interagiscono secondo logiche ben collaudate, e i diversi gruppi che
si fronteggiano (l'autore fa spesso riferimento a essi col termine
militare «guarnigioni», mu'aska-rat) ricordano molto le fazioni
rivali, caricaturali sì ma emblematiche di un'epoca, del paese di
Peppone e Don Camillo. Qui abbiamo da una parte l'imam con i suoi
fedeli, anziani e bigotti, dall'altra i giovani contestatori (ma tra
loro si trova anche un poeta settantenne), e tra i due il gruppo
degli uomini di mezza età, anch'essi poco inclini alle cose
religiose, ma moderati e detentori della ricchezza e del potere
reale.
Anche qui come nella
Brescello del dopoguerra, il governo centrale appare lontano e
indecifrabile. Addirittura è una creatura «considerata simile ad un
somaro ostinato». E se qualche innovazione come la creazione di un
ospedale e di due scuole viene vista con favore per il vantaggio che
arreca alla comunità, il villaggio, per molti versi simile, in cui è
ambientato Il dum di Wad Hamid, si ribella invece a ogni
tentativo di ingerenza: «se tagliate il dum combatteremo il Governo
fino alla morte del nostro ultimo uomo». E come nel caso dei
personaggi di Guareschi si tratta di un mondo ormai irrimediabilmente
scomparso. Erano gli anni di poco successivi all'indipendenza. Le
attualità politiche che giungevano via radio riguardavano Nehru e
Tito, promotori dei paesi non allineati, sullo sfondo della guerra
fredda tra Russia e Stati Uniti. Il mondo arabo viveva ancora lo
spaesamento del postcolonialismo, e non era ancora scosso né dal
disastro della Guerra dei sei giorni, né dal progressivo affermarsi
di un islamismo politico, che oggi costituisce uno dei problemi
principali; in Sudan, poi, non vi era ancora traccia né del dramma
del Darfur né della secessione del Sud. Gli stessi rivolgimenti
politici interni, nei villaggi sonnolenti erano spesso vissuti in un
modo distante e riflesso, come emerge in modo buffo ma non lontano
dal vero nelle vicende paradossali di Wad Hamid.
La lettura di questo
volumetto consente così di gettare uno sguardo in quel passato
nemmeno tanto lontano, quando il mondo non era ancora globalizzato e
i contatti col mondo esterno, e i relativi condizionamenti, erano
ridotti al minimo. Un isolamento che già dopo pochi anni comincerà
a incrinarsi, come si legge nel successivo romanzo, La stagione
della migrazione a nord, sempre ambientato nel villaggio di
al-Zain (con cui ha in comune diversi personaggi), dove si scopre
quanto siano complessi gli inevitabili rapporti col mondo
«occidentale».
Tornando alle Nozze di
al-Zahin, non si può fare a meno di notarne alcune manchevolezze che
pur non compromettendone il valore complessivo sono spiacevolmente
fuori posto in un'opera di questo tipo. Giunto alla pagina 112,
infatti, il lettore sobbalza: nel sonnolento villaggio, nel pieno di
una discussione sull'opportunità di costruire un attracco per i
battelli, avviene un fatto inquietante. «Non ci crederai, ma in quel
momento arrivò una donna e si piazzò lì in piedi, in mezzo a
quegli uomini, nuda come sua madre l'aveva messa al mondo, il che li
colpì con uno stupore maggiore di quello che la frase precedente
aveva provocato.» Il colpo di scena sembra preludere a una
imprevedibile svolta boccaccesca o almodovariana della vicenda; ma
ben presto ci si deve ricredere. Così come era apparsa
improvvisamente, la donna nuda scompare dal racconto. Da lì in poi
non se ne fa più menzione. In effetti, si tratta di un banale errore
di traduzione. Il testo arabo originale dice piào meno: «Se in quel
momento tu avessi portato e piazzato lì, in mezzo a quegli uomini,
una donna nuda come mamma l'ha fatta, non avresti provocato uno
sbalordimento maggiore di quanto fece quella frase.»
Infortuni di questo tipo
possono capitare, la svista che ti porta a sbagliare è l'incubo di
ogni traduttore; colpisce però che questo errore sia sfuggito non
solo ai due traduttori ma anche agli editor della Sellerio, ai quali
evidentemente l'improvvisa apparizione e sparizione di una donna nuda
non è sembrata sospetta. D'altra parte, per tutto il libro si ha la
sensazione che ci sia stata poca revisione della traduzione, visto
che a tratti l'italiano è poco scorrevole e che non mancano
imprecisioni e incoerenze nelle rese dei nomi (ad esempio Halima la
lattaia nella prima parte del romanzo viene chiamata Hamila). Va
detto che la lingua stessa del romanzo è di non facile comprensione.
Tutti i dialoghi sono in arabo dialettale sudanese, lingua dai mille
trabocchetti, al punto che la frase iniziale, in cui si annunciano le
prossime nozze del protagonista, è stata interpretata dai traduttori
come «al-Zain non vuole sposarsi», per via di una particella, che
in certi contesti ha valore di negazione ma che qui, a quanto pare,
ha semplicemente valore enfatico («Pensa un po', al-Zain sta per
sposarsi»). Anche in questo caso un editor scrupoloso avrebbe notato
e segnalato ai traduttori l'evidente incoerenza.
Indipendentemente da
queste sbavature, bisogna comunque riconoscere il merito dell'editore
che si sforza di dare al lettore italiano accesso a sempre nuovi
testi della letteratura araba, in controtendenza rispetto a un
panorama editoriale che fatica a ampliare lo sguardo verso questa
parte del mondo così vicina ma anche così lontana proprio perché
ignorata. D'altronde, «sol chi non fa non falla».
ALIAS DOMENICA 22
SETTEMBRE 2013
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