20.5.12

Un puparo a Spoleto. Mimmo Cuticchio racconta...

"Io parto da mio padre perché mi capisca mio figlio. Da un piccolo aneddoto".
E subito bisogna fermarlo, Mimmo Cuticchio, perché il suo racconto bisogna farlo precedere da un poco di storia. Nel 1963, il quindicenne Mimmo sbarcò a Spoleto come fruscia, fagotto, al seguito del padre Giacomo, invitato da quel genio di Giancarlo Menotti. Giacomo Cuticchio era un puparo, un oprante, o detto altrimenti, un teatrinaro, che qui di Teatrino e non di Teatro si parla: con l'Opra, l'Opera dei Pupi, il piccolo è grande, e il miracolo si fa in un buco di sipario.
"Io ero abituato a fare teatro nei paesini dell'entroterra siciliano, a vedere scecchi, asini, pecore, gente che faceva l'estratto di pomodoro al sole, per le strade. Andammo con la nave per due o tre spettacolini. E invece, il giorno dopo la prima, giornali parlavano di noi e di noi soli. Un successo. Ma noi venivamo dai paesi, che ne potevamo sapere del successo? Menotti ci chiese di rimanere per un mese, un mese e mezzo. Mio padre s'ingegnò di mettere su un piccolo ciclo, per non fare sempre la stessa cosa, ma avevamo solo cinquanta pupi: tre soldatini bianchi e tre neri, pagani, cristiani, giganti, le donne, i serpenti, diavoli. Facemmo le battaglie. Questo piaceva di vedere, ai turisti, al pubblico".
Spade contro spade, scudi dimezzati dai gran colpi, teste che cadono, azione e ritmo che si fanno danza, con le voci profondissime del puparo che paiono levarsi dall'Oltretomba, fino a trenta, quaranta personaggi per volta, e i trucchi ottocenteschi, lo zoccolo che percuote il palcoscenico, il laminato che se lo muovi si fa tuono e tempesta. Sturm und drang.
"Qui succede il dramma. Mio padre, per la mia volta, in sala, vede dei neri. Neri di pelle, autentici. Si gira verso suo cugino, Pinuzzu Arini, e gli dice: qua ci sfasciano pupi se continuiamo a far vincere i bianchi. E io: facciamoli vincere tutti e due, o perdere. Di solito, tre soldatini neri che avevamo con noi combattevano contro un cavaliere molto valoroso, e perdevano. Mio padre fece in modo che neri combattessero singolarmente contro soldatini bianchi. Prima toccò a quelli con le lance. Poi, a quelli con le spade. E all'ultimo duello, dopo due perdite per parte, il nero e il bianco che restavano si uccisero a vicenda, decapitandosi. E da allora, fu sempre così".

Da un’intervista a Davide Camarrone
In “I love Sicilia”, Anno 5 n.29, febbraio 2008

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