1.9.18

Tayeb Salih: Duellanti arabi fra grazia e bellezza. Un romanzo del più importante scrittore sudanese (Vermondo Brugnatelli)


La vicenda sta tutta nel titolo (Le nozze di al-Zain): l'eccentrico e sgraziato al-Zain (in arabo: «la bellezza»), macchietta del paese, che per anni ha favorito i matrimoni di tante fanciulle dicendosene innamorato e attirando così su di esse l'attenzione di pretendenti più adeguati, finisce davvero per sposarsi. Impalmerà Ni'ma («la grazia»), la ragazza più bella ma anche quella dal cuore più buono e incline alla compassione. L'esile trama, però, non è altro che un pretesto per presentare al lettore un vivace e accattivante bozzetto di vita di villaggio nel Sudan di cinquant'anni fa. Un brillante saggio di scrittura da parte di un degno erede dell'antica tradizione delle maqamàt arabe.
L'autore, lo scrittore sudanese Tayeb Salih - nato nel 1929 e morto nel 2009 - unanimemente riconosciuto come il maggiore esponente della letteratura del suo paese, ha composto le sue opere di maggior successo in un arco temporale assai ristretto, intorno alla metà degli anni '60: un romanzo lungo, La stagione della migrazione a nord (1966), e un romanzo breve Le nozze di al-Zain, pubblicato prima in una rivista (1961) e poi in volume insieme ad alcune novelle. Il romanzo maggiore, tra i primi che affrontarono in modo esplicito la tematica della difficile integrazione nella società europea da parte di chi vi emigrava provenendo dai paesi ex-coloniali (lo stesso autore era stato tra i primi della sua generazione a completare gli studi in Inghilterra), è stato già stato pubblicato in italiano da Sellerio (1992, 2011), che oggi propone anche la versione italiana di Le nozze di al-Zain (traduzione di Lorenzo Declich e Daniele Mascitelli) insieme a due novelle, Una manciata di datteri e Il dum di Wad Hamid, anch'esse ambientate nel mondo rurale sudanese.
Pur nel contesto quasi da favola del racconto, la vita del villaggio di Zain, prototipo di tanti centri rurali sudanesi lontani dal mondo cittadino, viene tratteggiata con molta freschezza e precisione. I singoli personaggi, ciascuno con il proprio carattere e il proprio modo di vivere, interagiscono secondo logiche ben collaudate, e i diversi gruppi che si fronteggiano (l'autore fa spesso riferimento a essi col termine militare «guarnigioni», mu'aska-rat) ricordano molto le fazioni rivali, caricaturali sì ma emblematiche di un'epoca, del paese di Peppone e Don Camillo. Qui abbiamo da una parte l'imam con i suoi fedeli, anziani e bigotti, dall'altra i giovani contestatori (ma tra loro si trova anche un poeta settantenne), e tra i due il gruppo degli uomini di mezza età, anch'essi poco inclini alle cose religiose, ma moderati e detentori della ricchezza e del potere reale.
Anche qui come nella Brescello del dopoguerra, il governo centrale appare lontano e indecifrabile. Addirittura è una creatura «considerata simile ad un somaro ostinato». E se qualche innovazione come la creazione di un ospedale e di due scuole viene vista con favore per il vantaggio che arreca alla comunità, il villaggio, per molti versi simile, in cui è ambientato Il dum di Wad Hamid, si ribella invece a ogni tentativo di ingerenza: «se tagliate il dum combatteremo il Governo fino alla morte del nostro ultimo uomo». E come nel caso dei personaggi di Guareschi si tratta di un mondo ormai irrimediabilmente scomparso. Erano gli anni di poco successivi all'indipendenza. Le attualità politiche che giungevano via radio riguardavano Nehru e Tito, promotori dei paesi non allineati, sullo sfondo della guerra fredda tra Russia e Stati Uniti. Il mondo arabo viveva ancora lo spaesamento del postcolonialismo, e non era ancora scosso né dal disastro della Guerra dei sei giorni, né dal progressivo affermarsi di un islamismo politico, che oggi costituisce uno dei problemi principali; in Sudan, poi, non vi era ancora traccia né del dramma del Darfur né della secessione del Sud. Gli stessi rivolgimenti politici interni, nei villaggi sonnolenti erano spesso vissuti in un modo distante e riflesso, come emerge in modo buffo ma non lontano dal vero nelle vicende paradossali di Wad Hamid.
La lettura di questo volumetto consente così di gettare uno sguardo in quel passato nemmeno tanto lontano, quando il mondo non era ancora globalizzato e i contatti col mondo esterno, e i relativi condizionamenti, erano ridotti al minimo. Un isolamento che già dopo pochi anni comincerà a incrinarsi, come si legge nel successivo romanzo, La stagione della migrazione a nord, sempre ambientato nel villaggio di al-Zain (con cui ha in comune diversi personaggi), dove si scopre quanto siano complessi gli inevitabili rapporti col mondo «occidentale».

Tornando alle Nozze di al-Zahin, non si può fare a meno di notarne alcune manchevolezze che pur non compromettendone il valore complessivo sono spiacevolmente fuori posto in un'opera di questo tipo. Giunto alla pagina 112, infatti, il lettore sobbalza: nel sonnolento villaggio, nel pieno di una discussione sull'opportunità di costruire un attracco per i battelli, avviene un fatto inquietante. «Non ci crederai, ma in quel momento arrivò una donna e si piazzò lì in piedi, in mezzo a quegli uomini, nuda come sua madre l'aveva messa al mondo, il che li colpì con uno stupore maggiore di quello che la frase precedente aveva provocato.» Il colpo di scena sembra preludere a una imprevedibile svolta boccaccesca o almodovariana della vicenda; ma ben presto ci si deve ricredere. Così come era apparsa improvvisamente, la donna nuda scompare dal racconto. Da lì in poi non se ne fa più menzione. In effetti, si tratta di un banale errore di traduzione. Il testo arabo originale dice piào meno: «Se in quel momento tu avessi portato e piazzato lì, in mezzo a quegli uomini, una donna nuda come mamma l'ha fatta, non avresti provocato uno sbalordimento maggiore di quanto fece quella frase.»
Infortuni di questo tipo possono capitare, la svista che ti porta a sbagliare è l'incubo di ogni traduttore; colpisce però che questo errore sia sfuggito non solo ai due traduttori ma anche agli editor della Sellerio, ai quali evidentemente l'improvvisa apparizione e sparizione di una donna nuda non è sembrata sospetta. D'altra parte, per tutto il libro si ha la sensazione che ci sia stata poca revisione della traduzione, visto che a tratti l'italiano è poco scorrevole e che non mancano imprecisioni e incoerenze nelle rese dei nomi (ad esempio Halima la lattaia nella prima parte del romanzo viene chiamata Hamila). Va detto che la lingua stessa del romanzo è di non facile comprensione. Tutti i dialoghi sono in arabo dialettale sudanese, lingua dai mille trabocchetti, al punto che la frase iniziale, in cui si annunciano le prossime nozze del protagonista, è stata interpretata dai traduttori come «al-Zain non vuole sposarsi», per via di una particella, che in certi contesti ha valore di negazione ma che qui, a quanto pare, ha semplicemente valore enfatico («Pensa un po', al-Zain sta per sposarsi»). Anche in questo caso un editor scrupoloso avrebbe notato e segnalato ai traduttori l'evidente incoerenza.
Indipendentemente da queste sbavature, bisogna comunque riconoscere il merito dell'editore che si sforza di dare al lettore italiano accesso a sempre nuovi testi della letteratura araba, in controtendenza rispetto a un panorama editoriale che fatica a ampliare lo sguardo verso questa parte del mondo così vicina ma anche così lontana proprio perché ignorata. D'altronde, «sol chi non fa non falla».

ALIAS DOMENICA 22 SETTEMBRE 2013

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