19.9.18

Un teatro d'arte per tutti. I 70 anni del Piccolo tra memoria e passione. Intervista al direttore Sergio Escobar (Giuseppina Manin)


Un'intervista dell'anno scorso, in occasione dei settant’anni del “Piccolo Teatro”, utile a ricordare - anche senza anniversari tondi – la grande storia e l'attualità di istituzioni che nell'attuale degrado rischiano la morte o l'elitarismo. “Un teatro d'arte per tutti”, dice Escobar sintetizzando una vicenda di eccellenza disponibile anche a studenti e lavoratori. È una parola d'ordine che dovrebbe orientare le scelte pubbliche, non solo a Milano. (S.L.L.)
Giusi Raspani Dandolo, Gabriella Pascoli, Lilla Brignone, Edda Albertini, Amalia D'Alessio 
in  “Questa sera si recita a soggetto”  di   Luigi Pirandello   al “Piccolo Teatro”  di  Milano. 
Regia di Giorgio Strehler. Stagione 1949 - 1950

«È una festa del teatro. Un teatro d’arte per tutti», ha annunciato Sergio Escobar, dal ‘98 direttore di quel Piccolo leggendario nato il 14 maggio ‘47 dal sogno di due ragazzi, Paolo Grassi e Giorgio Strehler, e che compie 70 anni. «Una festa di lavoratori, artisti, pubblico. Di chi c’era, c’è e ci sarà. Una festa di Milano, di cui il Piccolo è un simbolo, da sempre in sintonia con l’anima di questa città aperta, curiosa, inquieta»

Settant’anni, ma non è l’età della pensione.
«Piuttosto l’età della passione, della memoria frammentata, da ricostruire insieme per diventare attualità condivisa. Ero uno studente quando il mio professore di filosofia, Ludovico Geymonat, mi disse: “Sarai quello che avrai dimenticato”. In quei due futuri, semplice e anteriore, c’è la nostra storia».

Settant’anni, ma non è l’età della nostalgia.
«La nostalgia deve essere gioiosa. È una frase di Giulia Lazzarini, attrice cardine di questo teatro. Le radici sono la nostra forza ma non devono fermare i piedi che camminano».

Il viaggio è stato lungo.
«25mila500 giorni, più o meno quanti sono oggi i nostri abbonati. Li conto così, visto che il teatro si fa ogni sera: 370 spettacoli, centinaia di attori, registi, tecnici, sempre impegnati al massimo del rigore e della creatività. La bellezza salverà il mondo, si diceva. Ci credevamo tutti. Oggi ci credo un po’ meno, anche se la bellezza è necessaria più che mai».

La prima volta al Piccolo?
«Nel ‘63. Avevo 13 anni, fui “deportato” con la mia classe a una recita del “Galileo” di Brecht, regia di Strehler, con le scene meravigliose di Luciano Damiani e l’umanità enorme di Tino Buazzelli. Quella mattina scattò in me una fascinazione per il teatro che non mi ha più abbandonato».

Grandi spettacoli di cui non restano tracce.
«Parafrasando Shakespeare, anche il teatro è fatto della natura dei sogni. Quando il sipario si chiude tutto si dissolve. Quel che si porta via sono immagini, emozioni... Frammenti di memoria, appunto. Che oggi cerchiamo di restituire nelle 50 gigantografie di titoli celebri esposte in via Dante, nelle 500 fotografie del nostro archivio proiettate sulle facciate dello Strehler e del Grassi».

Senza didascalie. Peccato non sapere a quale spettacolo si riferiscono.
«Si vuole restituire l’incanto di un momento. Che un tempo viveva dentro le mura di quei teatri e ora riappare come un fantasma. Per chi vuole approfondire la parte storica, c’è un libro con un’ampia documentazione su ogni titolo».

Prima Strehler, poi Ronconi. La doppia vita del Piccolo.
«No. Nessuna frattura, piuttosto una continuità. Il filo rosso che da 70 anni unisce il nostro teatro è il pubblico, sempre più vasto e appassionato. Il Piccolo sa rispondere alle domande dei tempi».

Nel ‘91 è diventato Teatro d’Europa. Che allora era una speranza, oggi una fragilità.
«Sono appena uscito da un convegno con due registi che quel sogno hanno condiviso e qui sono di casa, Stéphane Braunschweig e Lluis Pasqual. Se allora Europa voleva dire ritrovarsi, oggi significa riconoscersi. Per continuare a esistere deve volgere lo sguardo al resto del mondo, aprirsi a nuove culture. Qui sono passati spettacoli in 28 lingue; nel 2003 abbiamo aperto al Mediterraneo. Il teatro deve essere in anticipo sui tempi».

Tra gli spettacoli simbolo ripresi per l’occasione i «Sei personaggi» di Ronconi e l’«Arlecchino» di Strehler.
«Per Ronconi abbiamo scelto lo spettacolo dei giovani, con i suoi allievi della scuola di Santa Cristina. Per Strehler invece il manifesto del suo teatro, da sessant’anni vissuto sul corpo di Ferruccio Soleri. L’edizione dell’"addio" così buia, illuminata da candele, nasce non a caso mentre Giorgio Strehler prepara il suo Don Giovanni alla Scala».

Un tempo si parlava di decentramento, di portare gli spettacoli nelle periferie.
«Periferia oggi è un termine sbagliato. Io abito a 32 chilometri da Milano, nella città metropolitana. Renzo Piano parla di “ricucire le periferie”, io preferisco l’idea di “cucire la città”. Dietro la mia scrivania c’è una frase di Italo Calvino: “Metterò assieme pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col resto, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie”. Tra le tante città ideali, questa è la mia».

Corriere della sera, 14 maggio 2017

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