Renato Vallanzasca al tempo del suo primo arresto |
Dopo, l'“epopea”
criminale di Vallanzasca, che già a quel tempo presentava aspetti
patetici, s'è arricchita di nuovi episodi: le semilibertà ottenute
e poi perse per le sue trasgressioni fino all'ultimo farsesco
arresto, nel 2014, quando “il bel René” fu sorpreso a
taccheggiare in un supermercato. Refurtiva: due paia di mutande.
Sic transit gloria
mundi. (S.L.L.)
Vallanzasca in una foto recente |
Sorride Renato
Vallanzasca. Ma non scherza affatto. «Sai che ti dico? Che ne ho le
balle piene e non vedo l' ora di liberarmi del mio mito. Il Bel
René... La banda della Comasina... Ma andassero un po' tutti a
cagare».
E sarà per la giacca di
buon taglio e la cravatta blu a pois, per lo smarrimento, dopo
trentanove anni di galera, nel vederlo «libero» seduto al tavolino
di un bar, o sarà perché i capelli si sono fatti radi, le rughe
profonde e di guascone sono rimasti ormai solo quegli occhi azzurri
che non smettono di frugare nell'interlocutore, ma davvero, per dirla
con Wikipedia, «Renato Vallanzasca (Milano, 4 maggio 1950),
criminale italiano» non c' è più. Come si possa divorziare da se
stessi quando un libro che racconta la tua vita torna in libreria
dopo dieci anni dalla sua prima edizione e mancano poche settimane al
ciak di un film sulla tua epopea di bandito che avrà la mano di
Michele Placido e il volto di Kim Rossi Stuart, si fa fatica a
comprenderlo. Ma al tipo nato in via Porpora e cresciuto tra Lambrate
e il Giambellino, quattro ergastoli e sei omicidi (per cinque dei
quali si è riconosciuto responsabile) più un numero di rapine e
sequestri che raggiunge le due dozzine, le cose dritte non sono mai
piaciute. «È proprio perché ho chiuso dodici anni fa, decidendo di
raccontare la mia vita con un libro, che posso dire di aver
seppellito quel Renato Vallanzasca. E ora che sono vecchio come il
dattero, posso finalmente chiedermi se sono io ad essere cambiato o
questo mondo che mi circonda. Probabilmente l'uno e l'altro. Forse,
soprattutto questo mondo».
Alza la voce nel dire
«questo mondo». Guadagnando l' attenzione distratta e passeggera di
una pattuglia a piedi della polizia. Uno sguardo. Niente di più.
«Vedi? Neanche le guardie sanno più chi sono. Solo andando all'Ikea
ho trovato uno che sembrava sapesse tutto di me. Un tassista che mi
fa: «Grande René, corsa pagata». E io: «Grande René un cazzo. Ma
chi sei?»».
In giugno, quando è
uscito di galera per un provvedimento di differimento pena necessario
ad operarsi a un' anca spezzata un tempo dai proiettili e mai tornata
come era, si è voluto affacciare alla Comasina, dove la sua
«batteria» era stata battezzata. «Ci credi se ti dico che non ci
sono riuscito? Arrivo lì e trovo una gimcana della Madonna: sensi
unici, isole pedonali. Chiedo a un vigile: «Per piazza Gasparri»? E
quello mi fa: «Parcheggi nelle strisce e vada a piedi». Ho
rinunciato».
Chiede un limoncello e
accende una Marlboro rossa. «Oggi, se facessi il bandito, vivrei tre
giorni. Perché o troverei uno che mi ammazza direttamente o che mi
fa ammazzare per cento euro. Ma ti rendi conto? Bruciano i barboni
per noia. Mandano a battere le bambine o le schiave. Per il grano o
per un tiro di quella merda che manda in pappa il cervello, sono
disposti a tutto. La malavita non esiste più. Oggi esiste la
mala-vita. Niente regole, niente onore, niente amicizia, niente
rispetto. La violenza è dappertutto ed è insensata. E ti assicuro
che ce ne vuole a dirtelo, perché io pure ho ucciso. Ma io saltavo i
banconi e lo mettevo nel conto. Se andava male, sapevo che sarebbe
toccata o a me, o alle guardie che mi inseguivano sparando. Oggi chiè
lo scemo che rapina una banca?». Eppure anche lui, nella Milano dei
primi anni Settanta, pensionò a suo modo i vecchi banditi che si
facevano qualche cassetta di sicurezza e qualche villa di San Siro.
«Come no. Quando avevo vent'anni, un vecchio ladrone cui ero
affezionato mi disse: «Anca ti te se cadù così ' n basso». Avevo
messo su un' industria dei sequestri lampo e per i banditi di una
volta era una bestemmia. Ma almeno io il codice della mala non lo
avevo tradito. Niente donne, niente bambini, niente poveracci,
soprattutto».
Provi a dire che la
«modernità criminale» della sua «batteria»è stata in fondo
anche quella della banda della Magliana, ma è il modo migliore per
farlo andare fuori dai gangheri: «Non confondiamo la merda con il
cioccolato. Io a differenza di quelli lì non ho mai avuto a che fare
con servizi segreti e divise, neppure quelle dei tranvieri». Ora
torna a sorridere. «Come diceva Bertold Brecht? È un crimine più
grande fondare una banca o rapinarla? Bene, io a quella domanda come
tutti sanno ho dato una risposta. Ma guardandomi intorno oggi, sai
cosa mi colpisce? Che quarant'anni fa, Milano era più cupa, più
sporca. Ma ad avere paura era solo chi aveva il grano. Le porte delle
case restavano aperte. Gli operai che tiravano la lima alla Marelli
lasciavano i ragazzini alla vicina o in cortile. Oggi chi ha il grano
paura non ne ha più. La paura è dei disgraziati. Paura di essere
scippati, violentati, accoltellati. E sai cosa trovo ancora più
incredibile? Che a dire «al lupo, al lupo», però, sono rimasti
sempre quelli che hanno il grano. Oggi uno che fa una rapina prende
quindici anni. Chi manda sul lastrico qualche decina di migliaia di
famiglie succhiandosi i loro risparmi, va bene se fa un mese ai
domiciliari. Il senso della comunità è andatoa farsi fottere. E se
non c'è comunità, non c'è mito. Guardia o ladro che tu sia».
Dei quindici della sua
batteria sono rimasti vivi in quattro, Vallanzasca compreso. Non ha
più rivisto nessuno. Né li cercherà. «Non avrebbe senso. Se non
per farsi un pianto e scoprire che volevamo metterla in quel posto
alla vita, mentre è successo esattamente il contrario». E persino i
suoi segreti, giura, «oggi, non valgono più nulla». «Caduti in
prescrizione». A meno di non voler considerare ancora tale quello
per cui, nel 1977, prima del sangue di Dalmine (due poliziotti della
stradale vengono uccisi quando intercettano la banda durante un
sopralluogo nel Bergamasco), nella margherita dei possibili obiettivi
di un sequestro di persona «effettivamente c' era un ancora giovane
Silvio Berlusconi».
Non c' è più molto
tempo. E resta una domanda. Che Vallanzasca conosce e per questo non
lascia neppure concludere. Perché non chiedere perdono? Perché,
alla fine di questi trentanove anni, appellarsi a una grazia che è
stata negatae non bussare invece alla porta delle vittime? «Perché
il perdono è un sentimento privato. Per chi lo chiede e per chi lo
concede o lo rifiuta. Il mio modo di chiedere perdono pubblicamente è
stato scontare il castigo che mi è stato inflitto, assumermi la
responsabilità dei disastri che ho combinato, chiedendo solo di non
morire in carcere. La grazia la voleva chiedere la mia vecchietta, ma
non avrei sopportato che si dicesse che mi nascondevo sotto la
sottana di mammina e così ci ho messo la faccia. Non mi è stata
data e la cosa è finita lì. Posso solo dire che quando arriverà il
giorno in cui chiedere perdono, e arriverà, non ci saranno né
fanfare né pennivendoli a registrare l'evento».
Squilla il cellulare.
Vallanzasca prende nota. «Ti sembrerà strano, ma sono impegni di
lavoro. Don Mazzi, la Cooperativa il Gabbiano. Come si dice? Lavoro
nel sociale. Qualche sbarbato in meno nella malavita».
“la Repubblica”,14
ottobre 2009
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