Nel numero di aprile 2001 di “micropolis”, Roberto Monicchia, mentre recensisce il libro di Marco Revelli sull’esclusione sociale, ragiona sui processi di pauperizzazione, emarginazione, plebeizzazione di lavoratori e pezzi di popolo e sulle loro conseguenza politiche. (S.L.L.)
Nel tentativo di dare conto dell’incubo berlusconiano in cui siamo pesantemente inviluppati, privilegiamo di volta in volta il lato politico, sociale o morale, oscillando al contempo fra la convinzione dell’assoluta anomalia del caso italiano e la sua riconduzione ad uno sviluppo specifico ma coerente della sfera politica nella società globalizzata e postideologica. In questo piccolo e prezioso libro (Poveri, noi, Einaudi, Torino 2011), che raccoglie l’esperienza compiuta alla guida della Commissione di indagine sull’esclusione sociale, Marco Revelli prova a tenere insieme i diversi lati della questione, fornendo un quadro lucido e impietoso del declino generale del nostro paese.
Il punto di partenza è un accurato repertorio statistico, che dimostra senza possibilità di errore che la crisi economica internazionale ha aggravato e cronicizzato la tendenza già in atto all’impoverimento della società italiana. L’aumento della percentuale sia in termini assoluti che relativi svela come la
povertà non sia più un fenomeno di marginalità sociale, riservato ai senza lavoro, ai disagiati e ai disadattati. Nell’era postfordista la fascia dei “non garantiti” non corrisponde più agli “esclusi” dal mercato del lavoro. Il fenomeno è particolarmente rilevante per quanto riguarda il lavoro dipendente, dove si è estesa notevolmente la fascia dei working poor, di coloro che pur lavorando non riescono con il proprio reddito a sostenere un’esistenza decorosa.
Ovviamente il fenomeno cresce in presenza di famiglie numerose e con l’estensione della precarietà. La secca perdita di quota di reddito del lavoro dipendente è un esito diretto del declino del fordismo e delle varie forme di compromesso sociale ad esso connesse. In Italia, dove più forte era stata la crescita del potere di contrattazione dei lavoratori, è più netta che altrove la perdita del nesso tra lavoro, diritti sociali e cittadinanza, e più evidente l’eclissi della rappresentanza politica del lavoro dipendente, vero e proprio “peccato capitale” che è all’origine del fallimento delle sinistre e del successo delle destre anche in ambito operaio. Con la crisi entrano in sofferenza anche diverse fasce del ceto medio, da quello legato ai servizi per la produzione, alla piccola impresa familiare dei “distretti”, fino alle figure ultramoderne legate all’economia biopolitica e cognitiva. In questa sfera l’impoverimento è vissuto tanto più drammaticamente quanto più forti erano state le aspettative di crescita di ricchezza e di status; i segni più evidenti sono da un lato il crescente ricorso all’indebitamento, dall’altro un senso di frustrazione permanente che esplode in forme anche estreme, sia a livello individuale che collettivo.
Come si è accennato, la povertà e l’irrilevanza del lavoro sono l’esito del mutamento di paradigma produttivo, dal postfordismo alla produzione globale, che dà corpo ad una “modernizzazione regressiva”, che si esplica in una separatezza sociale quasi incolmabile, in cui ad esempio il tema della redistribuzione del reddito (cioè l’obiettivo dell’uguaglianza delle condizioni) perde ogni legittimità. In questo quadro la reazione dei ceti impoveriti tende ad assumere non le forme classiche dell’organizzazione e del conflitto, ma quelle ambigue e frammentate del risentimento, dell’esplosione rabbiosa, di un generale senso di impotenza. Ciò è tanto più vero nel caso italiano, laddove per molto tempo si è scambiato il declino per crescita, e la chiusura provinciale in “modello” di sviluppo, e laddove più forte era stata la conquista di cittadinanza sociale a partire dal conflitto di fabbrica, e più dura la sconfitta del movimento operaio.
Un elemento importante di questa trasformazione lo si coglie nel tanto vissuto quanto ostentato “lavorismo”, diffuso a nord tanto tra gli imprenditori quanto tra gli operai. In esso si manifesta la riduzione ad una forma di individualismo esasperato di un modo di essere e di un immaginario che è stato privato della funzione di veicolo di riscatto individuale e collettivo.
Ma più in generale, nell’intolleranza e nella rabbia verso immigrati e rom, nella diffusa insofferenza verso ogni forma di solidarietà sociale, si colgono i segni dell’affermazione della “politica del risentimento” o “psicopolitica”, su cui le forze della destra populista costruiscono le proprie fortune. All’inabissamento del conflitto redistributivo corrisponde l’entrata in scena prepotente dell’invidia sociale, che assume peraltro una configurazione del tutto inedita, orientandosi non più verso l’alto, ma verso il basso. Laddove le gerarchie sociali vengono considerate sostanzialmente immodificabili, ci si fa forza e si resiste puntando l’obiettivo verso gli individui e i gruppi in condizioni di disagio maggiore del nostro, sia per esorcizzare la paura di cadere nella stessa condizione, sia per trovarvi una specie di risarcimento simbolico alle proprie frustrazioni.
Ecco così squadernati davanti a noi tutti gli ingredienti economici, sociali e culturali che compongono la miscela esplosiva che alimenta il successo del populismo politico.
Anche qui: si tratta di un fenomeno globale, ma i tratti della “psicopolitica” italiana sono più marcati e grotteschi, e i suoi interpreti più spregiudicati e pericolosi, sia sul versante leghista che su quello berlusconiano. L’aumento del tasso di povertà si rivela ben più di un fenomeno transitorio o marginale, dalla sua analisi si colgono i segni di una crisi sociale generale che mette a rischio la stessa natura democratica del paese. In un sistema che annulla ogni idea di eguaglianza e trasforma i diritti in concessioni dall’alto, infatti, la dialettica sociale e politica diventa uno “scambio diseguale” tra “protezione” e “fedeltà”. E come se, in conclusione, “oltre il novecento”, il cui superamento era stato non solo registrato ma anche auspicato dallo stesso Revelli (cfr. La politica perduta, recensito da “micropolis” nel gennaio 2004), si riaffacciassero le strutture dell’ancient régime. E così torniamo al punto di partenza, al volto complessivo del berlusconismo.
Mentre stendevamo queste note si è svolto lo show del premier a Lampedusa: da giorni sul piede di guerra contro l’inerzia del governo, gli isolani hanno accolto con entusiasmo le parole di Berlusconi, che promette insieme l’evacuazione degli immigrati e l’acquisto di una villa sull’isola. Punire chi è povero perché è povero e ostentare la ricchezza come privilegio intoccabile sono elementi fondanti della “politica del risentimento”. Il consenso che questa continua a raccogliere illustra come il declino sociale sospinga pezzi consistenti dei ceti popolari verso la condizione di plebe. Probabilmente qui c’è una chiave della resistenza di Berlusconi e del contestuale deperimento della democrazia italiana.
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