Leggo e inserisco con un mese di ritardo questa storia. Si tratta di una corrispondenza di Francesca Paci da Londra, da "La stampa" del 15 novembre: una storia strana, di torture e violenze sessuali in cui alcune donne sono protagoniste attive. Da leggere e meditare.(S.L.L.)
In Gran Bretagna lo scandalo sulle violenze dei soldati
Coinvolte alcune donne:
provocazioni mentre i musulmani pregavano
provocazioni mentre i musulmani pregavano
C’è voluta una distanza di tre anni e il ritiro delle truppe di Sua Maestà perchè il falegname trentacinquenne Hussain Hasim Khinyab si decidesse a raccontare i giorni bui della sua detenzione nel campo di Shaaibah, la base logistica dell’esercito britannico a Sud di Bassora, nei pressi del confine kuwaitiano. «C’erano soldatesse che andando a fare la doccia ci mostravano il seno e parti del corpo, una faceva sesso con un collega davanti a noi, una terza mi spiegava a gesti che voleva avere un rapporto completo con me. Sono un musulmano osservante, mi sentivo umiliato» scrive nella deposizione raccolta dall’avvocato Phil Shiner. La sua storia, comprese le molestie dell’infermiera che lo accudiva mentre era ricoverato in ospedale, è stata rivelata ieri dal quotidiano «The Indipendent» insieme ad altre 32 nuove denunce di presunti abusi compiuti dai militari britannici su prigionieri iracheni arrestati tra il 2003 e la primavera scorsa.
I particolari delle torture e delle violenze ricalcano in maniera impressionante il modello infame di Abu Ghraib, la galera degli orrori nel cuore di Baghdad, e mentre la Gran Bretagna si chiede fino a che punto il proprio esercito abbia seguito l’alleato americano nell’inferno della guerra, il Ministero della difesa annuncia un’indagine immediata.
Da mesi circolano accuse di questo tipo, Westminster ha già aperto un’inchiesta sulla morte del detenuto iracheno Baha Musa, sul cui corpo sono stati trovati 93 segni di sevizie. Ma è la prima volta che vengono tirate in ballo le donne, protagoniste, pare, come già la riservista statunitense Lynndie England, dell’oscena competizione per la mortificazione più devastante.
Il ventiquattrenne Nassir Ghulaim se la cavò con tre giorni ma non dimenticherà mai le scariche elettriche, i soldati che mostravano ai prigionieri le foto di Abu Ghraib e li costringevano a picchiarsi tra loro nudi, i cani feroci, le finte esecuzioni e le performance pornografiche. Quattro anni prima, nelle fasi iniziali dell’occupazione, un ragazzo di sedici anni veniva violentato da due militari britannici nel campo di Shatt el Araab.
«Le vittime hanno taciuto tutto questo tempo perchè avevano paura» spiega l’attivista dei diritti umani Mazin Younis. Ora che l’Union Jack è stata ammainata, la verità emerge timida: «E’ scioccante scoprire la similitudine con Abu Ghraib, dove le umiliazioni sessuali erano la norma, soprattutto mentre i detenuti pregavano».
Il Ministero della Difesa britannico prende le rivelazioni «sul serio» ma insiste con la teoria dei «casi isolati». Secondo il titolare delle Forze Armate Bill Rammell, «non ci sono prove che gli abusi fossero parte integrante dell’operato dell’esercito», ragion per cui l’ipotesi dell’inchiesta «deve essere affrontata con cautela». L’avvocato Shiner, però, lascia intendere l’esistenza di centinaia d’altri casi, la cattiva coscienza che torna come in una tragedia shakespeariana.
Bambini nati con due teste, con tumori multipli, malformazioni alla spina dorsale e al bacino, paralisi alle gambe. Le nascite con malformazioni, a Falluja, sono quindici volte superiori alla media del resto dell’Iraq. La roccaforte del partito Ba’ath fedele a Saddam Hussein, una delle ultime ad arrendersi agli americani nel 2003, alla testa dell’insurrezione del 2004, assediata e riconquistata nel novembre di quell’anno dai Marines dopo due settimane di terrificanti bombardamenti, ha dato il nome ad un’altra delle sindromi evocate nell’antica Mesopotamia. Dopo quella «del Golfo», la sindrome «di Falluja».
Negli Anni Novanta, dopo la prima guerra contro Saddam, su 700.000 soldati americani impegnati al fronte complessivamente, cinquantamila vennero colpiti da malattie croniche inspiegabili, forse legate allo stress post-traumatico, più probabilmente alle munizioni all’uranio impoverito usate sul campo di battaglia per la prima volta nella storia. Munizioni che ora sono di nuovo sotto accusa. Anche nella sindrome del Golfo sono stati registrati centinaia di casi di bambini messi al mondo dai veterani con dolorose malformazioni, alcune simili a quelle che si verificano oggi a Falluja.
I primi casi si sono manifestati a poca distanza dalla battaglia del 2004, ma il problema è che ora stanno aumentando esponenzialmente. Tanto che l’ex ministro iracheno per le donne, Nawal Majeed al Sammarai, assieme ad altri due medici britannici, ha scritto una petizione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite per chiedere una commissione di inchiesta indipendente sulle cause, e aiuti per bonificare la città dalle sostanze tossiche sospettate di essere all’origine delle malformazioni, come ha anticipato ieri il quotidiano londinese «The Guardian».
Il direttore dell’ospedale generale della città, Ayman Qais, chirurgo, chiede di fare in fretta. «Prima del 2003 - spiega - questi casi erano sporadici, ora crescono di mese in mese, sono quotidiani. Ed è aumentata anche l’incidenza di tumore al cervello in bambini di meno di due anni, prima molto rari. Come pure i casi di tumori multipli». Samira Abdul Ghani, una pediatra dell’ospedale - una struttura moderna inaugurata lo scorso agosto - ha contato 37 casi anomali in tre settimane, a cavallo tra ottobre e novembre. Soltanto il 2 novembre ci sono stati quattro casi di malformazioni neuronali in neonati.
La denuncia dei medici iracheni è destinata a riaccendere le polemiche sulle armi proibite usate dalle truppe statunitensi a Falluja. Nella prima battaglia, dopo che il 31 marzo del 2004, gli insorti avevano catturato e ucciso quattro contractors della Blackwater e avevano appeso i cadaveri per i piedi all’ingresso della città, vennero usate bombe al fosforo, solo per illuminare gli obiettivi secondo il Pentagono, o anche come proiettili incendiari secondo gli insorti e organizzazioni non governative, uso vietato dalla Convenzione di Ginevra.
Ma il fosforo, per quanto tossico, non basta a spiegare una tale strage degli innocenti. Nel novembre 2005 il Pentagono ha implicitamente ammesso che a Fallujah è stato fatto anche uso di munizioni all’uranio impoverito, che contengono scorie a basso livello di radioattività. Washington ha rivelato di aver impiegato 1200 tonnellate di uranio impoverito in Iraq «fino al 2005».
Nella seconda battaglia di Falluja, nel novembre 2004, morirono almeno 1300 insorti, non si sa quanti civili, 100 soldati americani vennero uccisi, mille feriti. È stata la più dura e lunga battaglia nella seconda guerra irachena, e l’esposizione a notevoli quantità di polveri radioattive potrebbe più facilmente spiegare «le decine di casi di neonati con teste di dimensioni abnormi, con malformazioni cardiache, o senza gli arti inferiori, o il naso o le orecchie», come testimonia il chirurgo Abdul Wahid Salah.
Il ministro della Salute di Baghdad, che pure aveva inaugurato con orgoglio il nuovo ospedale, non ha ancora dato risposta alle richieste di aiuto che vengono da Falluja. La città dell’orgoglio sunnita si fida poco del governo centrale, diffida delle truppe americane accampate in una base poco distante. Spera nell’aiuto dell’Onu, ma in fretta. «Sono costretto a operare tutto il giorno - racconta il dottor Salah -. Siamo al limite delle nostre forze».È decisamente sotto i tacchi il morale dei soldati statunitensi in Afghanistan. Soprattutto per i ripetuti dispiegamenti in operazioni da combattimento, che influiscono notevolmente sulla loro stabilità psicologica e sulla loro vita coniugale. Lo afferma uno studio sulla salute mentale dell’esercito riportato ieri dal quotidiano americano «Washington Post». Il numero dei soldati che ritiene il morale del suo reparto alto o molto alto è sceso dal 10,2 per cento del 2007 al 5,7 per cento del 2009. A livello individuale il dato resta invece stabile, con il 16 per cento dei militari che considera il suo umore alto o molto alto. L’esercito statunitense aveva in Afghanistan 43 psicologici militari quando, da aprile a giugno, è stato effettuato lo studio: in media uno ogni 1.100 soldati. Le forze armate sono impegnate per arrivare a uno psicologo ogni 700 soldati e vuole assegnarne di più a brigate e battaglioni. Circa il 21 per cento dei soldati dispiegati in Afghanistan ha riportato problemi psicologici come stress acuto, depressione o ansia, più o meno gli stessi livelli registrati nel 2007.
I particolari delle torture e delle violenze ricalcano in maniera impressionante il modello infame di Abu Ghraib, la galera degli orrori nel cuore di Baghdad, e mentre la Gran Bretagna si chiede fino a che punto il proprio esercito abbia seguito l’alleato americano nell’inferno della guerra, il Ministero della difesa annuncia un’indagine immediata.
Da mesi circolano accuse di questo tipo, Westminster ha già aperto un’inchiesta sulla morte del detenuto iracheno Baha Musa, sul cui corpo sono stati trovati 93 segni di sevizie. Ma è la prima volta che vengono tirate in ballo le donne, protagoniste, pare, come già la riservista statunitense Lynndie England, dell’oscena competizione per la mortificazione più devastante.
Il ventiquattrenne Nassir Ghulaim se la cavò con tre giorni ma non dimenticherà mai le scariche elettriche, i soldati che mostravano ai prigionieri le foto di Abu Ghraib e li costringevano a picchiarsi tra loro nudi, i cani feroci, le finte esecuzioni e le performance pornografiche. Quattro anni prima, nelle fasi iniziali dell’occupazione, un ragazzo di sedici anni veniva violentato da due militari britannici nel campo di Shatt el Araab.
«Le vittime hanno taciuto tutto questo tempo perchè avevano paura» spiega l’attivista dei diritti umani Mazin Younis. Ora che l’Union Jack è stata ammainata, la verità emerge timida: «E’ scioccante scoprire la similitudine con Abu Ghraib, dove le umiliazioni sessuali erano la norma, soprattutto mentre i detenuti pregavano».
Il Ministero della Difesa britannico prende le rivelazioni «sul serio» ma insiste con la teoria dei «casi isolati». Secondo il titolare delle Forze Armate Bill Rammell, «non ci sono prove che gli abusi fossero parte integrante dell’operato dell’esercito», ragion per cui l’ipotesi dell’inchiesta «deve essere affrontata con cautela». L’avvocato Shiner, però, lascia intendere l’esistenza di centinaia d’altri casi, la cattiva coscienza che torna come in una tragedia shakespeariana.
Bambini nati con due teste, con tumori multipli, malformazioni alla spina dorsale e al bacino, paralisi alle gambe. Le nascite con malformazioni, a Falluja, sono quindici volte superiori alla media del resto dell’Iraq. La roccaforte del partito Ba’ath fedele a Saddam Hussein, una delle ultime ad arrendersi agli americani nel 2003, alla testa dell’insurrezione del 2004, assediata e riconquistata nel novembre di quell’anno dai Marines dopo due settimane di terrificanti bombardamenti, ha dato il nome ad un’altra delle sindromi evocate nell’antica Mesopotamia. Dopo quella «del Golfo», la sindrome «di Falluja».
Negli Anni Novanta, dopo la prima guerra contro Saddam, su 700.000 soldati americani impegnati al fronte complessivamente, cinquantamila vennero colpiti da malattie croniche inspiegabili, forse legate allo stress post-traumatico, più probabilmente alle munizioni all’uranio impoverito usate sul campo di battaglia per la prima volta nella storia. Munizioni che ora sono di nuovo sotto accusa. Anche nella sindrome del Golfo sono stati registrati centinaia di casi di bambini messi al mondo dai veterani con dolorose malformazioni, alcune simili a quelle che si verificano oggi a Falluja.
I primi casi si sono manifestati a poca distanza dalla battaglia del 2004, ma il problema è che ora stanno aumentando esponenzialmente. Tanto che l’ex ministro iracheno per le donne, Nawal Majeed al Sammarai, assieme ad altri due medici britannici, ha scritto una petizione all’Assemblea generale delle Nazioni Unite per chiedere una commissione di inchiesta indipendente sulle cause, e aiuti per bonificare la città dalle sostanze tossiche sospettate di essere all’origine delle malformazioni, come ha anticipato ieri il quotidiano londinese «The Guardian».
Il direttore dell’ospedale generale della città, Ayman Qais, chirurgo, chiede di fare in fretta. «Prima del 2003 - spiega - questi casi erano sporadici, ora crescono di mese in mese, sono quotidiani. Ed è aumentata anche l’incidenza di tumore al cervello in bambini di meno di due anni, prima molto rari. Come pure i casi di tumori multipli». Samira Abdul Ghani, una pediatra dell’ospedale - una struttura moderna inaugurata lo scorso agosto - ha contato 37 casi anomali in tre settimane, a cavallo tra ottobre e novembre. Soltanto il 2 novembre ci sono stati quattro casi di malformazioni neuronali in neonati.
La denuncia dei medici iracheni è destinata a riaccendere le polemiche sulle armi proibite usate dalle truppe statunitensi a Falluja. Nella prima battaglia, dopo che il 31 marzo del 2004, gli insorti avevano catturato e ucciso quattro contractors della Blackwater e avevano appeso i cadaveri per i piedi all’ingresso della città, vennero usate bombe al fosforo, solo per illuminare gli obiettivi secondo il Pentagono, o anche come proiettili incendiari secondo gli insorti e organizzazioni non governative, uso vietato dalla Convenzione di Ginevra.
Ma il fosforo, per quanto tossico, non basta a spiegare una tale strage degli innocenti. Nel novembre 2005 il Pentagono ha implicitamente ammesso che a Fallujah è stato fatto anche uso di munizioni all’uranio impoverito, che contengono scorie a basso livello di radioattività. Washington ha rivelato di aver impiegato 1200 tonnellate di uranio impoverito in Iraq «fino al 2005».
Nella seconda battaglia di Falluja, nel novembre 2004, morirono almeno 1300 insorti, non si sa quanti civili, 100 soldati americani vennero uccisi, mille feriti. È stata la più dura e lunga battaglia nella seconda guerra irachena, e l’esposizione a notevoli quantità di polveri radioattive potrebbe più facilmente spiegare «le decine di casi di neonati con teste di dimensioni abnormi, con malformazioni cardiache, o senza gli arti inferiori, o il naso o le orecchie», come testimonia il chirurgo Abdul Wahid Salah.
Il ministro della Salute di Baghdad, che pure aveva inaugurato con orgoglio il nuovo ospedale, non ha ancora dato risposta alle richieste di aiuto che vengono da Falluja. La città dell’orgoglio sunnita si fida poco del governo centrale, diffida delle truppe americane accampate in una base poco distante. Spera nell’aiuto dell’Onu, ma in fretta. «Sono costretto a operare tutto il giorno - racconta il dottor Salah -. Siamo al limite delle nostre forze».È decisamente sotto i tacchi il morale dei soldati statunitensi in Afghanistan. Soprattutto per i ripetuti dispiegamenti in operazioni da combattimento, che influiscono notevolmente sulla loro stabilità psicologica e sulla loro vita coniugale. Lo afferma uno studio sulla salute mentale dell’esercito riportato ieri dal quotidiano americano «Washington Post». Il numero dei soldati che ritiene il morale del suo reparto alto o molto alto è sceso dal 10,2 per cento del 2007 al 5,7 per cento del 2009. A livello individuale il dato resta invece stabile, con il 16 per cento dei militari che considera il suo umore alto o molto alto. L’esercito statunitense aveva in Afghanistan 43 psicologici militari quando, da aprile a giugno, è stato effettuato lo studio: in media uno ogni 1.100 soldati. Le forze armate sono impegnate per arrivare a uno psicologo ogni 700 soldati e vuole assegnarne di più a brigate e battaglioni. Circa il 21 per cento dei soldati dispiegati in Afghanistan ha riportato problemi psicologici come stress acuto, depressione o ansia, più o meno gli stessi livelli registrati nel 2007.
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