9.4.11

Libia. La guerra contro la rivoluzione (di Immanuel Wallerstein)


Sulla Libia “il manifesto” del 5 aprile 2011 pubblica una lettura non allineata, quella dello storico “mondialista” del capitalismo, Immanuel Wallerstein. Ne posto qui una parte, con un titolo diverso. Qualche passaggio mi pare discutibile ma l’intuizione di fondo,e cioè “la guerra contro la rivoluzione” come carta giocata da molti, mi pare degna di approfondimento (S.L.L.).
Immanuel Wallerstein (a destra) con Ferdinand Braudel nel 1977

L'intero conflitto libico del mese scorso - la guerra civile nel paese e l'azione militare diretta dagli Usa contro Gheddafi - non ha niente a che vedere con l'intervento umanitario né con il rifornimento immediato del petrolio mondiale. Di fatto è solo una grande distrazione - intenzionale - dal conflitto politico principale che si sta consumando nel mondo arabo. C'è una cosa su cui Gheddafi e tutti i leader politici occidentali di ogni schieramento concordano pienamente. Tutti vogliono rallentare, incanalare, cooptare, limitare la seconda rivolta araba e impedirle di trasformare le realtà politiche di fondo del mondo arabo e il suo ruolo nella geopolitica del sistema-mondo. Per rendersene conto bisogna seguire gli eventi in sequenza cronologica. Anche se nei vari stati arabi il ribollire dello scontento e il tentativo di svariate forze esterne di appoggiare l'uno o l'altro elemento all'interno dei diversi stati hanno rappresentato una costante ormai da tempo, il suicidio di Mohamed Bouazizi il 17 dicembre 2010 ha innescato un processo radicalmente diverso.
Si è trattato a mio parere di una ripresa dello spirito della rivoluzione mondiale del 1968. Nel 1968, come in questi ultimi mesi nel mondo arabo, il gruppo che ebbe il coraggio e la determinazione di lanciare la protesta contro l'autorità costituita fu quello dei giovani. A motivarli c'erano una serie di ragioni: l'arbitrarietà, la crudeltà e la corruzione delle leve del potere, il peggioramento delle loro condizioni economiche e soprattutto la rivendicazione del diritto morale e politico di essere protagonisti del proprio destino politico-culturale. Protestavano anche contro tutta la struttura del sistema-mondo e il modo in cui i loro leader erano stati subordinati alle pressioni delle forze esterne. I giovani di oggi non erano organizzati, almeno non all'inizio. Né erano sempre consapevoli della scena politica. Ma erano coraggiosi. E, come nel 1968, le loro azioni sono state contagiose. Ben presto pressoché in tutti gli stati arabi, senza distinzione rispetto alla politica estera, hanno rappresentato una minaccia. Quando hanno dimostrato la loro forza in Egitto, tuttora lo stato arabo-chiave, tutti hanno cominciato a prenderli sul serio. Ci sono due modi di prendere sul serio una rivolta simile: associarvisi e cercare così di controllarla, oppure adottare le misure forti per schiacciarla. Entrambi i modi sono stati tentati.
I gruppi che si sono uniti alla rivolta, come ha sottolineato Samir Amin nella sua analisi dell'Egitto, sono stati tre: la rinvigorita sinistra tradizionale, i professionisti della classe media e gli islamici. La forza e la natura di questi gruppi è stata diversa nei diversi paesi. Amin vedeva la sinistra e la borghesia professionale (nella misura in cui erano nazionalisti e non neoliberali transnazionali) come elementi positivi e gli islamici, gli ultimi ad abbracciare la causa, come elementi negativi. E poi c'era l'esercito, da sempre il bastione dell'ordine, che alla fine si è unito alla rivolta egiziana proprio per arginarne gli effetti. Così, quando è cominciata la sollevazione libica, è stato per effetto diretto del successo delle rivolte nei due paesi vicini, Tunisia ed Egitto. Gheddafi è un leader particolarmente feroce e ha fatto dichiarazioni orripilanti circa la sorte che riservava ai traditori. L'immediato appello in Francia, Gran Bretagna e negli Stati Uniti a favore di un intervento militare non è certo scattato perché Gheddafi fosse una spina anti-imperialista nel fianco. Il dittatore vendeva petrolio all'Occidente e si vantava del fatto di aver aiutato l'Italia a interrompere l'onda di immigrazione clandestina. Offriva buoni affari agli imprenditori occidentali. Due le componenti del campo interventista: quelli che ritengono ogni intervento dell'Occidente irresistibile, e quelli che ne sostengono la necessità per ragioni umanitarie. Negli Stati Uniti contro l'intervento si sono schierati con decisione le forze armate, che giudicano la guerra in Libia impossibile da vincere e uno sforzo militare spaventoso per il paese. Sembrava che questa dovesse essere la posizione vincente, quando improvvisamente la risoluzione della Lega Araba ha spostato l'equilibrio delle forze. Com'è successo? Il governo saudita ce l'ha messa tutta per ottenere una risoluzione che imponesse la no-fly zone. Per avere l'unanimità degli stati arabi, i sauditi hanno fatto due concessioni. Loro chiedevano solo la no-fly zone ma è stata approvata anche una seconda risoluzione contro l'intrusione di qualsiasi forza di terra dei paesi occidentali. Che cosa ha indotto l'Arabia Saudita a spingere quella risoluzione? Forse qualcuno dagli Usa ha chiamato qualcuno in Arabia Saudita per fare pressione in quel senso? Casomai il contrario. Si è trattato, semmai, del tentativo dei sauditi di influire sulla politica americana piuttosto che del contrario. E comunque ha funzionato. Ha fatto pendere da una parte la bilancia. Quello che volevano - e che hanno ottenuto i sauditi - era una buona distrazione rispetto a ciò che ritenevano più urgente e che stavano facendo - dare un giro di vite rispetto alla rivolta araba, un problema che riguardava in primis l'Arabia Saudita stessa, poi i paesi del Golfo, e infine altri stati del mondo arabo.
Come nel 1968, questo tipo di rivolta antiautoritaria crea strane fratture e alleanze inusitate nei paesi dove dilaga. L'appello per un intervento umanitario crea immediato dissenso. Quanto a me, il mio problema è che non sono mai sicuro che sia davvero umanitario. I fautori dell'intervento additano sempre quello che è successo nei paesi dove non c'è stato, come per esempio in Rwanda. È vero che nel breve periodo può impedire un massacro, ma nel lungo periodo questo resta vero? Per prevenire i massacri di Saddam Hussein nel breve periodo, gli Stati Uniti sono andati in Iraq. E nel giro di dieci anni si può dire che siano state di meno le persone uccise? Non sembrerebbe. I fautori apparentemente si appellano a un criterio quantitativo. Se un governo uccide dieci manifestanti, la cosa è «normale» anche se forse merita una critica. Se ne uccide diecimila, è criminale, e richiede l'intervento militare. Quanta gente deve essere uccisa prima che ciò che è ritenuto normale diventi criminale? Cento, mille? Oggi, le potenze occidentali si sono lanciate nella guerra libica dall'esito incerto. Probabilmente sarà un pantano. Ma riuscirà a distrarre il mondo dalla rivolta araba in corso? Forse. Riuscirà a cacciare Gheddafi? Forse. Se Gheddafi se ne va, cosa verrà dopo? Perfino i portavoce statunitensi temono che possa essere sostituito dalla sua cricca o da al-Qaeda, o da entrambi.
L'azione militare Usa in Libia è un errore anche dal limitato punto di vista degli Usa e da quello umanitario. Non finirà presto. Il presidente Obama ha spiegato la sua azione in modo molto complesso e sottile. Quel che ha detto in sostanza è che, se il presidente degli Stati Uniti, giudicando la situazione con prudenza, ritiene che l'intervento sia nell'interesse degli Stati Uniti e del mondo, può e deve farlo. Sono certo che si sia tormentato per giungere a una decisione del genere. Ma questo non basta. Si tratta di una decisione terribile, sventurata e in fin dei conti autolesionistica. Nel frattempo la migliore speranza di tutti è che la seconda rivolta araba riprenda fiato - per quanto ora come ora siano poche le sue chances - e dia uno scossone prima di tutto all'Arabia Saudita.
(Traduzione di Maria Baiocchi, distribuito da Agence Global)


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