Giorgio Falco, Ipotesi
di una sconfitta, Einaudi, 2017
Francesco Dezio, La
gente per bene, Terra Rossa, 2018
Apparentemente simili, in
realtà diversissimi questi due libri.
Simili, perché simile è
il tema: il lavoro, quello precario, polverizzato, risorse umanizzato
dei giorni nostri. E simile anche il modo di svolgerlo, narrando in
prima persona una sequela di lavori svolti dall'autore. Diversissimi
invece gli ambienti, gli stili, i punti di vista.
Ipotesi di una
sconfitta si apre con un lungo capitolo dedicato al padre del
protagonista, siciliano emigrato a Milano (e quindi milanese al
quadrato), impiegato per quarant'anni nell'azienda municipale dei
trasporti (il vecchio, mitologico posto fisso), infine morto di
tumore, proprio in coincidenza con la dismissione della stessa
azienda.
Segue il resoconto dei
tanti mestieri, più o meno improbabili, svolti da Falco: addetto al
confezionamento di spillette con volti celebri, da Bruce Springsteen
a Papa Woityla a Gesù (ma Gesù gratis, perché “con lui si va in
perdita”); tabulatore di dati sui supermercati per conto di una
rivista; venditore porta-a-porta di abbonamenti per la consegna
domiciliare di un quotidiano; commesso in un negozio di
abbigliamento; piazzista di scope in saggina; magazziniere;
allenatore di basket; affissore di manifesti; fino alla discesa agli
inferi: impiegato per un'azienda di telefonia mobile.
L'itinerario è una
catabasi verso un lavoro sempre più alienante, disumanizzante,
psicotizzante. L'ambiente è quello delle periferie milanesi, o del
Veneto, o (per qualche pagina) delle borgate romane ai confini del
Grande Raccordo Anulare: un panorama sempre più devastato,
sfregiato, cementificato, invivibile. Un movimento discendente che
non si arresta nemmeno di fronte all'ultima svolta: la scelta di
dedicarsi alla scrittura e guadagnarsi da vivere con le scommesse
calcistiche.
Tutto, in realtà, si
svolge all'ombra di un tramonto: quello del Novecento, rappresentato
dalla figura del padre. Il secolo è morto, insieme a tutti i suoi
miti, e Giorgio Falco (classe 1967) appartiene alla generazione che
ha vissuto quell'agonia.
Prendo in prestito le
parole di Daniele Giglioli (da Le parole e le cose): “C’è
un [...] mito a cui il secolo scorso ha sacrificato. [...] Era il
mito secondo cui la vera vita è appunto l’arte, la letteratura,
redenzione di quella che ci sfugge nello scialo dei giorni. [...]
Quel mito tenta forse anche Falco, che però non gli cede. Il lettore
non troverà da nessuna parte la volgarità terra terra del “ce
l’ho fatta”, né quella tanto più volgare del “che importa, in
fondo, se tutto ciò ha fatto nascere una scrittura?” Ci sono
scrittori per i quali, di qualsiasi cosa parlino, fa premio comunque
su tutto il ribaldo, avventuroso, amorale piacere di esprimersi.
Falco è troppo onesto per questo. Tra cosa e stile la fusione è
senza resti. La bellezza, la verità di questo libro, il lettore deve
guadagnarsela a sue spese. Dentro, ma anche fuori dal libro”. Non
c'è traccia di autofiction in Ipotesi di una sconfitta, ma
una sincerità e un realismo senza remore, serviti da uno stile
compatto, implacabile.
Apparentemente simile,
dicevo, La gente per bene. Anche qui abbiamo uno scrittore
nato nell'ultimo scorcio del Novecento (1970), che fa i conti con un
lavoro trasformato in sfruttamento senza più alcuna possibilità di
riscatto.
Lo scenario, stavolta, è
il Sud: in particolare, il Sud della Murgia barese, terra di
capannoni, piccole ditte a gestione familiare, discariche
clandestine, palazzinari, padroni arricchitisi sullo sfruttamento
spregiudicato degli operai. E anche Dezio racconta la propria odissea
nel lavoro: il diploma all'Industriale, le esperienze come grafico
addetto ad Autocad e SolidWorks, l'economia rampante dei divanifici
Natuzzi che, negli anni Ottanta e Novanta, sembrava aver trasformato
quel lembo di Puglia nella Svizzera del Meridione, il fallimento non
solo personale, ma di un'intera società.
Tuttavia, il libro è
quanto di più diverso si possa concepire, rispetto a quello di
Giorgio Falco. Perché Dezio sceglie una forma ibrida, volutamente
disomogenea, anzi trae la propria forza proprio dalle fratture nel
tessuto stilistico e narrativo. E così, ogni capitolo sembra
prendere una direzione diversa dal precedente, rendendo La gente per
bene un oggetto letterario di difficile collocazione: autobiografia?
autofiction? romanzo d'inchiesta e di denuncia? Lo stile incorpora il
parlato, il dialetto, ma anche il linguaggio burocratico, le copie
dei CV e delle lettere di licenziamento.
Alla fine, una vaga
speranza sembra intravvedersi, ma sta solo nella fuga da un Sud che,
dopo sessant'anni, ancora offre ai suoi figli l'unica strada
dell'emigrazione.
Eppure, lo si sarà
capito, qualcosa di simile i due libri ce l'hanno: dipingono in
maniera spietata lo sfacelo ineluttabile del mondo occidentale
contemporaneo. In questo, i capannoni della Brianza somigliano
tragicamente a quelli delle Murge.
Dal sito “Ruminazioni”
giovedì 10 maggio 2018
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