Alberto Moravia è uno
scrittore e un intellettuale che, al contrario della maggior parte
dei suoi colleghi, può essere definito e inquadrato usando poche
categorie, sul terreno specificatamente letterario come su quello
ideologico e culturale. È insomma una figura netta, priva di
ambiguità, di sfumature, di nodi irrisolti. Di qui, credo, la
convinzione di molti critici che sia stato autore essenzialmente di
un solo romanzo o dello stesso romanzo; il quale romanzo è il suo
primo Gli indifferenti: quel libro che iniziò a scrivere
quando aveva diciassette anni e pubblicò nel 1929, quando ne aveva
ventidue, e che, come è noto, gli procurò la fama e il successo che
sono i tratti salienti della sua intera carriera letteraria. Il
moralismo prima di tutto, che è la cifra del suo modo di vedere e di
rappresentare non soltanto come narratore, ma ancora più
esplicitamente come saggista, giornalista, viaggiatore. L’ancoraggio
forte è sempre, in ogni caso, a quella intelaiatura ideologica
squisitamente personale che si è andato costruendo, mettendo insieme
alcuni pezzi diversi e variamente amalgamati di letteratura e di
cultura otto-novecentesca. È facilissimo, del resto, trovare
intessute nella trama dei suoi scritti queste ascendenze che
corrispondono a non moltissimi nomi e figure (Dostoevskij e Gide, per
esempio, o anche Freud e Marx), ridotte, in un certo senso, alla
misura della sua interazione col mondo. Un nucleo solido, compatto,
sostanzialmente immutato che è tramutato in personaggi, in
situazioni, in percezioni di modi di essere. Qui sta la forza di una
scrittura che non è qualificata dallo spessore della operazione
letteraria (alla maniera di Thomas Mann), oppure dalla finalità
prismatica della costruzione narrativa e drammatica (è il caso di
Pirandello); la qualità della scrittura moraviana sta precisamente
nella capacità di proposizione di alcuni temi e motivi che ricevono
senso dal fatto di essere governati da un saldo e netto punto di
vista profondamente confitto nelle cose. Per questo a me non pare del
tutto calzante la formula di Pampaloni, tante volte richiamata anche
negli ultimi giorni, dell’«utopia del realismo» come chiave di
lettura dell’ideologia letteraria moraviana; perché l’utopia, se
e nelle forme in cui c’è, non è mai presente nei modi narrativi
della scrittura in quanto elemento esterno ai personaggi e alle
vicende: al contrario, nei suoi romanzi e racconti, soprattutto nei
migliori, tutto è perfettamente oggettivato, anche quel «fantasma
auto-biografico» di cui diceva Ottavio Cecchi sull'Unità di giovedì
scorso.
Volendo indicare un
proprio modello, Moravia, nel 1934, lo definiva come «un romanzo
moralistico, politico e magari filosofico, nel quale l’intreccio
abbia un valore tendenzioso e allegorico non dissimile da quello
della parabola, un romanzo insomma di immaginazione e di idealità e
non di trita e fotografica realtà». Nonostante il fatto che siano
passati quasi sessanta anni da allora, non è difficile ricondurre le
sue tante prove narrative alla figura così lucidamente disegnata in
quell’occasione.
Il moralismo, come sempre
del resto, è un’arma a doppio taglio: sostiene, motiva, sostanzia
scrittura e comportamenti pubblici e privati, ma insieme impone dei
limiti di orizzonte e di prospettiva. Sicché, tra gli scrittori
della sua generazione, o comunque di coloro che hanno dovuto
misurarsi con il ventennio fascista, Moravia è uno dei pochi che
abbia sviluppato una sua linea di distanza, forse non appariscente ma
profonda, da quella cultura e dalle radici ideologiche e
intellettuali che la sostenevano. Tutto ciò abbiamo potuto poi
ricostruirlo dai comportamenti, dalle scelte, dalle dichiarazioni
dell’intellettuale Moravia; ma, accanto a quelle testimonianze
dirette, possiamo collocare, esattamente sulla stessa linea, i
romanzi e i racconti di quegli anni, scaturiti, non in senso
ideologico ma squisitamente letterario, dalla medesima attitudine
moralistica. La sua dichiarata, continua e convinta avversione a
tutte le forme di prosa d'arte sta, credo, proprio dentro questa
logica; così come la suggestione a cui fu sensibile, poi, del
neorealismo, testimoniata ai due estremi cronologici da La Romana
(1947) e La Ciociara (1957), che non interrompono il flusso di
espressione narrativa che gli è propria, ma solamente ne prospettano
qualche altra dimensione; e continuando si possono fare
considerazioni analoghe per quei suoi romanzi come La noia
(1960), L'attenzione (1965), La vita interiore (1978),
ecc., che, dalle medesime coordinate, allungano lo sguardo su
fenomeni sociali e culturali che hanno caratterizzato gli anni
Sessanta e Settanta. Certo, in quello spirito semplificatorio e
disseccante che gli aveva permesso, alle soglie del fascismo
trionfante, di appuntare magistralmente i quattro personaggi degli
Indifferenti come esemplari di un’epoca, di un clima, di un
modo di vivere, in quanto individualità malate nell’esistenza.
Del resto proprio Gli
indifferenti offrono un altro tratto, altrettanto pervasivo, che
è la presenza, più o meno consistente, della città, e di una
particolare percezione della città, Roma, che ha una vera e propria
funzione strutturale della dimensione narrativa moraviana, in quanto
luogo fisico e materiale (quasi corporeo), ma anche specificamente
linguistico-culturale. Sono inseparabili dallo sfondo romano i tanti
suoi personaggi e lo è forse ancora di più l’impasto linguistico
che, anche in questo caso dagli Indifferenti in poi, si
dispone nella sua scrittura dentro un percorso già praticato da
Pirandello, in un contesto però e con esiti espressivi profondamente
diversi.
Nel suo modo di scrivere
e di essere presente, attivo, sulla scena italiana ed europea per un
sessantennio, tutto appare dunque chiaro e relativamente semplice,
una volta che si colga la matrice della sua vocazione alla
letteratura, più volte ribadita come interesse primario.
Recentemente sull’“Espresso” abbiamo letto: «Sono stato uno
scrittore e basta: ho preso sul serio soprattutto la letteratura e
tutto il resto è stato subordinato... Penso che si crede in qualche
cosa quando si è originali rispetto a questa cosa. Ora nella
letteratura, senza presunzione, credo di poter dire qualche cosa di
originale perché è la sola cosa di cui veramente mi sono occupato
nella vita». Al di là di quella punta di snobismo che il
personaggio Moravia ha spesso manifestato, resta il senso della
appartenenza piena a una zona della vita che Moravia ha percorso con
grande prolificità e con un impegno che si è talora apparentato a
quello teorizzato e mitizzato in decenni passati, ma è evidentemente
connotato in forme e in modi del tutto singolari. L'aspirazione che
pure ha nutrito di ricoprire un ruolo da maitre-à-penser
(alla Sartre) nel panorama culturale italiano, ha trovato certamente
molte occasioni di esprimersi concretamente, dentro le polemiche
letterarie, sul terreno dell’organizzazione culturale e, non
ultimo, al livello della politica attiva. E tuttavia, io credo, le
stesse ragioni che ne hanno fatto un così vivo protagonista della
scena letteraria sono alla radice della sostanziale marginalità
delle altre, molte, sue presenze nella vita pubblica.
Come scrittore e come
intellettuale Moravia ha sempre sentito attrazione per alcuni tratti
di esseri umani, di soggetti, di intrecci di vicende. È quasi un
luogo comune della critica il binomio sesso-denaro come precipuo
motivo conduttore della sua narrativa; ma, in fondo, non importa che
siano proprio questi i nuclei tematici, importa invece che il suo è
un occhio lucido e tagliente che scarnifica ciò che ricade sotto la
sua vista e ce ne restituisce la sostanza precisamente ossificata.
Questo modo di procedere (che naturalmente non è del solo Moravia,
ma che lui sostanzia di sue originali ragioni) è difficilmente
conciliabile, per lo meno non sullo stesso piano, con l’attenzione
a fenomeni e manifestazioni diverse nelle espressioni e nelle
funzioni. E allora, il tentativo di attribuirgli un tale ruolo appare
non solo poco convincente, ma poi, nonostante le intenzioni,
inutilmente riduttivo.
Rinascita, 7 ottobre 1990
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