L'articolo che segue fu
ripubblicato nel 1993 nel primo dei tre inserti speciali che “il
manifesto” dedicò in quell'anno ad Ernesto Che Guevara, ma risale
al 1991. Al tempo non erano ancora interamente noti i cosiddetti
Diari della motocicletta, di
cui qui Garzia si serve e non era stato prodotto il film che rese
famoso l'avventuroso viaggio di Granado e Guevara, svoltosi tra il
dicembre 1951 e il luglio 1952. Il pezzo di Garzia, che utilizza la
testimonianza raccolta in un colloquio con Granado a Cuba, mi pare
suggestivo. (S.L.L.)
Granado e Guevara sulla "caravella" Mambo Tango |
L'idea di un viaggio per
le terre sconfinate del Sudamerica Granado la matura nel '40. «Volevo
conoscere il mio continente - scrive in Con
el Che por Sudamerica - non con gli occhi del turista. Mi
piaceva l'idea di incontrare uomini e donne, tradizioni e costumi di
altri paesi che conoscevo poco o nulla. Quel viaggio era un'utopia
che valeva la pena di perseguire a costo d'ogni sacrifìcio». «Io
studiavo biologia all'università e non davo molta importanza agli
amici più giovani che circondavano mio fratello - racconta Granado -
ma una volta sono stato fermato dalla polizia per una manifestazione
studentesca contro l'autoritarismo dei professori. Sono rimasto in
una cella del commissariato di Cordoba per alcuni giorni. Mio
fratello Tomas e Guevara venivano a portarmi da mangiare. Con loro
discutevo delle ragioni di noi studenti, ma non c'era niente da fare.
Non c'era verso di convincerli».
Nonostante la differenza
di età, Alberto e Ernesto prendono a frequentarsi con assiduità.
Parlano del mitico viaggio da compiere per il Sudamerica, ma intanto
si danno allo sport: rugby, calcio. Ernesto soffre di asma per una
polmonite mal curata quando aveva quindici giorni di vita e si illude
che l'attività sportiva possa aiutarlo a star meglio. «Nell'ottobre
del '50 - ricorda Granado - io avevo deciso che sarei finalmente
partito per il mio viaggio a bordo di una moto sgangherata che si
chiamava Poderosa II. Ne parlai con Ernesto, ma lui mi pregò
di aspettarlo perché doveva sostenere degli esami. Finì per
convincermi e così partimmo senza una meta precisa il 29 dicembre
del '51». Di quel viaggio a due, durato fino al 26 luglio del '52,
non esiste solo la testimonianza di Granado. Nel libro Mio figlio
il Che (Editori Riuniti, 1981) il padre di Guevara pubblica
alcune pagine di un diario che erano rimaste a lungo nei cassetti di
famiglia.
Le pagine dei diari di
Granado e del Che si intrecciano. Scoprono la natura selvaggia delle
Ande, le pianure desolate, la vita dei minatori. La vecchia moto di
Granado si rompe ben presto e allora prendono a viaggiare sugli
autobus, sui camion. Non hanno soldi, non hanno viveri ma da
Valparaiso decidono di partire per l'Isola di Pasqua. E così si
imbarcano come clandestini in una piccola nave dove il Che finisce
per essere addetto alla pulizia dei bagni e Granado alla pelatura
delle patate.
Alberto Granado prende
appunti su tutto quello che vede con ossessionata precisione e
aggiunge alle sue note osservazioni sul carattere del giovane
compagno di viaggio. «Era curioso per tutto quello che vedeva -
racconta - e non lasciava perdere nessuna occasione per ribadire
quelle che erano le sue convinzioni. Aveva una sete furibonda di
sapere: si guardava intorno, domandava, poi scaricava le sue
conclusioni sugli altri». Dovunque passano Guevara e Granado
lasciano la traccia di una discussione animata, un giornale cileno,
dopo la loro partenza da Temuco, scrive nella cronaca locale:«Due
argentini specialisti di lebbra percorrono il Sudamerica in
motocicletta». La moto di Granado - prima di spegnersi per sempre -
è carica fino all'inverosimile: tegami da cucina, impermeabili,
copertoni di riserva, vestiti, maglie di lana, sacchi a pelo. In una
delle prime lettere del Che a sua madre, il giovane studente di
medicina non può fare a meno di riferire che «dopo i primi 1.200
chilometri abbiamo imparato cosa sia la distanza e ora sappiamo che
dobbiamo rispettarla. La moto proprio non ce la fa a tenere il carico
e così siamo già caduti per terra due volte». Gli incontri non
sono tutti uguali e per Granado e Guevara il viaggio si trasforma ben
presto in una sorta di educazione sentimentale.
Il 18 giugno Alberto
annota nel suo diario: «Siamo in piena selva tropicale, vicino al
fiume Amazonas. Sta piovendo violentemente sul lebbrosario di San
Fabio in Perù. Una garza grigia sembra avvolgere gli alberi che si
vedono all'orizzonte. La nostalgia ronza attorno a tutto l'ambiente
circostante: non mi distrae né la pioggia né l'imponente aspetto
del fiume. Dieci giorni fa abbiamo conosciuto il dottor Bresciani,
direttore del lebbrosario». Il Che rimane colpito dall'isolamento e
dalla fatica con cui il dottor Bresciani deve lottare contro la
lebbra e ne invia un dettagliato resoconto alla madre Celia. Il 20
giugno Granado e Guevara decidono che è venuta l'ora di partire.
«Quando stavamo per imbarcarci - racconta Granado - ci siamo accorti
che i malati avevano dipinto su una facciata della prua la scritta
Mambo e sull'altra Tango. E così la nostra caravella si chiamò
MamboTango,come i due ritmi che ci avevano unito: il loro e il
nostro».
Il Che e Granado si erano
imbattuti per la prima volta in un lebbrosario. «Tutti gli ammalati
- annota Granado - vivono insieme alla loro famiglia ed è difficile
condurli al sanatorio. Qui, lungo i fiumi Ucayali e Varavi, la lebbra
è una malattia endemica». Un incontro decisivo per i due
viaggiatori erranti avviene nell'ospedale di Guia. «Avevamo una
lettera di presentazione per il dottor Hugo Pesce, che gentilmente
accettò di alloggiarci nel suo ospedale nonostante il nostro aspetto
trasandato». Il Che simpatizza con questo dottore e inizia a
chiamarlo insistentemente «maestro». Lo colpisce la notizia che
Pesce, per la sua militanza nel partito comunista peruviano, ha
dovuto abbandonare la cattedra di medicina tropicale all'università
di Lima e andarsene lontano dalla capitale per esercitare la propria
professione. Quel medico aveva descritto tutta la sua esperienza nel
libro Latitudini del silenzio. Un testo che al Che sembra
pessimista e remissivo, racconta Granado. Lui aveva un'altra idea su
come fare il medico.
Il 26 luglio,a Caracas,
il Che si convince che è venuto il momento di tornarsene a Cordoba.
Granado preferisce fermarsi in Venezuela e scrive nel suo diario:
«Dopo tanti mesi passati insieme la separazione è dura. Entrambi
stiamo nascondendo la tristezza che vela i nostri sguardi. Sappiamo
che la separazione sarà solo temporanea, che torneremo a unirci...»:
Guevara prenderà la laurea in medicina, partirà nuovamente per il
suo continente iniziando a fare il medico, ma scriverà a sua madre
che in fondo il suo «sogno è andare a vivere per un po' in Europa,
sicuramente a Parigi». Nel '54, in Guatemala, si sposa con Hilda
Gadea. In Messico, il 24 settembre del '55, conosce Fidel Castro e
gli altri dirigenti del Movimento 26 luglio. Finirà in galera con
loro, nelle carceri messicane, poi partirà a bordo del piccolo
panfilo Granma alla volta di Cuba per tentare una lotta
rivoluzionaria: unico straniero in un gruppo di esiliati cubani.
«L'ultima volta che ho visto il Che - dice Granado - è stato a
Santiago di Cuba nel '65. Stavo tenendo una lezione all'università e
lo vidi entrare nell'aula con la sua nuova moglie, Aleida March. Gli
chiesi il motivo della sua visita, ma rispose con un cenno. Lo
invitai a mangiare in una pizzeria che si chiamava "Fontana di
Trevi" Parlammo con la solita amicizia di sempre. Infine mi
salutò dicendo che aveva lasciato due libri per me all'Avana». Era
un addio.
Quei due libri (Guerra
di guerriglia dello stesso Che e L'ingenio di Moreno
Fraginals) furono recapitati a Granado - per volontà del Che - solo
alla fine del '67, dopo la morte di Guevara in Bolivia. Entrambi
contenevano una dedica scritta a mano. Una dice: «Alberto, perché
tu abbia la speranza di non finire i tuoi giorni senza sentire
l'odore della polvere e il grido di guerra dei popoli, una forma
sublime di ricevere emozioni forti, non meno interessanti e forse più
utili di quelle ricevute lungo l'Amazonas» . Il riferimento, 14 anni
dopo, era per quel fiume peruviano lungo il quale Alberto Granado e
il Che avevano scoperto le amarezze e la durezza della vita in un
lebbrosario. Un gesto di commiato dall'amico d'avventura di tanti
anni prima, che questa volta non aveva potuto intraprendere l'ultimo
viaggio con il Che verso la Bolivia. Un viaggio ancora una volta
avventuroso. Questa volta fatale.
Il primo a sinistra,
I, supplemento a “il manifesto”, 1993
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