4.9.18

A colloquio con Vallanzasca. Addio bel René, la vecchia mala ormai non c' è più (Carlo Bonini)

Renato Vallanzasca al tempo del suo primo arresto
Un'intervista secondo me assai ben costruita, che risale al 2009. Vallanzasca si rivela, nonostante tutto, persona non banale, capace di intelligenza delle cose.
Dopo, l'“epopea” criminale di Vallanzasca, che già a quel tempo presentava aspetti patetici, s'è arricchita di nuovi episodi: le semilibertà ottenute e poi perse per le sue trasgressioni fino all'ultimo farsesco arresto, nel 2014, quando “il bel René” fu sorpreso a taccheggiare in un supermercato. Refurtiva: due paia di mutande.
Sic transit gloria mundi. (S.L.L.)

Vallanzasca in una foto recente
Sorride Renato Vallanzasca. Ma non scherza affatto. «Sai che ti dico? Che ne ho le balle piene e non vedo l' ora di liberarmi del mio mito. Il Bel René... La banda della Comasina... Ma andassero un po' tutti a cagare».
E sarà per la giacca di buon taglio e la cravatta blu a pois, per lo smarrimento, dopo trentanove anni di galera, nel vederlo «libero» seduto al tavolino di un bar, o sarà perché i capelli si sono fatti radi, le rughe profonde e di guascone sono rimasti ormai solo quegli occhi azzurri che non smettono di frugare nell'interlocutore, ma davvero, per dirla con Wikipedia, «Renato Vallanzasca (Milano, 4 maggio 1950), criminale italiano» non c' è più. Come si possa divorziare da se stessi quando un libro che racconta la tua vita torna in libreria dopo dieci anni dalla sua prima edizione e mancano poche settimane al ciak di un film sulla tua epopea di bandito che avrà la mano di Michele Placido e il volto di Kim Rossi Stuart, si fa fatica a comprenderlo. Ma al tipo nato in via Porpora e cresciuto tra Lambrate e il Giambellino, quattro ergastoli e sei omicidi (per cinque dei quali si è riconosciuto responsabile) più un numero di rapine e sequestri che raggiunge le due dozzine, le cose dritte non sono mai piaciute. «È proprio perché ho chiuso dodici anni fa, decidendo di raccontare la mia vita con un libro, che posso dire di aver seppellito quel Renato Vallanzasca. E ora che sono vecchio come il dattero, posso finalmente chiedermi se sono io ad essere cambiato o questo mondo che mi circonda. Probabilmente l'uno e l'altro. Forse, soprattutto questo mondo».
Alza la voce nel dire «questo mondo». Guadagnando l' attenzione distratta e passeggera di una pattuglia a piedi della polizia. Uno sguardo. Niente di più. «Vedi? Neanche le guardie sanno più chi sono. Solo andando all'Ikea ho trovato uno che sembrava sapesse tutto di me. Un tassista che mi fa: «Grande René, corsa pagata». E io: «Grande René un cazzo. Ma chi sei?»».
In giugno, quando è uscito di galera per un provvedimento di differimento pena necessario ad operarsi a un' anca spezzata un tempo dai proiettili e mai tornata come era, si è voluto affacciare alla Comasina, dove la sua «batteria» era stata battezzata. «Ci credi se ti dico che non ci sono riuscito? Arrivo lì e trovo una gimcana della Madonna: sensi unici, isole pedonali. Chiedo a un vigile: «Per piazza Gasparri»? E quello mi fa: «Parcheggi nelle strisce e vada a piedi». Ho rinunciato».
Chiede un limoncello e accende una Marlboro rossa. «Oggi, se facessi il bandito, vivrei tre giorni. Perché o troverei uno che mi ammazza direttamente o che mi fa ammazzare per cento euro. Ma ti rendi conto? Bruciano i barboni per noia. Mandano a battere le bambine o le schiave. Per il grano o per un tiro di quella merda che manda in pappa il cervello, sono disposti a tutto. La malavita non esiste più. Oggi esiste la mala-vita. Niente regole, niente onore, niente amicizia, niente rispetto. La violenza è dappertutto ed è insensata. E ti assicuro che ce ne vuole a dirtelo, perché io pure ho ucciso. Ma io saltavo i banconi e lo mettevo nel conto. Se andava male, sapevo che sarebbe toccata o a me, o alle guardie che mi inseguivano sparando. Oggi chiè lo scemo che rapina una banca?». Eppure anche lui, nella Milano dei primi anni Settanta, pensionò a suo modo i vecchi banditi che si facevano qualche cassetta di sicurezza e qualche villa di San Siro. «Come no. Quando avevo vent'anni, un vecchio ladrone cui ero affezionato mi disse: «Anca ti te se cadù così ' n basso». Avevo messo su un' industria dei sequestri lampo e per i banditi di una volta era una bestemmia. Ma almeno io il codice della mala non lo avevo tradito. Niente donne, niente bambini, niente poveracci, soprattutto».
Provi a dire che la «modernità criminale» della sua «batteria»è stata in fondo anche quella della banda della Magliana, ma è il modo migliore per farlo andare fuori dai gangheri: «Non confondiamo la merda con il cioccolato. Io a differenza di quelli lì non ho mai avuto a che fare con servizi segreti e divise, neppure quelle dei tranvieri». Ora torna a sorridere. «Come diceva Bertold Brecht? È un crimine più grande fondare una banca o rapinarla? Bene, io a quella domanda come tutti sanno ho dato una risposta. Ma guardandomi intorno oggi, sai cosa mi colpisce? Che quarant'anni fa, Milano era più cupa, più sporca. Ma ad avere paura era solo chi aveva il grano. Le porte delle case restavano aperte. Gli operai che tiravano la lima alla Marelli lasciavano i ragazzini alla vicina o in cortile. Oggi chi ha il grano paura non ne ha più. La paura è dei disgraziati. Paura di essere scippati, violentati, accoltellati. E sai cosa trovo ancora più incredibile? Che a dire «al lupo, al lupo», però, sono rimasti sempre quelli che hanno il grano. Oggi uno che fa una rapina prende quindici anni. Chi manda sul lastrico qualche decina di migliaia di famiglie succhiandosi i loro risparmi, va bene se fa un mese ai domiciliari. Il senso della comunità è andatoa farsi fottere. E se non c'è comunità, non c'è mito. Guardia o ladro che tu sia».
Dei quindici della sua batteria sono rimasti vivi in quattro, Vallanzasca compreso. Non ha più rivisto nessuno. Né li cercherà. «Non avrebbe senso. Se non per farsi un pianto e scoprire che volevamo metterla in quel posto alla vita, mentre è successo esattamente il contrario». E persino i suoi segreti, giura, «oggi, non valgono più nulla». «Caduti in prescrizione». A meno di non voler considerare ancora tale quello per cui, nel 1977, prima del sangue di Dalmine (due poliziotti della stradale vengono uccisi quando intercettano la banda durante un sopralluogo nel Bergamasco), nella margherita dei possibili obiettivi di un sequestro di persona «effettivamente c' era un ancora giovane Silvio Berlusconi».
Non c' è più molto tempo. E resta una domanda. Che Vallanzasca conosce e per questo non lascia neppure concludere. Perché non chiedere perdono? Perché, alla fine di questi trentanove anni, appellarsi a una grazia che è stata negatae non bussare invece alla porta delle vittime? «Perché il perdono è un sentimento privato. Per chi lo chiede e per chi lo concede o lo rifiuta. Il mio modo di chiedere perdono pubblicamente è stato scontare il castigo che mi è stato inflitto, assumermi la responsabilità dei disastri che ho combinato, chiedendo solo di non morire in carcere. La grazia la voleva chiedere la mia vecchietta, ma non avrei sopportato che si dicesse che mi nascondevo sotto la sottana di mammina e così ci ho messo la faccia. Non mi è stata data e la cosa è finita lì. Posso solo dire che quando arriverà il giorno in cui chiedere perdono, e arriverà, non ci saranno né fanfare né pennivendoli a registrare l'evento».
Squilla il cellulare. Vallanzasca prende nota. «Ti sembrerà strano, ma sono impegni di lavoro. Don Mazzi, la Cooperativa il Gabbiano. Come si dice? Lavoro nel sociale. Qualche sbarbato in meno nella malavita».

“la Repubblica”,14 ottobre 2009

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