20.9.18

Giuseppe Barbaglio e i mille volti di Gesù (Rossana Rossanda)

Dieci anni fa di marzo, a un anno dalla morte di Giuseppe Barbaglio, studioso del nuovo e vecchio testamento, teologi e amici, credenti e non credenti, si riunirono a discutere presso la Facoltà Valdese a Roma, quasi per continuare un suo progetto di lavoro sui “mille volti di Gesù” nella tradizione cristiana ed ebraica. Ne parlarono per un giorno e mezzo Alfio Filippi, Yann Redalié, Romano Penna, Stefano Levi della Torre, Jean Noel Aletti, Gabriella Caramore, Severino Dianich, Ernesto Borghi, Giancarlo Martini, Antonio Guagliumi, Carla Busato, Rossana Rossanda, Mario Tronti, Raniero La Valle e Claude Geffré. Alla vigilia “il manifesto” pubblicò – con le informazioni sul convegno - il ricordo di Barbaglio, scritto da Rossana Rossanda, che qui riprendo. (S.L.L.)

I mille volti di Gesù è il titolo che Barbaglio aveva dato alla messe di appunti bibliografici lasciati sul computer. Suscita molte domande, prima di tutte: in che senso Barbaglio - che aveva portato a fondo una ricerca puntuale (e ricevuta con scarso entusiasmo oltretevere) su quello che aveva chiamato l'«Ebreo di Galilea», quell'uomo, quello specifico «individuo» - si proponeva un'indagine sui suoi «mille volti»? Pensava che fossero di molteplice significato e intrepretazione i gesti e le parole raccolte nei vangeli sinottici, negli atti degli apostoli, nei testi discussi ma non ammessi nel canone, che aveva valutato con l'acribia dello storico, saggiandoli in quel ribollente tempo di attesa del messia? Tempo in cui molti uomini lasciavano casa e figli per andare cercando e predicando e guarendo, profeti come quel Giovanni Battista che tormentava la coscienza dei potenti, o guarendo come fece anche Gesù, o aggregandosi in sette riflessive alla ricerca della parola? Il suo «Ebreo di Galilea» era uno di loro.
Nessun altro studio, meno che mai quello tranquillo ed edificante pubblicato un paio di anni dopo da Ratzinger, restituisce a mio avviso l'impatto di quel destino illuminato e atroce in un secolo in fermento, coagulo di miserie e speranze d'una trascendenza salvifica. Un Gesù così diverso dal giovane biondo e un po' melenso appeso ai muri delle sagrestie della chiesa devozionale, ma anche dalla compostezza oltremondana dei crocifissi italiani del rinascimento o dall'orrore dei corpi dislocati e purulenti della pittura nordica.
Il senso, per Barbaglio, non è come in Duchamp: il quadro è di chi lo legge. I mille volti non sono di quello che per i cristiani è il figlio di dio, ma di coloro che in occidente, nei duemila anni seguiti, si sono veduti in lui, sia nel dilatarsi dell'universo cristiano sia nell'imponenza della chiesa che vi si costruiva sopra. Teologi, filosofi, esegeti e gente semplice, che sullo scandalo della Croce hanno rifratto idee, dubbi, bisogni, speranze, angosce.
Barbaglio ha lasciato una sapientissima bibliografia, ordinata capitolo per capitolo, senza consegnarci lo schema dei capitoli di quel che aveva in mente e non ha fatto in tempo a scrivere. I «mille volti» non indicavano, penso, una sua nuova interpretazione delle parole del Cristo, ma la complessità dell'itinerario dei suoi molti esegeti; a cominciare da Paolo, per anni al centro degli studi di Barbaglio che delle parole di Cristo aveva fatto una prima elaborazione per immetterle in una cultura scettica e avanzata come quella dell'ellenismo. Il «pensare di Paolo» doveva superare l'ostacolo costituito dal fatto che quel che Gesù aveva detto come imminente non si era verificato. I discepoli si erano attesi la resurrezione come una gloriosa epifania davanti al mondo ed era invece apparso brevemente soltanto ad essi lasciandoli isolati nell'ostilità degli ebrei. E con questo pareva vanificarsi la promessa resurrezione dei morti - «se Cristo non è risorto nessuno risorgerà». Ma la resurrezione era il cardine della nuova fede.
E così il mancato avvento del Messia, cui Gesù aveva avvertito di tenersi pronti. Paolo vi si dibatte nel suo discusso «Cristo è già fra voi, fra noi»: prendeva sulle sue spalle quel che i nostri deboli tempi chiamano «il silenzio di Dio». Ma come si mette oggi tutto questo in una fede? Come lo ha messo Barbaglio, sul quale è calata quella cieca morte che Paolo diceva vinta: «Morte, dov'è la tua vittoria?» Noi, non toccati dalla grazia, la incontriamo soltanto vincente.
Non sapremo, o almeno io non saprò come, non avendo potuto moltiplicargli le domande - credevamo di avere molto tempo, tanto ci azzuffavamo un po' per scherzo perfino via telefono. Io trovavo terribile, fin odioso, a parte il Genesi, il dio dei primi libri del Vecchio Testamento, vendicativo, irascibile, crudele. Ma no, faceva Barbaglio con quel suo sorriso allegro, no, c'è anche nel Vecchio Testamento un dio amoroso, un filo rosso... Ma quale filo rosso tempestavo.
Negli ultimi mesi battibeccammo su Ruth, cara ad alcune mie amiche e che io non amo affatto, né mi è riscattata dalla relazione con Noemi: sono due che si danno abilmente da fare per assicurare a Ruth un uomo, che cosa ci trovi? Mi scombussolò sentirgli dire, piano: «Non capisci, io sono Ruth» - uno cui molto, e quando tutto credeva perduto, era stato dato. Incrociammo affettuosamente le spade fino all'orlo della sua morte: mi aveva mandato una relazione di Geffré che gli era parsa illuminante, sull'ecumenismo dove il Vaticano fa un passo indietro dopo l'altro. Chi pregano gli «altri»? Geffré non rispondeva, come molti credenti: «È lo stesso dio quello che ciascuno, ciascuna prega e intravvede, nelle forme cui la sua cultura lo presenta». Diceva che in ognuna delle grandi fedi c'è qualcosa che manca all'altra - c'è una mancanza, un manque per cui nessuna è in sé compiuta. Giuseppe era preso dagli scenari che apriva il manque - l'assenza come chiave. Una mancanza nella rivelazione, ma come è possibile, ma che Dio è? - strepitavo io tale e quale un seminarista. «Benedetta donna, ma perché non capisci...», sono forse le ultime battute che ci siamo scambiati.

"il manifesto", 27/03/2008

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