30.9.18

Qualcuno tolga il politically correct dal mio letto. Intervista a Philip Roth (Paola Zanuttini, 2016)



NEW YORK,10 gennaio 2016.
Non tanto per rispetto al più grande scrittore vivente, quanto per il suo lucido parquet, a casa di Philip Roth si entra senza scarpe. Non lo chiede in modo esplicito, ma pare la cosa più indicata, in presenza del compìto signore che viene ad aprire in calzerotti di lana, presumibilmente antiscivolo. L'appartamento, nell'Upper West Side, è luminoso, spoglio e quasi impersonale come quello di un giovane accademico. Pochi mobili, un po' di design, nessun indizio di genio e sregolatezza. Il genio, anzi, è molto ordinato. Il tappetino da ginnastica davanti alla finestra del soggiorno non è lì per sciatteria, ma perché è sempre a disposizione della malandata schiena di Roth che, andando per i 77, da anni scrive un po' in piedi, un po' seduto e un po' sdraiato per rabbonire le vertebre. La cucina custodisce i suoi segreti, nel caso li abbia, dietro un imperscrutabile nitore di legno chiaro. Ma questo è il pied-à-terre dove lo scrittore viene a svernare, la sua vera casa è un un'antica e isolata dimora nel Connecticut.
Roth si siede sulla sua poltrona Eames, pezzo forte del Modernismo, e butta lì: «Di che libro parliamo?».

Del trentesimo: L'umiliazione.
«Me lo racconti un po', ché ho finito di scrivere il trentunesimo e c'è rischio che faccia confusione».

Di colpo, Simon, grande attore teatrale, perde talento magia: a 65 anni, si ritira.
«Bell'idea. Vada avanti».

Sprofonda nel dolore. La moglie lo pianta: solo nella casa di campagna, non regge: va in clinica a curarsi le tendenze suicide. Ne esce anche più depresso. Ma poi incontra Pegeen, lesbica di quarant'anni che ha molto sofferto perché la sua fidanzata l'ha lasciata per operarsi e diventare uomo. Si innamora.
«La storia c'è».

Lei pare ricambiare. E si rimette le gonne, che le regala lui.
«Ah, lui la femminilizza».

Sì, ma poco dopo, Pegeen, torna anche a infilarsi l'imbracatura che regge il dildo. Verde.
«Mica male, come colpo di scena».

Aspetti. Simon, per compiacere i desideri birichini di Pegeen, rimorchia una donna al bar e organizza un triangolo.
«Niente di più sbagliato. La fa tornare agli antichi amori».

Infatti. Non le dico come finisce. Simon e Pegeen sono ebrei?
«Perché dovrebbero esserlo?».

I suoi personaggi, di solito, lo sono.
«Questi sono definiti da altre cose: tristezza, allegria, dubbi, desideri».

Lei legge le recensioni?
«Cerco di non farlo: una volta chiesi a Keith Hernandez, un famoso giocatore di baseball, se dava un occhio alle cronache sportive il giorno dopo la partita. Mi rispose: "Perché dovrei? So benissimo cosa è successo". Così ho capito perché non devo leggere cosa scrivono dei miei libri: anch'io so già cosa è successo».

Molti critici americani e inglesi si sono scandalizzati per le scene di sesso del romanzo. Uno s'è scusato con i lettori per aver citato la parola triangolo.
«Puritanesimo. Con quello che si vede nei film, si sente nelle canzoni o si trova su internet, ci si può scandalizzare per i miei libri? Un libro fa scandalo solo se è scritto male».

Forse, soprattutto alle donne, dà fastidio leggere che un vecchio, con il morale e la schiena a pezzi fino a qualche pagina prima, fa le acrobazie a letto con una che potrebbe essere sua figlia (e infatti è la figlia di due suoi amici). Le pari opportunità non arrivano a tanto.
«Interessante. Ma credo che sotto ci sia dell'altro: non è politicamente corretto descrivere una lesbica che vuole far sesso con un uomo. Non è politicamente corretto che un uomo cambi l'orientamento di una lesbica. Simon le offre un buon taglio di capelli, le compra dei bei vestiti: è un gioco per vedere come sta, e lei sta al gioco. Ma è un gioco che non rientra nel politically correct».

Categoria dello spirito che si infila anche sotto le lenzuola?
«Questo non lo so, ma nella percezione dei recensori di certo. Applicano questo punto di vista e qualcosa non torna: una lesbica dev'essere lesbica, è sbagliato volerla cambiare. Avessi usato la parola bisessuale sarebbe filato tutto liscio. Non l'ho usata apposta: conosco un buon numero di lesbiche tornate femminili ed etero».

Quante?
«Tre. Non è questo gran numero, ma una si è anche sposata».

C'è anche che le sue descrizioni del sesso sono spietate.
«Spietate?»

Lo raccontano per quello che è, nudo e crudo.
«Mi soddisfa l'idea di poter ancora scandalizzare, pensavo di aver perso la magia, in questo campo».

E, in generale, ha mai sentito che la stava perdendo?
«Agli scrittori succede sempre. A me, di solito, capita all'inizio di un libro o fra un libro e l'altro. E anche se non senti di perderla, ne hai comunque paura. È la paura dello scrittore, ma ce l'hanno anche i grandi attori».

Chi è Michiko Kakutani e perché parla male di lei?
«Non è una mia ammiratrice».

Infatti scrive che ormai i suoi personaggi sono solo vecchi sporcaccioni. Giudizio che, per osmosi, pare estenda a lei.
«Non è molto importante».

Ma se è la critica del New York Times...
«È una giornalista che pubblica recensioni. I critici non si occupano di recensioni, ma pensano ai libri e ci scrivono i saggi».

Per le sue leggendarie pagine sul tumore che più affligge la popolazione maschile, Roth è stato malevolmente definito una sorta di Proust della prostata, ma è un fatto che, da un po' di anni a questa parte, si concentri sulla decadenza, la morte e la lancinante persistenza del desiderio. Non è proprio roba da vecchi sporcaccioni. In Patrimonio, il libro sulla morte di suo padre, scrive che la vecchiaia non è un picnic...
«...E in Everyman dico che non è una battaglia: è un massacro».

Appunto, e il sesso che ruolo ha in questo massacro?
«Nel caso di Umiliazione la rende migliore e peggiore. Migliore quando cambia la vita del protagonista riempendola di progetti e illusioni. Devastante quando lo perde. Tutto quello che so è quello che descrivo, non so niente oltre a questo. In Il fantasma esce di scena, il mio vecchio Zuckerman è ormai fuori dal sesso, ma una giovane donna riesce a eccitarlo: il desiderio inappagato è qualcosa di bruciante e molto triste».

Dall'onanismo del giovane Portnoy alla prostata del suo ultratrentennale alter ego letterario Zuckerman, ai sogni perduti di Simon, come si è evoluto il suo racconto del sesso?
«Ci vorrebbe una settimana. Ma non è che ora parlo solo di sesso della terza età: in Indignazione, recentissimo, c'è la ragazza che fa...».

L'intermezzo angloitaliano per definire la pratica esercitata dalla ragazza sul giovane protagonista del romanzo richiama antichi ricordi.
«Nel 1972 andai a Praga e, già che c'ero, mi misi a cercare dei traduttori per Il lamento di Portnoy. Passammo una notte divertente: loro traducevano in ceco e ogni tanto pescavano parole inglesi che non conoscevano, tutte oscenità. Io cercavo di spiegarle, per lo più a gesti, davanti a gente che avevo mai visto prima».

Provi a spiegare a Michiko Kakutani perché parla di sesso.
«Perché è un grande tema. Lo era in Madame Bovary e in Anna Karenina: molti libri alla fine dell'800 parlano di adulterio. Nel 900, Joyce comincia a descriverlo – basta pensare a Molly nell'Ulisse – e Lawrence a celebrarlo. Poi a metà 900 gli scrittori si prendono la libertà di descriverlo. Come scrittore, sono nato in quella fase: allora, la descrizione grafica era consentita».

La psicoanalisi concede libertà di parola alle fantasie più inconfessabili. Andare in analisi ha liberato la sua scrittura?
«Poco o niente. Sono stato in analisi dal '63 al '68 e quello da cui mi ha liberato sono le conseguenze del mio terribile primo matrimonio».

E che era successo?
«La mia prima moglie non era una buona moglie. Disonesta, bugiarda, fredda di cuore. Le pare abbastanza? Non credo che la psicoanalisi abbia qualcosa a che vedere con il mio scrivere sul sesso. Il sesso c'è anche nel mio primo libro, Addio Columbus, del 1959. Freud fu un grande liberatore, ma non devi certo andare in analisi per subirne l'influenza. Ogni scrittore del 900 l'ha subita».

Non è che il secondo matrimonio, con l'attrice Claire Bloom, sia finito tanto meglio: lei, in un libro di memorie va giù pesantissima e la solita Kakutani insinua che lui, in Ho sposato un comunista, si ispiri a lei per lo sgradevole personaggio femminile. Come vanno i rapporti col movimento femminista?
«Non ho problemi con loro».

Li ha avuti.
«Ma esistono ancora?»

Chiaro che la detestassero.
«Non credo che mi detestino».

Viene accusato di misoginia.
«Insensato. Basta leggere bene i miei libri. Dai primi, come Lasciarsi andare o Quando Lucy era buona a La controvita o Pastorale americana».

In Pastorale, la figlia del protagonista, passata dal terrorismo al misticismo più astruso, gira con una mascherina per evitare di danneggiare col respiro i moscerini. È il ritratto straziante di una deriva generazionale: ma come le è venuto?
«È il mio lavoro. Avevo letto di questa filosofia indiana, il jain: scrivendo il libro mi è venuto di riusarla».

E il giovane Zuckerman convinto che la bella ragazza che ha davanti sia Anna Frank scampata ai lager, ma decisa a restare in incognito per non danneggiare il potenziale del suo diario ormai famoso?
«Su Anna Frank avevo lavorato per un libro incompiuto. Comincia a vedersi con un ragazzo e dopo un po' gli fa: "Devo dirti una cosa, sono Anna Frank". Lui pensa che sia matta, poi si chiede: " E se fosse vero?" Come il Pirandello di Come tu mi vuoi».

Anche lei ha una doppia identità: scrittore ascetico e inguaribile donnaiolo.
«Mi sarebbe piaciuto essere un grande donnaiolo, ma sono fantasie. In Connecticut, dove vivo gran parte del tempo, ci sono cervi, orsi, tacchini selvatici, ma niente donne».

Ho letto che è andato a ritirare un premio con una nuova fiamma di trentacinque anni.
«Non ricordo».

Aveva un fiocco in testa.
«Ah, sì. Una ragazza molto chic».

Tanto sesso, nei suoi libri, e non nasce mai un bambino.
«Non mi pare: Pastorale americana ruota tutto intorno a questa figlia diventata terrorista, il professore di La macchia umana ha tre figli».

Ma sono tutti grandi.
«Sì, ma chi scrive di bambini?».

Ian McEwan.
«Ha scritto di bambini?»

Bambini nel tempo.
«Ian, brava persona. Si rivolga a Ian se vuole leggere di bambini, a me se vuole leggere di figa».

Da che parte si mette quando descrive le esperienze limite dei suoi personaggi?
«Io capisco che uno possa fare le scelte più disastrose e dolorose per sé e per gli altri. Liberissimo. Faccio solo succedere cose che non so perché accadono senza il bisogno di approvare e disapprovare. Poi racconto le conseguenze».

Scrivere delle conseguenze è un'azione morale.
«Ha già più senso del cliché di misogino, misantropo, antisemita».

La produzione è un surrogato della riproduzione?
«Ma lei è fissata con i bambini! No, John Updike ha avuto quattro o cinque figli e ha scritto sessanta libri».

Al Pacino ha acquistato i diritti per L'umiliazione. Si può rendere al cinema la cattiva recitazione di un attore in crisi?
«Un bravo attore ci può riuscire».

Anche con il sesso sarà dura.
«Kurosawa tratterebbe il dildo come un coltello. E anche Bergman se la caverebbe egregiamente».

Qui il regista è Barry Levison.
«Non è un mio problema».

Invece, Phillip Noyce, il regista di Il collezionista d'ossa, vuole fare Pastorale. Che ne dice?
«Con Noyce ho preso un caffè cinque anni fa per parlare del progetto: non se ne farà niente».

Ma è soddisfatto dei suoi romanzi al cinema?
«Per niente. Lezioni d'amore, tratto da L'animale morente è un disastro. Ben Kingsley è affabile, il mio professor Kepesh no. E Penelope Cruz mostra il seno come un'odalisca, non come una a che ha paura di vederlo mutilato dal cancro».

Per caso, è insoddisfatto anche da Barack Obama? Da un'intervista a un quotidiano italiano, “Libero”, risulta che lo trova persino antipatico, oltre che inconcludente e assopito nei meccanismi del potere.
«Ma io non ho mai detto una cosa del genere. È grottesco. Scandaloso. È tutto il contrario di quello che penso. Considero Obama fantastico. E trovo che l'attacco che gli stanno sferrando i repubblicani è molto simile a quello subito da Roosevelt al suo primo mandato. È la destra più stupida mobilitata da Sarah Palin. Agitano la bufala dell'atto di nascita che dimostrerebbe che è nato in Kenya. E trovano ascolto. Sotto c'è il problema della razza, della pelle. Sono molto seccato per queste dichiarazioni che mi vengono attribuite: non ho mai parlato con questo “Libero”. Smentisca tutto. Ora chiamo il mio agente».

Chiama il suo agente, che gli filtra tutti i contatti: nell'agenda delle interviste passate e future non risulta né "Libero" né il nome dell'intervistatore. Roth attacca e poi chiede cosa vuol dire “Libero” in inglese. Traduco. «Vuol dire che questi sono liberi di fare tutto quello che gli pare?».

"Il Venerdì di Repubblica", 26 febbraio 2016

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