Meglio
l’intercity dell’eurostar. Un’ora e mezza in più di viaggio,
ma vuoi mettere i sei posti dello scompartimento, contro le lunghe
file dei sedili open space? Vuoi mettere il silenzio dello
scompartimento quando chiudi la porta, contro i bombardamenti dei
cellulari e delle voci melliflue (registrate e non) che escono in
continuazione dagli altoparlanti? E poi i finestrini: grandi, con
un’apertura in alto per far entrare una boccata d’aria non
condizionata. I finestrini attraverso i quali puoi vedere paesi e
paesaggi, scoprire particolari altre volte sfuggiti, dare libertà ai
pensieri stimolati dalla pace dello scompartimento.
Meglio
l’intercity dell’eurostar, se vuoi che un viaggio, per esempio da
Roma a Milano, sia davvero tale. Perché l’intercity conosce anche
la lentezza e ti permette di guardare, mentre l’eurostar dissolve
ogni immagine o quasi in una strisciata che fa somigliare il mondo
esterno a un quadro astratto. L’importante è compiere il viaggio
con la luce del giorno e con l’ovvia accortezza di chiedere un
posto finestrino. Stazione Termini, Roma, ore 8 e 47, binario 6,
arrivo previsto a Milano 14 e 50, 12 fermate intermedie ad
attraversare Lazio, Umbria, Toscana, Emilia Romagna e un pezzetto di
Lombardia. Sali, occupi il tuo posto, disponi giornali, libro,
bagagli come se volessi delimitare un territorio temporaneamente tuo.
Una piccola scossa, il treno si avvia. Le uscite (o le entrate) dalle
stazioni si somigliano tutte: uffici e depositi con alle spalle o
davanti condomini consumati da un’eterna povertà: facciate
sporche, finestre cui sono appesi panni e antenne televisive.
Fino
a Orte nulla di speciale, il tempo può scorrere leggendo il
giornale. Ma da Orte in poi gli occhi devono guardare oltre il vetro.
Perché il Lazio dissolve nell’Umbria e l’Umbria nella Toscana.
Spettacolo reso ancor più piacevole da lunghi tratti dove i
cellulari tacciono per assenza di segnale. I vagoni dondolano tra
spazi verdi con sfondi di colline pettinate a vitigni, scorrono
regalandoti in lontananza la visione di paesi in cima a un’altura,
oppure sfilano a poco più di un passo da poderi e borghi.
Un
rumore sordo e improvviso si accompagna al buio totale.
La
prima di tante gallerie come passaggi frequenti dalla notte al
giorno. Rallenta, il treno. E devi alzare lo sguardo per incontrare
la rocca di tufo su cui è aggrappata Orvieto. Anche dal basso, è
l’imponenza del duomo la prima cosa che noti.
La
stazione è ai piedi della rocca. Sono strane creature urbane, le
stazioni. Sembrano costruite e disegnate quasi per impedirti di
immaginare cosa si nasconda oltre l’uscita e, così, invitarti a
scendere e a scoprire. Di essere entrato in Toscana, nel Senese, hai
la certezza non appena la presenza dei cipressi si fa costante,
elemento principe della terra che contempli dal finestrino insieme
alle grandi distese di vigne, all’ordine delle architetture rurali,
dei poderi, delle case nobiliari: un ordine che qualcuno ha definito
persino lezioso, ma che non può non incantare. Si dice, della
Toscana, che rappresenti la prima operazione di marketing turistico
compiuta quando ancora il turismo non esisteva. Otto secoli fa.
Forse, con più propensione al sentimento, si può invece dire che
l’unicità di questa regione sia nata da un rapporto d’amore
speciale che tutta la sua gente, di qualunque ceto e mestiere, ha
avuto e continua ad avere con lei.
Chiusi,
porta d’ingresso a una Chianciano Terme in lenta decadenza da
quando i “fanghi” e la “cura delle acque” la mutua non li
passa più; universo dove alberghi e pensioni sembrano in maggior
numero rispetto alle case, ammantati di una malinconia congenita,
scandita dai passi lenti di una clientela anziana. Arezzo e poi
Firenze. Qui l’intercity sosta un quarto d’ora. C’è il tempo
per scendere e fumarsi una si-garetta, e in quei pochi minuti
contemplare il viavai ininterrotto di turisti che scendono dai treni,
corrono, guardano i tabelloni degli orari, chiedono informazioni.
Turisti,
a decine di migliaia tutto l’anno. Benedizione economica ma, non
sono pochi i fiorentini ad affermarlo convinti, popolo che rende la
città invivibile.
Il
passaggio per Prato, regno delle stoffe, degli indumenti riciclati,
di una delle prime e più grandi comunità cinesi in Italia, l’arrivo
a Bologna. Un’ora di distanza da Firenze, due mondi contrapposti.
Bellissima, la città di San Petronio. Eppure una manciata di
turisti, perché qui non interessano. Qui si va di commercio, di
fabbriche sperse nella Bassa, di proventi che arrivano dal popolo
universitario.
Strana
città, Bologna. Ci avverti calore, cordialità, simpatia.
Ma
se ti capita di viverci da “straniero” ti accorgi di quanto sia
difficile concretizzare tutto ciò in un rapporto che meriti tale
nome.
Resti
sospeso sul filo di un accento dal quale ti aspetteresti di più.
Tortellini,
mortadella, prosciutto, parmigiano. Cioè Modena, Reggio Emilia,
Parma, Fidenza. Sul cartello di ciascuna stazione potresti scriverci
il nome della specialità che ha reso celebre il posto, tanto i
passeggeri saprebbero di essere arrivati. La Bassa dal finestrino.
Sembra un paradosso, ma se la guardi con il sole ti infonde persino
un po’di tristezza. Se l’attraversi con la nebbia, non puoi far
altro che constatare come tutto ciò che si è detto a proposito di
questa ovatta padana abbia pieno diritto a non venir tacciato di
retorica.
La
nebbia: sommerge i casoni agricoli, trasforma in fantasmi gli uomini
e le donne in bicicletta lungo i sentieri di campagna, si miscela con
il sole creando una luce irreale, fa scomparire tutto per restituirlo
d’improvviso secondo i suoi capricci. La nebbia che ti culla e ti
induce al sonno. Dal quale ti scuote il capotreno, il terzo: accento
lombardo dopo quello fiorentino ed emiliano. Stazione centrale di
Milano, grattacielo Pirelli, metropolitana, campanello della casa di
un amico. Dallo schermo del televisore, acceso durante la cena per
vedere un TG, ecco Roma. Sei ore soltanto di distanza, ma
incredibilmente lontana.
Da
Le mille e una rotta,
Supplemento viaggi de “il manifesto”, dicembre 2004
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