24.5.12

"Il piatto piange" di Piero Chiara. Un minicapolavoro (di Giovanni Raboni)

I Cento romanzi italiani del Novecento sono un opuscoletto che il settimanale “L’Europeo” offri come omaggio ai propri lettori sul finire del 1986 e che scheda, appunto, una per pagina, cento opere narrative, dal Marchese di Roccaverdina di Luigi Capuana (1901) a Pinkerton di Franco Cordelli (1986, appunto). Fu curato da Giovanni Raboni, che si assunse la responsabilità dei criteri di selezione e della scelta. Il primo criterio fu “cento autori diversi con il loro libro più bello” (eventuali altri testi venivano segnalati a fine pagina), il secondo “non tenere conto delle vendite”, includendo cioè anche i libri più popolari, ma solo quando giudicati letterariamente rilevanti (insomma nulla di Liala, di Guido da Verona o di Umberto Eco). Una scelta problematica riguardò Piero Chiara, autore di best seller, di cui Raboni in persona curò la schedatura, giustificando le ragioni della sua inclusione. A fondo pagina non è segnalato nessun altro libro, neanche La spartizione, che a me pare assai bello. Una delle motivazioni addotte è quello che oggi si direbbe “radicamento nel territorio”. (S.L.L.)
1962  
Piero Chiara, Il piatto piange
Scrittore tanto sopravvalutato dal pubblico quanto sottovalutato dalla critica, Chiara ha dato in questo piccolo romanzo (con il quale, non più giovanissimo, ha esordito come narratore) il meglio della sua vena di malinconico umorista, «storico di cupidigie e di brividi» provinciali, cronista di spassi crudeli, oblomoviane pigrizie e mostruosità da tre soldi. Oltre alla penetrante finezza dell'osservazione, punto di forza dei suoi racconti è una scrittura così esatta e aggraziata da risultare quasi «invisibile» (tanto che troppo spesso si è parlato per lui di «oralità» e spontaneità, mentre, a guardare meglio, è chiaro che si tratta di una scrittura molto e sottilmente costruita); punto debole è invece, quasi sempre, una certa incapacità di sostenere la vivacità e imprevedibilità dell'intrigo.
Persino in quel minicapolavoro che è Il piatto piange, a un certo punto (precisamente da quando hanno inizio le sventure di uno dei personaggi, il Càmola, affetto da una banalissima ma chissà perché inguaribile malattia venerea) la storia comincia a girare su se stessa, non ingrana più. Ma tutta la prima parte è esemplare per singolarità di dettagli e tempestività ritmica; alcuni personaggi (per esempio il vecchio baro in pensione Rimediotti) hanno una dignità, una «classe» che trascende l'ambito di un sia pur felice macchiettismo; e anche il linguaggio ha improvvisi e appropriati bagliori, come quando, a proposito delle regole del baccarat e della travolgente passione per questo gioco che accomuna gli eroi del racconto, il narratore commenta: «Il Nove splendeva in alto come un sole». (G.R.)

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