13.9.18

Moravia. La forza del moralista (Lucia Strappini)


Alberto Moravia è uno scrittore e un intellettuale che, al contrario della maggior parte dei suoi colleghi, può essere definito e inquadrato usando poche categorie, sul terreno specificatamente letterario come su quello ideologico e culturale. È insomma una figura netta, priva di ambiguità, di sfumature, di nodi irrisolti. Di qui, credo, la convinzione di molti critici che sia stato autore essenzialmente di un solo romanzo o dello stesso romanzo; il quale romanzo è il suo primo Gli indifferenti: quel libro che iniziò a scrivere quando aveva diciassette anni e pubblicò nel 1929, quando ne aveva ventidue, e che, come è noto, gli procurò la fama e il successo che sono i tratti salienti della sua intera carriera letteraria. Il moralismo prima di tutto, che è la cifra del suo modo di vedere e di rappresentare non soltanto come narratore, ma ancora più esplicitamente come saggista, giornalista, viaggiatore. L’ancoraggio forte è sempre, in ogni caso, a quella intelaiatura ideologica squisitamente personale che si è andato costruendo, mettendo insieme alcuni pezzi diversi e variamente amalgamati di letteratura e di cultura otto-novecentesca. È facilissimo, del resto, trovare intessute nella trama dei suoi scritti queste ascendenze che corrispondono a non moltissimi nomi e figure (Dostoevskij e Gide, per esempio, o anche Freud e Marx), ridotte, in un certo senso, alla misura della sua interazione col mondo. Un nucleo solido, compatto, sostanzialmente immutato che è tramutato in personaggi, in situazioni, in percezioni di modi di essere. Qui sta la forza di una scrittura che non è qualificata dallo spessore della operazione letteraria (alla maniera di Thomas Mann), oppure dalla finalità prismatica della costruzione narrativa e drammatica (è il caso di Pirandello); la qualità della scrittura moraviana sta precisamente nella capacità di proposizione di alcuni temi e motivi che ricevono senso dal fatto di essere governati da un saldo e netto punto di vista profondamente confitto nelle cose. Per questo a me non pare del tutto calzante la formula di Pampaloni, tante volte richiamata anche negli ultimi giorni, dell’«utopia del realismo» come chiave di lettura dell’ideologia letteraria moraviana; perché l’utopia, se e nelle forme in cui c’è, non è mai presente nei modi narrativi della scrittura in quanto elemento esterno ai personaggi e alle vicende: al contrario, nei suoi romanzi e racconti, soprattutto nei migliori, tutto è perfettamente oggettivato, anche quel «fantasma auto-biografico» di cui diceva Ottavio Cecchi sull'Unità di giovedì scorso.
Volendo indicare un proprio modello, Moravia, nel 1934, lo definiva come «un romanzo moralistico, politico e magari filosofico, nel quale l’intreccio abbia un valore tendenzioso e allegorico non dissimile da quello della parabola, un romanzo insomma di immaginazione e di idealità e non di trita e fotografica realtà». Nonostante il fatto che siano passati quasi sessanta anni da allora, non è difficile ricondurre le sue tante prove narrative alla figura così lucidamente disegnata in quell’occasione.
Il moralismo, come sempre del resto, è un’arma a doppio taglio: sostiene, motiva, sostanzia scrittura e comportamenti pubblici e privati, ma insieme impone dei limiti di orizzonte e di prospettiva. Sicché, tra gli scrittori della sua generazione, o comunque di coloro che hanno dovuto misurarsi con il ventennio fascista, Moravia è uno dei pochi che abbia sviluppato una sua linea di distanza, forse non appariscente ma profonda, da quella cultura e dalle radici ideologiche e intellettuali che la sostenevano. Tutto ciò abbiamo potuto poi ricostruirlo dai comportamenti, dalle scelte, dalle dichiarazioni dell’intellettuale Moravia; ma, accanto a quelle testimonianze dirette, possiamo collocare, esattamente sulla stessa linea, i romanzi e i racconti di quegli anni, scaturiti, non in senso ideologico ma squisitamente letterario, dalla medesima attitudine moralistica. La sua dichiarata, continua e convinta avversione a tutte le forme di prosa d'arte sta, credo, proprio dentro questa logica; così come la suggestione a cui fu sensibile, poi, del neorealismo, testimoniata ai due estremi cronologici da La Romana (1947) e La Ciociara (1957), che non interrompono il flusso di espressione narrativa che gli è propria, ma solamente ne prospettano qualche altra dimensione; e continuando si possono fare considerazioni analoghe per quei suoi romanzi come La noia (1960), L'attenzione (1965), La vita interiore (1978), ecc., che, dalle medesime coordinate, allungano lo sguardo su fenomeni sociali e culturali che hanno caratterizzato gli anni Sessanta e Settanta. Certo, in quello spirito semplificatorio e disseccante che gli aveva permesso, alle soglie del fascismo trionfante, di appuntare magistralmente i quattro personaggi degli Indifferenti come esemplari di un’epoca, di un clima, di un modo di vivere, in quanto individualità malate nell’esistenza.
Del resto proprio Gli indifferenti offrono un altro tratto, altrettanto pervasivo, che è la presenza, più o meno consistente, della città, e di una particolare percezione della città, Roma, che ha una vera e propria funzione strutturale della dimensione narrativa moraviana, in quanto luogo fisico e materiale (quasi corporeo), ma anche specificamente linguistico-culturale. Sono inseparabili dallo sfondo romano i tanti suoi personaggi e lo è forse ancora di più l’impasto linguistico che, anche in questo caso dagli Indifferenti in poi, si dispone nella sua scrittura dentro un percorso già praticato da Pirandello, in un contesto però e con esiti espressivi profondamente diversi.
Nel suo modo di scrivere e di essere presente, attivo, sulla scena italiana ed europea per un sessantennio, tutto appare dunque chiaro e relativamente semplice, una volta che si colga la matrice della sua vocazione alla letteratura, più volte ribadita come interesse primario. Recentemente sull’“Espresso” abbiamo letto: «Sono stato uno scrittore e basta: ho preso sul serio soprattutto la letteratura e tutto il resto è stato subordinato... Penso che si crede in qualche cosa quando si è originali rispetto a questa cosa. Ora nella letteratura, senza presunzione, credo di poter dire qualche cosa di originale perché è la sola cosa di cui veramente mi sono occupato nella vita». Al di là di quella punta di snobismo che il personaggio Moravia ha spesso manifestato, resta il senso della appartenenza piena a una zona della vita che Moravia ha percorso con grande prolificità e con un impegno che si è talora apparentato a quello teorizzato e mitizzato in decenni passati, ma è evidentemente connotato in forme e in modi del tutto singolari. L'aspirazione che pure ha nutrito di ricoprire un ruolo da maitre-à-penser (alla Sartre) nel panorama culturale italiano, ha trovato certamente molte occasioni di esprimersi concretamente, dentro le polemiche letterarie, sul terreno dell’organizzazione culturale e, non ultimo, al livello della politica attiva. E tuttavia, io credo, le stesse ragioni che ne hanno fatto un così vivo protagonista della scena letteraria sono alla radice della sostanziale marginalità delle altre, molte, sue presenze nella vita pubblica.
Come scrittore e come intellettuale Moravia ha sempre sentito attrazione per alcuni tratti di esseri umani, di soggetti, di intrecci di vicende. È quasi un luogo comune della critica il binomio sesso-denaro come precipuo motivo conduttore della sua narrativa; ma, in fondo, non importa che siano proprio questi i nuclei tematici, importa invece che il suo è un occhio lucido e tagliente che scarnifica ciò che ricade sotto la sua vista e ce ne restituisce la sostanza precisamente ossificata. Questo modo di procedere (che naturalmente non è del solo Moravia, ma che lui sostanzia di sue originali ragioni) è difficilmente conciliabile, per lo meno non sullo stesso piano, con l’attenzione a fenomeni e manifestazioni diverse nelle espressioni e nelle funzioni. E allora, il tentativo di attribuirgli un tale ruolo appare non solo poco convincente, ma poi, nonostante le intenzioni, inutilmente riduttivo.

Rinascita, 7 ottobre 1990

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