Un'intervista dell'anno
scorso, in occasione dei settant’anni del “Piccolo Teatro”,
utile a ricordare - anche senza anniversari tondi – la grande
storia e l'attualità di istituzioni che nell'attuale degrado
rischiano la morte o l'elitarismo. “Un teatro d'arte per tutti”,
dice Escobar sintetizzando una vicenda di eccellenza disponibile
anche a studenti e lavoratori. È una parola d'ordine che dovrebbe
orientare le scelte pubbliche, non solo a Milano. (S.L.L.)
Giusi
Raspani Dandolo, Gabriella Pascoli, Lilla Brignone, Edda Albertini,
Amalia D'Alessio
in “Questa sera si recita a soggetto” di Luigi
Pirandello al “Piccolo Teatro” di Milano.
Regia di Giorgio
Strehler. Stagione 1949 - 1950
«È una festa del teatro. Un teatro d’arte per tutti», ha annunciato Sergio Escobar, dal ‘98 direttore di quel Piccolo leggendario nato il 14 maggio ‘47 dal sogno di due ragazzi, Paolo Grassi e Giorgio Strehler, e che compie 70 anni. «Una festa di lavoratori, artisti, pubblico. Di chi c’era, c’è e ci sarà. Una festa di Milano, di cui il Piccolo è un simbolo, da sempre in sintonia con l’anima di questa città aperta, curiosa, inquieta»
Settant’anni, ma non è l’età della pensione.
Settant’anni, ma non è l’età della pensione.
«Piuttosto l’età
della passione, della memoria frammentata, da ricostruire insieme per
diventare attualità condivisa. Ero uno studente quando il mio
professore di filosofia, Ludovico Geymonat, mi disse: “Sarai quello
che avrai dimenticato”. In quei due futuri, semplice e anteriore,
c’è la nostra storia».
Settant’anni, ma non
è l’età della nostalgia.
«La nostalgia deve
essere gioiosa. È una frase di Giulia Lazzarini, attrice cardine di
questo teatro. Le radici sono la nostra forza ma non devono fermare i
piedi che camminano».
Il viaggio è stato
lungo.
«25mila500 giorni, più
o meno quanti sono oggi i nostri abbonati. Li conto così, visto che
il teatro si fa ogni sera: 370 spettacoli, centinaia di attori,
registi, tecnici, sempre impegnati al massimo del rigore e della
creatività. La bellezza salverà il mondo, si diceva. Ci credevamo
tutti. Oggi ci credo un po’ meno, anche se la bellezza è
necessaria più che mai».
La prima volta al
Piccolo?
«Nel ‘63. Avevo 13
anni, fui “deportato” con la mia classe a una recita del
“Galileo” di Brecht, regia di Strehler, con le scene meravigliose
di Luciano Damiani e l’umanità enorme di Tino Buazzelli. Quella
mattina scattò in me una fascinazione per il teatro che non mi ha
più abbandonato».
Grandi spettacoli di
cui non restano tracce.
«Parafrasando
Shakespeare, anche il teatro è fatto della natura dei sogni. Quando
il sipario si chiude tutto si dissolve. Quel che si porta via sono
immagini, emozioni... Frammenti di memoria, appunto. Che oggi
cerchiamo di restituire nelle 50 gigantografie di titoli celebri
esposte in via Dante, nelle 500 fotografie del nostro archivio
proiettate sulle facciate dello Strehler e del Grassi».
Senza didascalie.
Peccato non sapere a quale spettacolo si riferiscono.
«Si vuole restituire
l’incanto di un momento. Che un tempo viveva dentro le mura di quei
teatri e ora riappare come un fantasma. Per chi vuole approfondire la
parte storica, c’è un libro con un’ampia documentazione su ogni
titolo».
Prima Strehler, poi
Ronconi. La doppia vita del Piccolo.
«No. Nessuna frattura,
piuttosto una continuità. Il filo rosso che da 70 anni unisce il
nostro teatro è il pubblico, sempre più vasto e appassionato. Il
Piccolo sa rispondere alle domande dei tempi».
Nel ‘91 è diventato
Teatro d’Europa. Che allora era una speranza, oggi una fragilità.
«Sono appena uscito da
un convegno con due registi che quel sogno hanno condiviso e qui sono
di casa, Stéphane Braunschweig e Lluis Pasqual. Se allora Europa
voleva dire ritrovarsi, oggi significa riconoscersi. Per continuare a
esistere deve volgere lo sguardo al resto del mondo, aprirsi a nuove
culture. Qui sono passati spettacoli in 28 lingue; nel 2003 abbiamo
aperto al Mediterraneo. Il teatro deve essere in anticipo sui tempi».
Tra gli spettacoli
simbolo ripresi per l’occasione i «Sei personaggi» di Ronconi e
l’«Arlecchino» di Strehler.
«Per Ronconi abbiamo
scelto lo spettacolo dei giovani, con i suoi allievi della scuola di
Santa Cristina. Per Strehler invece il manifesto del suo teatro, da
sessant’anni vissuto sul corpo di Ferruccio Soleri. L’edizione
dell’"addio" così buia, illuminata da candele, nasce non a
caso mentre Giorgio Strehler prepara il suo Don Giovanni alla Scala».
Un tempo si parlava di
decentramento, di portare gli spettacoli nelle periferie.
«Periferia oggi è un
termine sbagliato. Io abito a 32 chilometri da Milano, nella città
metropolitana. Renzo Piano parla di “ricucire le periferie”, io
preferisco l’idea di “cucire la città”. Dietro la mia
scrivania c’è una frase di Italo Calvino: “Metterò assieme
pezzo a pezzo la città perfetta, fatta di frammenti mescolati col
resto, di segnali che uno manda e non sa chi li raccoglie”. Tra le
tante città ideali, questa è la mia».
Corriere della sera, 14
maggio 2017
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