Sul "manifesto", nell'anno 2003, Nico Perrone racconta i 50 anni dell'ENI, Ente Nazionale Idrocarburi, fondato da Enrico Mattei come espansione dell’AGIP (Azienda Generale Italiana Petrolio). Non so quali sommovimenti societari successivi alle privatizzazioni abbiano oggi determinato la separazione e diversificazione delle due società, al punto che nei distributori di carburante è rimasta l’immagine del cane a sei zampe, ma c’è la scritta ENI, invece che AGIP. Nella mia memoria familiare (mio padre era gestore di un rifornimento Agip e distributore di bombole Agipgas, oltre che fan dell’ingegner Mattei), tuttavia, i due acronimi restano legati ed entrambi connessi al gas domestico, che invece aveva come simbolo un gatto a tre zampe. E mi son commosso quando qualcuno, poco tempo fa, mi ricordò lo slogan pubblicitario Supercortemaggiore la potente benzina italiana. Forse invecchio rapidamente.
C’è un passaggio invece, nel racconto di Perrone, che merita una sottolineatura particolare: l’acquisizione della Pignone da parte di Mattei. Nelle favole che i neoliberisti amano raccontarsi e raccontare si tratterebbe di assistenzialismo deteriore. Nel racconto, infatti il sindaco, democristiano di Firenze, il messinese Giorgio La Pira, una sorta di mistico che nel suo fervore religioso, camminava scalzo, telefona a Mattei e gli parla di “quei poveri operai rimasti senza lavoro”: “Ho sognato lo Spirito Santo e m’ha detto di rivolgermi a te”. Mattei, insomma, avrebbe acquisito all’Eni quell’industria non per una scelta economica, ma per una solidarietà politico-religiosa. Non so se la storia andò davvero così; è però certo che anche a favore del capitalismo di stato deve operare qualche mano invisibile, specialmente quando è guidato da imprenditori “visionari” e da dirigenti validi. (S.L.L.)
Cinquant'anni fa nasceva l'Ente nazionale idrocarburi. Un anniversario passato sotto silenzio. Eppure l'Eni ha contribuito in maniera decisiva a trasformare l'Italia da paese sconfitto a potenza economica internazionale. Dal metano in val Padana alle trivelle in Basilicata. Nel bene e nel male un patrimonio enorme di impianti e competenze, realizzato in mezzo secolo grazie all'intuizione originaria di Mattei. Oggi ceduto in maniera rilevante proprio a quei capitalisti americani che, all'inizio, l'avevano combattuto ferocemente
La figura di Enrico Mattei, e soprattutto le circostanze misteriose della sua morte hanno molto a lungo monopolizzato l'attenzione, quasi mettendo da parte la sua creazione industriale, l'Ente Nazionale Idrocarburi. Figura gigantesca quella di Mattei, nell'Italia del dopoguerra, capace di primeggiare in un tempo nel quale di personaggi di grande statura ce n'erano: Alcide De Gasperi, Palmiro Togliatti, Pietro Nenni, Amintore Fanfani, Giorgio La Malfa nel campo politico, Raffaele Mattioli per la finanza e la banca, Adriano Olivetti e Vittorio Valletta nell'industria produttiva, per limitarsi ai nomi che vengono subito in mente. Mattei rappresentò qualcosa di assolutamente particolare, per l'ampiezza e la durata del suo disegno, per il contributo determinante che esso dette alla ricostruzione post-bellica italiana, per le valenze politiche delle sue realizzazioni, per i segni che lasciò nell'economia e nella politica internazionale del nostro paese. Tuttavia il discorso sull'Eni - di cui quest'anno ricorre, nel generale silenzio, il cinquantenario della fondazione - non deve limitarsi alle vicende umane e politiche di Mattei. L'Eni, costituito nel 1953 con legge ordinaria, ha avuto un ruolo centrale nella trasformazione dell'Italia da paese sconfitto, privo di ascolto nei contesti internazionali, a potenza economica partecipante al gruppo dei grandi della terra, il G-7. Un risultato le cui premesse sono nell'azione di Mattei, che si è tuttavia sviluppato e consolidato ben oltre la vicenda umana del fondatore e primo presidente dell'Eni.
Nel dopoguerra, le condizioni dell'Italia erano disastrose dal punto di vista economico, sociale e politico: mancavano soprattutto le prospettive di recupero in termini di tempo ragionevoli. La conversione di quella parte dell'industria che era sopravvissuta agli eventi bellici in attività produttive di pace, richiedeva ingenti capitali che era difficile convogliare verso investimenti il cui rendimento appariva incerto. La ricostruzione delle industrie colpite dalla guerra era compito ancora più complesso dal punto di vista finanziario e organizzativo. La disoccupazione costringeva all'indigenza una parte rilevante della popolazione, senza ragionevoli prospettive di recupero. Il credito internazionale del paese, sul piano diplomatico ed economico era insignificante. La lira subiva un processo di svalutazione continuo e rovinoso.
Su tutto questo gravava la storica condizione di dipendenza italiana per le materie prime. Il permanere di una dipendenza dalle potenze vincitrici per il fabbisogno energetico, avrebbe dato un segno diverso a tutto lo sviluppo italiano successivo. Questa fu l'intuizione di Mattei, e le attività dell'Eni riuscirono a promuovere gli interessi del paese partendo da questa basilare premessa.
Mattei, resosi conto dell'impossibilità di reperire petrolio, in quantità significative, nel sottosuolo italiano, attrezzò l'Eni per l'estrazione e la distribuzione del metano, largamente presente nella val Padana, la stessa area da cui si era sperato di estrarre invece il petrolio. L'energia a buon mercato per la ricostruzione dell'Italia e per la sua ascesa a potenza economica di grande rilievo internazionale, venne dall'iniziativa dell'Eni di portare in superficie il metano e di utilizzarlo come nuova fonte di energia per i processi industriali. Il minor costo di questa fonte energetica, rispetto a quelle in uso, supplì in buona misura alle ristrettezze dei capitali. Il metano venne trasportato fino alle imprese nelle quali sarebbe stato utilizzato, attraverso una fitta rete di metanodotti che si estese nelle zone industrialmente significative di quasi tutta l'Italia settentrionale e in parte di quella centrale. Questa rete fu progettata e realizzata, in tempi rapidissimi, da due società controllate dall'Eni, la Snam e la Saipem.
Attraverso la distribuzione a domicilio di bombole (Agipgas), il metano venne utilizzato anche per i consumi domestici, e reso più conveniente rispetto all'analogo prodotto distribuito da aziende private. Questo determinò una trasformazione profonda nell'economia domestica e nelle abitudini degli italiani, e contribuì alla liberazione delle donne, le quali, nelle vaste aree non servite dalle reti del gas di città, erano costrette in precedenza a servirsi della carbonella e di altri combustibili, che avevano modalità di impiego lunghe e faticose.
L'Eni, inappagato dalle ricerche petrolifere in Italia, dovette sviluppare una politica di ricerca e sfruttamento degli idrocarburi all'estero, specialmente nel Medio Oriente (Iran) e in Africa Settentrionale (Egitto), con contratti che associarono all'impresa, su basi paritarie, i paesi produttori. Si trattò di una rottura delle condizioni del mercato di acquisto, che fino a quel momento avevano visto le grandi società petrolifere imporre prezzi, modalità di estrazione e di distribuzione fino ai mercati di consumo.
La nuova politica dell'Eni nei paesi produttori comportò un diverso atteggiamento del nostro paese nelle relazioni con le grandi potenze, e con gli Stati uniti in modo particolare. L'Italia, dietro la spinta delle esigenze dell'Eni, sviluppò una sua forte e autonoma presenza nei paesi di nuova indipendenza e in quelli formalmente indipendenti nei quali vigevano le vecchie condizioni di sfruttamento petrolifero da parte delle grandi compagnie. Insomma, pur non potendosi dire - come pure si è tentato - che l'Eni avesse una sua politica estera parallela e in conflitto rispetto a quella dello stato, esso influì in modo sensibile sulla politica estera del nostro paese. D'altronde, negli Stati uniti e nel Regno unito, da lungo tempo si registravano analoghe influenze dei colossi petroliferi sulla politica estera.
Le prime iniziative all'estero dell'Eni, avviate negli anni di Mattei, si sono successivamente sviluppate in molti paesi latino-americani, africani e asiatici, fino a far assurgere l'ente petrolifero dello stato italiano a un rilievo pari a quello di alcune delle sette maggiori compagnie mondiali. Le oil majors o "sette sorelle", si chiamavano, ed erano in gran parte controllate da azionisti americani.
Una grande iniziativa dell'Eni fu l'acquisizione di una fabbrica metalmeccanica fiorentina sull'orlo del dissesto, il Pignone (1953), e la sua trasformazione (Nuovo Pignone) in industria moderna e innovativa specializzata in tutte le attrezzature - dalle piattaforme di ricerca petrolifera fino alle minute apparecchiature per le pompe di distribuzione del carburante - necessarie nelle differenti fasi dell'intero ciclo petrolifero. Questa acquisizione servì a superare l'embargo che veniva dai produttori americani, tendente a impedire o almeno a rallentare lo sviluppo dell'Eni. Nella visione di Mattei c'era stata fin dall'inizio una visione strategica del problema delle fonti italiane di energia, in tutti gli aspetti, dalla ricerca all'estrazione, al trasporto, alla trasformazione, alla distribuzione sui mercati.
L'azione dell'Eni, che servì ad affermare e difendere interessi economici italiani rispetto agli interessi sostenuti da grandi potenze straniere (specialmente Stati uniti, Regno unito e Francia), si è sviluppata ben oltre la vicenda umana di Mattei, attraverso successive iniziative. Le condizioni dell'Eni verso i produttori tuttavia cambiarono nel tempo, rispetto all'iniziale impostazione paritaria, e l'Italia, pur acquisendo sempre maggior rilievo in termini di presenza sul mercato petrolifero e nell'economia internazionale, non andò esente da pratiche di tipo neo-coloniale e di grave compromissione dell'ambiente. Lo sfruttamento dei giacimenti petroliferi della Basilicata, avviato con successo dall'Eni da qualche anno, pur essendosi realizzato all'interno del nostro stesso paese, non è esente da simili rilievi, perché sta causando gravi infortuni, produce rifiuti il cui smaltimento è fortemente nocivo, mentre compromette la ricca falda acquifera, la fauna e i boschi.
Ma nel frattempo l'Eni era profondamente cambiato. Non più ente pubblico controllato interamente dallo stato, sia pure con i suoi limiti in termini di clientele politiche e di sfruttamento del lavoro, ma società per azioni privatizzata per la maggioranza (69,7 per cento) del suo capitale sociale. Per evitare ogni ripensamento sulla decisione di cedere l'azienda petrolifera sul mercato, si volle cominciare l'operazione privando l'Eni del suo polmone scientifico-tecnologico, il Nuovo Pignone, che garantiva almeno i due terzi della tecnologia necessaria al funzionamento della grande holding dello stato italiano. Per decisione dei governi di Giuliano Amato e Carlo A. Ciampi, il Nuovo Pignone, con il suo patrimonio di know how e brevetti, venne svenduto a trattativa privata alla società americana General Electric, fino a quel momento largamente dipendente dalla tecnologia petrolifera italiana. Alla vigilia della sua privatizzazione (1994), l'Eni garantiva il 51 per cento dei consumi energetici nazionali, dava lavoro a 90 mila persone, era terzo al mondo fra le società petrolifere per rapporto fra utile e fatturato, quarto per utili consolidati, sesto per la produzione di gas. Tra i nuovi azionisti, entrati con la privatizzazione, hanno ormai un peso rilevante anche quei capitalisti americani che all'inizio avevano rabbiosamente contrastato l'esistenza e il consolidamento sui mercati dell'Eni.
Un'epoca quindi si è chiusa, per un'azienda strategica italiana. Ma il lascito dell'Eni - pur sempre un'impresa italiana, ma solo formalmente - resta assai rilevante nella storia del nostro paese della seconda metà del ventesimo secolo.
"il manifesto", 10 agosto 2003
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