Nel dicembre del 1971, ricevendo il Premio Nobel per la Letteratura, Pablo Neruda parlava della poesia, dell'America, della lotta per una nuova società. Un testo di grandissima potenza, che ci parla meglio di molti altri della nuova splendida città, di pace e di giustizia, che vogliamo costruire.
In Italia la conferenza venne pubblicata dagli Editori riuniti nel 1973 come appendice di un gruppo di poesie civili scritte nello stesso anno dal grande poeta cileno, raggruppate sotto il titolo di Incitamento al nixonicidio. Ne ripropongo qui un ampio stralcio. (S.L.L.)
La missione umana del poeta
Il poeta non è un “piccolo Dio”. Non è segnato da un destino superiore a quello di coloro che esercitano altri mestieri o incarichi. Ho spesso dichiarato che il miglior poeta è l’uomo che ci offre il pane di tutti i giorni: il panettiere più vicino, che non si crede Dio. Egli compie il suo maestoso e umile lavoro di impastare, mettere in forno, dorare e consegnare il pane quotidiano, come un dovere comunitario. E se il poeta riesce a raggiungere questa semplice coscienza, la semplice coscienza potrà anche convertirsi in parte di un colossale manufatto artigiano, di una costruzione semplice o complicata, che è la costruzione della società, la trasformazione delle condizioni che attorniano l’uomo, la consegna della merce: pane, verità, vino, sogni.
Il comune lavoro
Se il poeta si aggrega a quella lotta mai sprecata lotta per consegnare ognuno nelle mani degli altri la sua parte di impegno, la sua dedizione e la sua tenerezza per il lavoro comune di tutti i giorni e di tutti gli uomini, il poeta prenderà parte al sudore, al pane, al vino, al sogno dell’umanità intera. Solo per questa strada dell’essere uomini comuni arriveremo a restituire alla poesia lo spazio tanto ampio che in tutte le epoche le stanno accorciando, che noi stessi in quest'epoca le stiamo restringendo.
In quanto a noi in particolare, scrittori della vasto spazio americano, ascoltiamo senza tregua la chiamata a riempire questo spazio enorme con esseri di carne ed ossa. Siamo coscienti del nostro compito di abitanti e (mentre ci pare essenziale il dovere di una comunicazione critica con un mondo disabitato e non per questo meno pieno di ingiustizie, di castighi e dolori) sentiamo anche l’impegno di recuperare gli antichi sogni che dormono nelle statue di pietra, negli antichi monumenti distrutti, nei vasti silenzi delle pampas planetarie, delle selve dense, dei fiumi che cantano come tuoni. Abbiamo bisogno di colmare di parole i confini di un continente muto e ci inebria questo compito di affabulare e nominare. Può darsi che questa sia la ragione determinante del mio umile caso individuale; e in questa circostanza i miei eccessi, o la mia abbondanza, o la mia retorica non verranno ad essere che atti, i più semplici, del lavoro americano di ogni giorno. Ognuno dei miei versi ha voluto installarsi come un oggetto palpabile; ognuna delle mie poesie ha preteso di essere un utile strumento di lavoro; ognuno dei miei canti ha aspirato a servire nello spazio come segnale di riunione dove le strade si sono incrociate, o come frammento di pietra o di legno su cui altri, quelli che verranno, potranno depositare i nuovi segni.
Estendendo questi doveri del poeta, nella verità o nell’errore, fino alle ultime conseguenze, ho deciso che il mio atteggiamento dentro la società e davanti alla vita doveva essere anche umilmente partigiano. Lo decisi vedendo gloriosi insuccessi, solitarie vittorie, accecanti sconfitte. Ho compreso, immesso nello scenario delle lotte dell’America, che la mia missione umana non era altro se non aggregarmi all’estesa forza del popolo organizzato, aggregarmi con sangue e anima; con passione e speranza, perché soltanto da questo torrente gonfio possono nascere i cambiamenti necessari per gli scrittori e i popoli. E per quanto la mia posizione solleva o solleverà obiezioni amare o cordiali, la cosa certa è che non trovo altra via per lo scrittore dei nostri vasti e crudeli Paesi se vogliamo che l’oscurità fiorisca, se pretendiamo che i milioni di uomini che ancora non hanno imparato a leggerci né a leggere, che ancora non sanno scrivere o scriverci, si collochino sul terreno della dignità, senza la quale non è possibile essere uomini integrali.
Ereditiamo la vita lacerata dei popoli che trascinano un castigo di secoli, popoli dei più edenici, dei più puri, quelli che hanno costruito con pietre e metalli torri miracolose, gioielli di fulgore abbagliante: popoli che rapidamente sono stati abbattuti e ammutoliti dalle terribili epoche del colonialismo, che esiste tuttora.
Un’ardente pazienza
Le nostre stelle primordiali sono la lotta e la speranza. Ma non ci sono né lotte né speranze solitarie. In ogni uomo si congiungono le epoche remote, l’inerzia, gli errori, le passioni, le urgenze del nostro tempo, la velocità della storia. Ma che sarebbe di me se io, per esempio, avessi contribuito al grande passato feudale del continente americano? Come potrei io alzare la fronte, illuminata dall’onore che la Svezia mi ha concesso, se non mi sentissi orgoglioso di aver preso una minima parte alla trasformazione attuale del mio Paese? Bisogna guardare la mappa dell’America, confrontarsi con la grandiosa diversità, con la generosità cosmica dello spazio che ci circonda, per comprendere che molti scrittori si rifiutano di condividere il passato di obbrobrio e di saccheggio che oscuri dei hanno destinato ai popoli americani.
Io ho scelto il difficile cammino di una responsabilità condivisa e, invece di reiterare l’adorazione per l’individuo come sole centrale del sistema, ho preferito offrire con umiltà i miei servigi a un considerevole esercito che a tratti può sbagliarsi, ma che cammina senza riposo e avanza ogni giorno confrontandosi sia con gli anacronistici recalcitranti sia con gli infatuati impazienti. Perché credo che i miei doveri di poeta non solo mi indicassero la fraternità con la simmetria, con l’esaltato amore e con la nostalgia infinita, ma anche con gli aspri obiettivi umani che ho incorporato nella mia poesia.
Esattamente cento anni ad oggi un povero e splendido poeta, il più atroce dei disperati, scrisse questa profezia: “All’alba, armati di una ardente pazienza, entreremo nelle splendide città”. Io credo in quella profezia di Rimbaud, il Veggente. Fui il più abbandonato dei poeti, ma ho avuto sempre fiducia nell’uomo. Devo perciò dire agli uomini di buona volontà, ai lavoratori, ai poeti che l’intero avvenire è stato espresso in quella frase di Rimbaud: “Solo con una ardente pazienza conquisteremo la splendida città che darà luce, giustizia e dignità a tutti gli uomini". Solo così la poesia non avrà cantato invano.
Stoccolma, 12 dicembre 1971
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