Alberto Moravia, oltre
che un grande della letteratura europea del Novecento, è stato anche
un protagonista quasi istituzionale della vita civile e del costume
italiano di questo secolo. I due aspetti sono sempre stati
compresenti, ma ovviamente negli ultimi due-tre decenni di una così
lunga vita si erano intrecciati sempre più.
Credo che sia esperienza
comune a molti il risalire con il pensiero, quando si parla di
Moravia, alla sua prima opera, il romanzo Gli indifferenti
(1929). Ci sono scrittori che sviluppano lentamente ed
evoluzionisticamente le loro inclinazioni più profonde; e altri che
le manifestano di getto fin dalla prima esperienza. Moravia era
indubitabilmente di questi ultimi.
Negli Indifferenti
c’è già, in nuce, quello che egli sarà nei decenni successivi:
questa sua prosa così caratteristicamente grigia e avvolgente,
apparentemente realistica fino al documentarismo e invece fortemente
sintetica, selettiva, quasi surreale (quegli sono gli anni, non
dimentichiamolo, delle migliori esperienze di un Bontempelli, e di un
Pirandello ormai maturo, acre roditore dell’impianto individuale
borghese, qui sullo sfondo, ma non mai del tutto assente); questo suo
mondo morale e sociale in cui si riflette il sentore morboso e un po'
perverso di una putrefazione incombente; questo suo sguardo attento,
vigile, qualche volta maligno, con cui i personaggi e le cose vengono
fissati in un quadro di desolazione intellettuale senza fine. È
ovvio che, con un impianto del genere, Moravia appariva
sull’orizzonte letterario italiano del suo tempo come un vero e
proprio trauma, che i rondeschi, i calligrafisti e gli elzeviristi
avrebbero cercato di riassorbire (ma senza riuscirvi), additando le
indubbie qualità stilistiche e l'efficace trattamento della prosa,
che lo facevano «nuovo» rispetto alle tradizioni narrative anche
più recenti (anche se, sul piano storico, la figura di Tozzi e, su
di un piano ben più alto, quella di Italo Svevo avrebbero più tardi
movimentato il quadro più di quanto in quel momento non apparisse).
Con la dote degli
Indifferenti il giovane Moravia arriva alla guerra senza produrre
ancora gran che di significativo, fino allo splendido racconto lungo
Agostino (1944), che apre secondo me una nuova fase.
L’esperienza dell’introspezionepsicologica, appoggiata a più
fresche letture freudiane, mette Moravia in condizione di trasferire
nel racconto esistenziale quello che in precedenza con gli
Indifferenti aveva realizzato sul piano del quadro di
ambiente. Dall’interno borghese, inteso alla maniera di un certo
Pirandello, passa all’intimità borghese alla maniera di certi
francesi del Novecento (Gide?). Non solo. Questo passaggio, infatti,
gli consente di interiorizzare profondamente anche la sua esperienza
della realtà storica e sociale contemporanea. Il suo incontro con il
neorealismo (incontro, beninteso, mai identificazione) avviene
mediante questa originale traslazione di piani. La Romana
(1947) e La Ciociara (1957) sono ambedue romanzi di vasto
affresco storico, in cui Moravia si stacca dall'originaria tematica
borghese per accostarsi al mondo infimo-borghese o francamente
proletario. In questo modo, egli supera la ripetitività degli anni
Trenta, scavalca l’ostacolo rappresentato dalla gabbia della
tematica borghese intesa in senso stretto ed evolve verso una più
libera, meno condizionata visione del mondo. Però, al tempo stesso,
introietta la sua personalità più profonda nei personaggi «altri»,
diversi, da lui disegnati, inocula il virus della decadenza borghese
nella morbida, corrotta sanità dei due personaggi femminili eponimi.
Due personaggi femminili: non a caso. Il transfert può avvenire solo
in quanto Alberto Moravia si cala in esse, ovvero cala in esse la sua
ambigua componente femminile, che è cospicua. Flaubert diceva di
Madame Bovary: «c’est moi». Allo stesso titolo Moravia avrebbe
potuto dire «C’est moi» sia della «Romana» sia della
«Ciociara».
Poiché un ragionamento
analogo si potrebbe fare anche per l’importante volume dei Racconti
romani (1954), si capisce come per questo verso Moravia arrivi a
precedere e a influenzare uno scrittore pur così diverso da lui come
Pier Paolo Pasolini.
Con gli anni Sessanta, e
con il romanzo La noia (1960), Moravia inizia un’altra fase
contraddistinta da una certa fenomenologia strutturalistica e da una
predominanza sempre maggiore del dato sessuale. È l’inizio di un
lungo, anche se fecondo, declino.
Un uomo come questo non
poteva avere con la politica un rapporto banale, e pure non poteva
non avere un rapporto con la politica. In un saggio veramente
notevole del 1964, L'uomo come fine, Mora via delinea una sua
originale posizione molto dipendente dall’esistenzialismo francese
e da Camus, ma con tratti autonomi ben distinti. La sua politica è
fondamentalmente una critica del totalitarismo in tutte le sue forme
(anche in quelle derivanti, francofortianamente, dallo sviluppo
abnorme della società capitalistica). Tuttavia, la sua simpatia
critica verso il comunismo, e in particolare verso il comunismo
italiano, dimostra che egli sapeva ben orientarsi tra amici veri e
amici falsi, e ben distinguere tra le forme astratte delle ideologie
e le loro concrete, storiche manifestazioni. Non era in nessun modo
un «compagno di strada». Era un uomo con una idea precisa della
convivenza civile e della morale corrente. Per questo, pur stando
dall'altra parte, si collocava da questa.
Con questo spirito aveva
sostenuto negli ultimi vent'anni una prospettiva ecologica e
ambientalistica di grandi ambizioni, ancora una volta ricollegando il
destino dell’uomo alle condizioni reali della sua libertà. Su
posizioni antinucleari era andato al Parlamento europeo come
indipendente nelle liste del Pei, uscendo solo in questo caso da un
riserbo pluridecennale.
Ma soprattutto aveva
espresso questa sua curiosità di mondo e di conoscenza in una lunga
serie di viaggi, di cui aveva dato resoconti precisi, documentati e
di buona fattura letteraria. Il suo gusto per la descrizione concisa
e diligente, - fino ai limiti, come abbiamo già detto, del grigiore,
— si era manifestato a perfezione in questo nuovo capitolo della
lunga tradizione italiana della letteratura di viaggi.
L’uomo al centro
dell’esistenza, e resistenza al centro del mondo. Un individualismo
molto spinto, e al tempo stesso un senso molto forte delle relazioni
e dei rapporti umani. Intelligente, colto, illuminista; ma anche
complicato e morboso fino al voyerismo e all’oscenità. Un
personaggio complesso, risolto forse soltanto alla fine
nell'operazione di scrittura concepita anche, se non soprattutto,
come professionalità e lavoro. La politica come completamento sul
piano civile del suo impegno letterario: ma su due piani sempre
tenuti rigorosamente distinti e separati.
“Rinascita”, 9
ottobre 1990
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