2.9.18

Viaggi. Da Roma a Milano meglio l'Intercity dell'Eurostar (Luciano del Sette)

Un articolo molto bello su un'esperienza che per tanti era fonte di gioia e sta diventando piuttosto rara, il viaggio in un treno comodo ma non troppo veloce. I treni Intercity non sono più gli stessi e il più delle volte non hanno gli scompartimenti di cui l'autore scrive e forse anche i percorsi non sono più gli stessi per lunghi tratti. Sembra prevalsa l'idea che i trasporti su rotaia per le lunghe percorrenze siano riservati a treni veloci, pubblici o privati, in cui l'esperienza del finestrino è complicata da tante diavolerie. Gli Intercity, peraltro, non sono certo “pieni di signori” come i treni del primo Novecento cari alla musa di Francesco Guccini, ma – se non prenotati con largo anticipo – hanno costi più pesanti di un tempo, il che rende più efficace la concorrenza degli autobus. Ciò nonostante il viaggio qui suggerito, in un treno non troppo veloce e con alcune fermate intermedie, non è ancora del tutto impossibile. Magari non negli scompartimenti a 6 e con tratti più lunghi in galleria, ma si può ancora fare. E dai finestrini lo spettacolo è assicurato. (S.L.L.)


Meglio l’intercity dell’eurostar. Un’ora e mezza in più di viaggio, ma vuoi mettere i sei posti dello scompartimento, contro le lunghe file dei sedili open space? Vuoi mettere il silenzio dello scompartimento quando chiudi la porta, contro i bombardamenti dei cellulari e delle voci melliflue (registrate e non) che escono in continuazione dagli altoparlanti? E poi i finestrini: grandi, con un’apertura in alto per far entrare una boccata d’aria non condizionata. I finestrini attraverso i quali puoi vedere paesi e paesaggi, scoprire particolari altre volte sfuggiti, dare libertà ai pensieri stimolati dalla pace dello scompartimento.
Meglio l’intercity dell’eurostar, se vuoi che un viaggio, per esempio da Roma a Milano, sia davvero tale. Perché l’intercity conosce anche la lentezza e ti permette di guardare, mentre l’eurostar dissolve ogni immagine o quasi in una strisciata che fa somigliare il mondo esterno a un quadro astratto. L’importante è compiere il viaggio con la luce del giorno e con l’ovvia accortezza di chiedere un posto finestrino. Stazione Termini, Roma, ore 8 e 47, binario 6, arrivo previsto a Milano 14 e 50, 12 fermate intermedie ad attraversare Lazio, Umbria, Toscana, Emilia Romagna e un pezzetto di Lombardia. Sali, occupi il tuo posto, disponi giornali, libro, bagagli come se volessi delimitare un territorio temporaneamente tuo. Una piccola scossa, il treno si avvia. Le uscite (o le entrate) dalle stazioni si somigliano tutte: uffici e depositi con alle spalle o davanti condomini consumati da un’eterna povertà: facciate sporche, finestre cui sono appesi panni e antenne televisive.
Fino a Orte nulla di speciale, il tempo può scorrere leggendo il giornale. Ma da Orte in poi gli occhi devono guardare oltre il vetro. Perché il Lazio dissolve nell’Umbria e l’Umbria nella Toscana. Spettacolo reso ancor più piacevole da lunghi tratti dove i cellulari tacciono per assenza di segnale. I vagoni dondolano tra spazi verdi con sfondi di colline pettinate a vitigni, scorrono regalandoti in lontananza la visione di paesi in cima a un’altura, oppure sfilano a poco più di un passo da poderi e borghi.
Un rumore sordo e improvviso si accompagna al buio totale.
La prima di tante gallerie come passaggi frequenti dalla notte al giorno. Rallenta, il treno. E devi alzare lo sguardo per incontrare la rocca di tufo su cui è aggrappata Orvieto. Anche dal basso, è l’imponenza del duomo la prima cosa che noti.
La stazione è ai piedi della rocca. Sono strane creature urbane, le stazioni. Sembrano costruite e disegnate quasi per impedirti di immaginare cosa si nasconda oltre l’uscita e, così, invitarti a scendere e a scoprire. Di essere entrato in Toscana, nel Senese, hai la certezza non appena la presenza dei cipressi si fa costante, elemento principe della terra che contempli dal finestrino insieme alle grandi distese di vigne, all’ordine delle architetture rurali, dei poderi, delle case nobiliari: un ordine che qualcuno ha definito persino lezioso, ma che non può non incantare. Si dice, della Toscana, che rappresenti la prima operazione di marketing turistico compiuta quando ancora il turismo non esisteva. Otto secoli fa. Forse, con più propensione al sentimento, si può invece dire che l’unicità di questa regione sia nata da un rapporto d’amore speciale che tutta la sua gente, di qualunque ceto e mestiere, ha avuto e continua ad avere con lei.
Chiusi, porta d’ingresso a una Chianciano Terme in lenta decadenza da quando i “fanghi” e la “cura delle acque” la mutua non li passa più; universo dove alberghi e pensioni sembrano in maggior numero rispetto alle case, ammantati di una malinconia congenita, scandita dai passi lenti di una clientela anziana. Arezzo e poi Firenze. Qui l’intercity sosta un quarto d’ora. C’è il tempo per scendere e fumarsi una si-garetta, e in quei pochi minuti contemplare il viavai ininterrotto di turisti che scendono dai treni, corrono, guardano i tabelloni degli orari, chiedono informazioni.
Turisti, a decine di migliaia tutto l’anno. Benedizione economica ma, non sono pochi i fiorentini ad affermarlo convinti, popolo che rende la città invivibile.
Il passaggio per Prato, regno delle stoffe, degli indumenti riciclati, di una delle prime e più grandi comunità cinesi in Italia, l’arrivo a Bologna. Un’ora di distanza da Firenze, due mondi contrapposti. Bellissima, la città di San Petronio. Eppure una manciata di turisti, perché qui non interessano. Qui si va di commercio, di fabbriche sperse nella Bassa, di proventi che arrivano dal popolo universitario.
Strana città, Bologna. Ci avverti calore, cordialità, simpatia.
Ma se ti capita di viverci da “straniero” ti accorgi di quanto sia difficile concretizzare tutto ciò in un rapporto che meriti tale nome.
Resti sospeso sul filo di un accento dal quale ti aspetteresti di più.
Tortellini, mortadella, prosciutto, parmigiano. Cioè Modena, Reggio Emilia, Parma, Fidenza. Sul cartello di ciascuna stazione potresti scriverci il nome della specialità che ha reso celebre il posto, tanto i passeggeri saprebbero di essere arrivati. La Bassa dal finestrino. Sembra un paradosso, ma se la guardi con il sole ti infonde persino un po’di tristezza. Se l’attraversi con la nebbia, non puoi far altro che constatare come tutto ciò che si è detto a proposito di questa ovatta padana abbia pieno diritto a non venir tacciato di retorica.
La nebbia: sommerge i casoni agricoli, trasforma in fantasmi gli uomini e le donne in bicicletta lungo i sentieri di campagna, si miscela con il sole creando una luce irreale, fa scomparire tutto per restituirlo d’improvviso secondo i suoi capricci. La nebbia che ti culla e ti induce al sonno. Dal quale ti scuote il capotreno, il terzo: accento lombardo dopo quello fiorentino ed emiliano. Stazione centrale di Milano, grattacielo Pirelli, metropolitana, campanello della casa di un amico. Dallo schermo del televisore, acceso durante la cena per vedere un TG, ecco Roma. Sei ore soltanto di distanza, ma incredibilmente lontana.

Da Le mille e una rotta, Supplemento viaggi de “il manifesto”, dicembre 2004

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