«Mi chiamo Claudine,
abito a Montigny, dove sono nata nel 1884; probabilmente non ci
morirò». Mente, mente già come un’autentica scrittrice. In
verità, ha undici anni in più della sua eroina, è nata nel 1873 a
Saint-Sauveur-en-Puisaye e si chiama Sidonie Gabrielle Colette: e sta
iniziando con queste parole una carriera di scrittrice che la
condurrà dal dilettantismo alla gloria.
Oggetto di un culto
diffuso e mai trascurato nel tempo, Colette (che si spense a Parigi
il 2 agosto 1954) conosce oggi un ulteriore clamoroso rilancio
editoriale. Nella mitica collana Plèiade esce in Francia il primo
tomo delle opere complete, e, sempre da Gallimard, sta per apparire
un album fotografico, Colette-Pléiade, che invaderà
rapidamente il mercato in 40 mila esemplari.
Da noi, a parte qualche
sporadica edizione (Mondadori, Rizzoli, Guanda), le opere di Colette
vengono ora pubblicate sistematica-mente da Adelphi. Nell’80 è
uscito Il puro e l’impuro, l’anno seguente Il mio
noviziato e “in questi giorni” l’attesissimo Chéri,
il romanzo che inaugura nel 1920 la stagione più felice ai questa
autrice. «Dopo Chéri sarà la volta della Fine di Chéri»,
informa Roberto Calasso, che dell’Adelphi è direttore editoriale.
«E poi avanti, un libro all’anno, fino a esaurimento dei titoli».
Le quattro Claudine
sono l'asse portante del primo dei quattro volumi di Opere previsti
nella Plèiade. In questo primo tomo, Colette è ancora giovanissima:
tutti sanno che, non appena la ragazza ultimava un suo quaderno
scolastico, suo marito, Henry Gautier-Villars detto Willy, lo
sequestrava e se ne attribuiva la paternità. Dei manoscritti di
Claudine à l'ècole e di Claudine à Paris si è persa
ogni traccia. L’infame Willy li bruciò nel 1907, dopo la loro
separazione, perché nessuno si accorgesse che non li aveva scritti
lui.
Eppure, in questa storia
assai romanzata, i ruoli vanno riconosciuti per intero. E va detto,
allora, che questo vecchiaccio terribile che sposò una giovane e
deliziosa provinciale senza dote fu probabilmente la molla di tutto.
Ascoltandola mentre lei parlava di felicità, di infanzia, delle sue
amicizie particolari il marito le consigliò di mettere sulla carta,
per gioco, quelli che erano già ricordi. Gabrielle ci si mise
d’impegno, ma senza gioia, da cui il tono deliziosamente scolastico
di Claudine à l'ècole. Willy, poi, aggiunse le sue spezie
erotiche a un intrigo pressoché inesistente. Claudine à l’école
uscì nel 1900, a firma del solo Willy. Grazie a un'entusiastica
recensione di Charles Maurras, ebbe un successo scandaloso.
Un trionfo, più che un
successo. Quarantamila copie in due mesi. Una vera e propria moda che
contagiò tutto: colletti da camicia, cravatte, lozioni, perfino
stuzzicadenti. Willy rimise subito Colette al lavoro e fu la volta
del mediocre Claudine à Paris, (1901). Seguì Claudine en
ménage. L’officina sembrava marciare a pieno ritmo. Ma Colette si
ribellò, e Claudine s'en va, nel 1903, segnò la fine di
Claudine «con» Willy. Nel 1922, per dimostrare un talento ormai
provato, Colette scriverà La maison de Claudine, opera a sé
stante che non ha ancora la sua collocazione cronologica in questo
volume della Plèiade.
Ma questa collana
prestigiosissima si addice a Colette? È giusto chiederselo. I
quaderni così leggeri ed effimeri, sui quali Gabrielle scriveva con
la sua penna veloce, mal sopportano d’essere scolpiti nel marmo
biblico della Plèiade. Le Claudine sono una suite
deliziosa di quadretti che non possiedono una loro coerenza interna.
Bisogna sgranare gli occhi per intuirvi la futura grande Colette,
visto che Willy li ha certamente alterati con la sua zampa di
romanziere sboccato.
Paul d’Hollander, uno
dei presentatori dell’opera, cerca di raccapezzarsi in questo
patchwork letterario, ma la scrittura mantiene i suoi segreti. Così
come non si sa l’anno esatto in cui Gabrielle incontrò Willy.
Sembra comunque che i due furono felici insieme, nonostante in
seguito tutti si siano adoperati a dimostrare il contrario. Con lui,
Colette si accostò a Proust, Anatole France, Alfred Jarry, Marcel
Schwob, i Guitry, Jules Renard, tutto un mondo, insomma, che la
figlia del capitano Jules Colette (esattore in pensione e senza una
gamba) non avrebbe mai potuto conoscere.
Nella sua notevole
prefazione Claude Pichois (che, dopo Nerval e Baudelaire, introduce
Colette nella Plèiade), osserva giustamente che in questa officina
letteraria delle Claudine la scrittrice rischiò di perdere la
propria identità. E le occorse senz’altro un vero coraggio per
sottrarsi a Willy e alle sue inquietanti attenzioni per affrontare,
con il divorzio, la solitudine. Divenne «scandalosa» esibendosi in
teatro con solo qualche velo indosso, ma finalmente libera di
abbandonarsi a quel saffismo che le era del tutto naturale. Le sue
avventure con donne scossero la società perbenista della Belle
Epoque. La si riteneva persa alla letteratura. E invece stupì tutti
pubblicando La retraite sentimentale, nel 1907 (un amalgama di
due cose rubatele da Willy), L’ingénue libertine (1909) e,
soprattutto, Les vrilles de la vigne (1908), dove traspare la
sensibilità di uno scrittore che si risveglia al mistero delle
parole.
Fermandosi con questo
primo volume delle Opere al 1910, i curatori seguono le peripezie
della inquieta vita di Colette, che da Claudine passa per il famoso
Dialogue de Bétes per approdare all’esperienza rigorosa de
La vagabonde: il suo primo «vero» romanzo, dove Willy viene
maltrattato come si merita e dove, soprattutto, la scrittrice,
finalmente sola, diventa quella straordinaria narratrice del piacere
che resterà per sempre.
«Scrivo su dei tavolini
zoppicanti, seduta di sbieco su sedie troppo alte, un piede calzato e
l’altro nudo, col foglio nel vassoio della prima colazione e la mia
borsa aperta fra spazzole, boccette di profumo e cavatappi», scrisse
nel 1910, ne La vagabonde. Aveva trentasette anni. Si era
salvata dal music-hall, dai vecchi magnaccia, dalla futilità.
“L'Europeo”, 9 giugno
1984
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