I partigiani di Antigone, si sa, sono legioni. Sulle dita di una mano si contano invece i fan di Creonte.
Se si esclude il celebre, e tutto sommato equanime, verdetto di Hegel, così autorevole da condizionare in tempi recenti tanto Derrida quanto la Nussbaum; se si esclude qualche sporadico elogio del re tebano in nome della ragion di Stato, come quello che si legge, dimenticato ma vigoroso, ne Il testamento di Dio di Bernard-Henri Lévy (1979); se si esclude qualche ritratto bonario, come quello che a Creonte dedica Anouilh nella sua Antigone (1944), non a caso
passata indenne al vaglio della censura nazista; se si esclude il costante (e spesso vano) richiamo
degli antichisti alla natura storica dei valori incarnati dall’eroina: valori che non sono astratta «pietà» o astratta «coscienza», ma concreto retaggio aristocratico; se si esclude questo e poco altro, il giudizio dei secoli coincide con quello che nella tragedia di Sofocle il principe Emone riferisce al padre Creonte: tutta la città è con lei.
Naturalmente «eterna» – secondo il titolo-slogan di Romain Rolland –, Antigone sembra conoscere,
da almeno due secoli, due distinte forme di reviviscenza: a resuscitarla è ora il generico richiamo a valori imperituri – sono le fasi di stanca –, ora invece l’urgenza di precise congiunture storiche; ecco allora le Antigoni più sfacciate, da quella dello stesso Rolland (siamo in piena Grande Guerra) a quella di Brecht (è il 1948), da quella di Bultmann (1936: tre anni dopo il cancellierato di Hitler, e il rettorato di Heidegger) fino a quella, ispirata agli anni di piombo, di Böll (1979). A quale di tali fasi appartiene l’Antigone di Sofocle, riscrittura fra le riscritture, certo non poco ancorata alla realtà dell’Atene periclea?
L’ultima raccolta di saggi sul tema (Antigone e le Antigoni Storia e fortuna di un mito, a cura di Anna Maria Belardinelli e Giovanni Greco, Mondadori Education, pp. XII-316, € 23,00) pone queste e altre domande. Si troveranno qui convincenti analisi dell’«originale» sofocleo, attente alla lettera del testo come al suo intertesto letterario e iconografico, fra cui spiccano i contributi di O. Taplin, F. Ferrari, A. Rodighiero, R. Nicolai e – in una magistrale nota postuma – L.E. Rossi; si troveranno sintesi di storia operistica e teatrale, con i lavori di F. Piperno e R. Guarino; si troveranno gli affondi antropologici di M. Bettini e particolareggiate analisi di singole riscritture,
come quella che M.P. Pattoni dedica a Sérgio de Sousa. In apertura, un dotto ed equilibrato saggio della Belardinelli, e, in chiusura, un’audace versione di Sofocle – più che traduzione, sofferto esercizio di decalcomania, tra picchi aulici e picchi colloquiali – a firma di Greco: che orecchia a suo modo, con rincari retorici, lo stile traduttivo di Sanguineti, e giunge a invocare, lui per primo, una «moratoria» sul mito di Antigone.
Moratoria – ovviamente – non ci sarà: e Antigone resterà testardamente «eterna».
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