Ieri, 25 aprile 2011, Paolo Cacciolati, nel sito “La poesia e lo spirito” (http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/) ha “postato” quello che si presenta come l’inizio di una più ampia ricognizione. S’intitola: C’era una volta il grande cinema italiano. 1.Roma città aperta. E’ un testo semplice e bello che ci dice tanto sull’ieri e sull’oggi. Ne colloco qui un ampio stralcio per memoria mia e per invogliare altri a cercare le puntate che seguiranno. (S.L.L.)
Oggi che si celebra la giornata di una Liberazione antica mi sembra che noi si sia ancora in guerra, o di nuovo in guerra, bombe a grappolo mediatiche devastano quelli che un tempo si dicevano valori, fanno tabula rasa delle coscienze civili.
Anche l’attuale cinema italiano mi sembra specchio fedele di questa volontà di ottundimento, tanto spudorata nel potere contemporaneo seduto sulle nostre schiene. Così ho pensato di proporre una piccola carrellata di quello che è stato il grande cinema italiano, nel suo periodo aureo, quello del secondo dopoguerra. Nella speranza di rendere il più impietoso possibile il confronto con il contemporaneo, anche se serve a poco o nulla, come tutti gli inutili, minimi gesti di ribellione. Si tratta di film che quasi tutti conoscono, per cui eviterò di dilungarmi su trame&critiche, privilegiando piuttosto una visuale finora poco considerata, quella dei bambini. Lo sguardo dei bambini in questi film documenta il tempo e lo rende immortale, diventa scivolo ideale per il reale, che entra con prepotenza all’interno delle inquadrature, anche quando è volutamente ricostruito. I bambini sono tutti attori per caso, non hanno alle spalle scuole di recitazione ed interpretano se stessi anche quando danno il volto ad un personaggio. E’ uno sguardo spesso di profughi, così simili a quelli di oggi trasbordati dagli scafisti in una terra dell’oro che non esiste.
Naturalmente, nella giornata odierna, tocca partire con il capolavoro di Rossellini.
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In Roma città aperta mi piace ricordare il ruolo centrale giocato dalla figura di un bambino. E’ Marcello, il figlio di “sora Pina”, la vedova interpretata da Anna Magnani. E’ un bambino in cerca di un padre, è sveglio, e si muove con sicurezza nel quartiere Pigneto della Roma occupata dai nazisti.
Fabrizio è il compagno della madre, che attende un figlio da lui. In Marcello non c’è sentimento di rivalità verso l’uomo, anzi, vi è complicità e sentimento di affiliazione. Quando la madre lo sgrida per essere stato fuori casa durante il coprifuoco è Marcello che lo consola, si siede sul suo letto e cerca di sapere perché è rientrato così tardi. Ma Marcello tace, perché: «È un segreto».
Fabrizio, tipografo comunista, attivamente impegnato nella Resistenza, capisce il significato della lealtà, l’importanza dell’amicizia, del mantenere il silenzio per salvare i compagni, la legge del sacrificio di pochi finalizzato alla salvezza di molti. Così non sgrida il bambino, anzi, lo protegge dalle ire materne. Marcello gli è grato, dato che è entrato come un raggio di speranza nella sua vita di bambino, dandogli un esempio ed un punto di riferimento.
Quando Fabrizio sta per alzarsi dal letto il piccolo lo ferma e parte un dialogo toccante:
MARCELLO: «È vero che da domani te chiamo papà?».
FABRIZIO: «Se voi!».
[pausa]
MARCELLO: «Si, ti voglio tanto bene».
[Il bimbo si getta tra le braccia dell’uomo]
La storia di Pina, è ispirata da un personaggio reale: si chiamava Teresa Talotta Gullace, era incinta e fu uccisa cercando di dare un “pezzo di pane” al suo uomo che era stato imprigionato dai nazisti.
La leggenda vuole che la famosa scena della camionetta fu colta dagli sceneggiatori dopo aver visto la Magnani inseguire il suo amore dell’epoca, Massimo Serato, dopo una scenata di gelosia.
Per mettere fine alle contumelie, pare che l’ispettore di produzione Todini portò fuori Serato e se lo caricò su un furgoncino. Allora l’attrice si mise a correre dietro la camionetta, bestemmiando, inciampò e cadde.
Nel film, Pina urla il nome dell’amato, insegue la camionetta, ma la sua corsa disperata viene fermata dalla mitragliata di un soldato di cui non vediamo il volto.
In campo lungo si vede Marcello che si getta sul corpo della madre urlando due volte: «La mia mamma!». Il brigadiere lo porta via mentre don Piero (un grandissimo Aldo Fabrizi) solleva il corpo esamine della donna.
In un’altra sequenza ritroviamo Marcello, ormai completamente orfano, seduto in compagnia di Fabrizio, precedentemente sfuggito all’arresto grazie alla mobilitazione della popolazione.
Il registra riprende in piano americano l’addio tra l’uomo ed il bambino. Marcello chiama Fabrizio “papà” e in ricordo gli dona la sciarpa che era stata fatta dalla madre. In quel “papà” è racchiuso tutto il dolore della guerra, e tutta la speranza per un futuro dove non regni la solitudine.
E anche qui sta la grandezza della sceneggiatura (sempre ad opera di Rossellini, con Amidei, Fellini e Negarville), che offre un rasserenamento al piccolo privato della madre, quasi un «compenso»: sarà il partigiano per cui praticamente è morta la madre, ad occuparsi di lui in futuro.
L’altra memorabile figura in Roma città aperta è il don Pietro, interpretato da Aldo Fabrizi, trasfigurazione cinematografica di due sacerdoti reali, Don Morosini e Don Pietro Pappagallo.
Lo spettatore incontra il prete nell’oratorio gremito da bambini che corrono dietro il pallone mentre lui fa l’arbitro, beccandosi pure una pallonata in testa.
L’immagine di Don Pietro è molto alta, quasi sempre è circondato da bambini, li guida e li toglie dalla strada.
Marcello non ama frequentare la chiesa ed il sacerdote lo riprende con fermezza. Ma è a Don Pietro che il bambino si rivolge quando i nazisti perquisiscono gli alloggi dove hanno nascosto le armi.
Don Pietro verrà infine imprigionato dai nazisti. Rifiutandosi di collaborare, il suo destino è il plotone di esecuzione.
Mentre viene fatto sedere, volto di spalle al plotone, i ragazzini accorrono, guardano da dietro la rete e fischiano intonando l’allegra canzone di “Mattinata Fiorentina”. È un modo per fargli sentire che non è solo, anche se quella “primavera” cantata Alberto Rabagliati, il prete non potrà più rivederla. Don Pietro sente il fischio dei ragazzi oltre la rete, e si sforza anche di vederli, di comunicare con loro. Il guardare di don Pietro, prima della morte, è anche un modo di trasmettere agli altri un messaggio di continuità e di speranza. I soldati fascisti non riescono che a sparare alle gambe del prete. Lo finirà un ufficiale nazista. La morte del sacerdote appare come l’ennesimo assassinio degli ideali dei ragazzi.
Non resta che concludere con quanto scritto da Vice, in Postilla a Roma città aperta, nella rivista «Cinetempo», del 1 novembre 1945: “E i tedeschi erano così convenzionali nella realtà, che riportarli tali e quali significava renderli convenzionali anche sullo schermo! […]Tuttavia adesso che quelle voci hanno finito di risuonare, è forse il caso di chiederci: come si sono svegliate queste nostre anime, dove si sono indirizzate, quale giovamento hanno tratto dalle passate esperienze? Ecco perché quei bambini, che nel finale del film (per il resto abbastanza convenzionale) camminano nell’alba, dopo l’esecuzione del prete che ha cospirato, ci sembrano veramente muovere i primi passi, e donano alle inquadrature, un volto di appassionante attualità”.
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