5.12.09

In un altro dicembre. Clemente Rebora fra melma e sangue.

Ci fu un espressionismo poetico in Italia? Per dire sì bastano due nomi: Clemente Rebora e Dino Campana. Per i Frammenti lirici (1914) di Rebora si è parlato di pressioni e decompressioni, di eccesso ed ingorgo, quasi ad ogni verso.
Durante e dopo la guerra mondiale Rebora vive una profonda crisi esistenziale e religiosa che lo riporta alla fede prima, al sacerdozio dopo (1936). Si è parlato perciò di due Rebora, di un Rebora prima e dopo, come per i grandi dell'Ottocento, il "grande convertito" Manzoni e il "diversamente convertito" Leopardi. Con la differenza che ai più il secondo Rebora pare la dimidiazione del primo e non, come taluno pretende, il suo adempimento.
C'è però un terzo Rebora, quello di mezzo, del passaggio, quello della Grande guerra, di una guerra che per lui fu brevissima. Vi entrò da interventista non molto convinto, vi scorse subito un ammazzatoio (l'"ammazzatoio di Barbableu" la definì in una lettera), maturò rapidamente un rifiuto non ideologico, ma biologico. In quell'orribile intervallo Rebora scrisse qualche decina di poesie che non volle mai comporre in volume, recuperandone semmai qualcuna per la rivista "Riviera ligure". Lo scorso anno un piccolo editore di Novara ne ha fatto un libro, ove accanto alle poesie, quasi a commento, sono poste le dure lettere dal fronte. Ecco i frammenti di due di esse.
La prima del 3 dicembre 1915 è diretta a Lavinia Mazzucchetti dalla zona di guerra:
"... Fortunati voi che avete soltanto sofferenze "psicologiche" - e non potete neppur lontanamente figurarvi. Cento mila Poe, con la mentalità però tra macellaio e routinier, condensati in una sola espressione, potrebbero dar vagamente l'idea dello stato d'animo di qui. Si vive e si muore come uno sputerebbe: i cadaveri insepolti, come una pratica non emarginata...
La seconda del 7 dicembre del 1915 fu inviata ad Antonio Banfi: "

"Ma non chiedermi notizie - la vita (sono come un Ugolino anonimo, fra lezzo di vivi e morti, imbestiato e paralizzato per la colpa e la pietà, e l'orrendezza degli uomini - di fronte a Gorizia) ch'io lordo nella gora del tempo, è quella di un troglodita che chiude un cuore. Non il pericolo continuo - diviene una triviale monotona abitudine, il macello perpetuo a cui siamo esposti; non tanto nemmeno il patimento fisico (fango e gelo, barbuto e baffuto e rasato in capo come un galeotto - «menzogna», e sofferenza d'ogni intorno, indicibilmente), ma l'interiore è terribile - e voi non potete farvene idea; «per questo» la guerra continua...".

Il 24 dicembre dello stesso anno per lui la guerra sarà finita. Gli scoppia vicino un obice da 305, che gli procura uno shell-shock e una lunga sofferenza interiore. A restituirci il senso di quella carneficina sono rimaste le poesie.

*****

Voce di vedetta morta

C’è un corpo in poltiglia

Con crespe di faccia, affiorante

Sul lezzo dell’aria sbranata.

Frode la terra.

Forsennato non piango:

Affar di chi può, e del fango.

Però se ritorni

Tu uomo, di guerra

A chi ignora non dire;

Non dire la cosa, ove l’uomo

E la vita s’intendono ancora.

Ma afferra la donna

Una notte, dopo un gorgo di baci,

Se tornare potrai;

Sòffiale che nulla del mondo

Redimerà ciò ch’è perso

Di noi, i putrefatti di qui;

Stringile il cuore a strozzarla:

E se t’ama, lo capirai nella vita

Più tardi, o giammai.



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