Tra fascisti e
postfascisti c'è ancora in giro qualche cerimonia celebrativa per il
centenario della nascita di Almirante. A fine giugno (era nato il 27
di quel mese nel 1914) Napolitano ne aveva officiato al Quirinale una sorta di
apoteosi, con un elogio al suo parlamentarismo e moderatismo che
sanciva la legittimità delle dediche di vie, piazze e giardinetti,
che qua e là la “destra nazionale e sociale” berlusconizzata
aveva promosso. Ho trovato oggi il ritaglio di un articolo su
“l'Unità” di Vincenzo Vasile, che nel 2008 ricordava agli
smemorati alcuni passaggi della biografia del “fucilatore”. Vale
la pena di postarlo, perché i vuoti di memoria con il tempo
aumentano. (S.L.L.)
In tempi così pieni di
smemoratezza non sarà male sfogliare qualche pagina della biografia
di un leader neofascista che conquistò - in verità solo sul finire
della sua vita, conclusasi nel 1988 - un'immeritata fama di
'equilibrio' e di capacità dialogante, dopo avere impersonato non
solo durante il ventennio fascista, ma anche nel dopoguerra, la più
squallida vena razzista e le pulsioni più inquietanti della destra
italiana.
C'è chi segnala, in
questo curriculum un particolare non di dettaglio: Almirante veniva
da una famiglia di uomini di spettacolo, il padre era stato direttore
di scena e regista di Eleonora Duse, gli zii erano noti attori: tra
loro quell'Ernesto Almirante che negli anni 50 fece la parte del
vecchio bersagliere rincoglionito che saltava fuori in mutandoni
suonando la carica con la trombetta in diverse sequenze un vecchio
film di Totò e Gino Cervi (Il coraggio). E forse da quella
vena familiare veniva al più giovane nipote una certa vocazione
trasformista, retorica, ambigua e populista che gli consentì di
traghettare il fascismo sovversivo, anticapitalista e antiborghese di
Salò nelle istituzioni parlamentari e repubblicane. E che lo portò,
dopo diversi travagli interni all'Msi, fino all'obiettivo di
espandersi fino al massimo storico (il 9 per cento di media nazionale
nel 1972, con punte a due cifre in Sicilia), parlando alla pancia di
un elettorato per la prima volta dal 1948 in libera uscita
dall'interclassismo della Dc, con lo slogan della difesa della terra,
della casa e della proprietà. Sotto al doppiopetto e dietro alla
retorica rigonfia che affascinò tanta piccola borghesia dei primi
anni Settanta erano celati i vecchi e lugubri 'labari' del fascismo
più nero e militante.
Destinato
all'insegnamento nelle scuole medie, Almirante aveva pontificato sin
dall'indomani delle leggi antiebraiche sulla rivista 'La difesa della
razza' di Telesio Interlandi (altro personaggio come lui di origini
siciliane, interprete delle più fosche spinte del regime) che
“l'Italia non ha ancora avuto la sua scuola”. E che essa avrebbe
dovuto da allora in poi forgiare gli italiani secondo la seguente,
delirante, dottrina: “Il razzismo è il più vasto e coraggioso
riconoscimento di sé che l'Italia abbia mai tentato. Chi teme, ancor
oggi, che si tratti di un'imitazione straniera (e i giovani non
mancano nelle file di questi timorosi) non si accorge di ragionare
per assurdo: perché è veramente assurdo sospettare che un movimento
inteso a dare agli italiani una coscienza di razza posa condurre a un
asservimento alle ideologie straniere”. Tutto nasce invece da
quell' “insuperabile e spesso drammatico contrasto tra romanità -
vera romanità e non quella annacquata della pseudo-cultura
internazionalista - e giudaismo. Il che dimostra ancora una volta che
in fatto di razzismo e di antigiudaismo gli italiani non hanno avuto,
né avranno bisogno di andare a scuola da chicchessia”.
Negli anni della
'maturità', più che rinnegare, l'interessato avrebbe minimizzato la
sua attività di 'segretario di redazione' e uomo-macchina della
rivista di Interlandi, e la sua personale opera di decretazione delle
rinnovate norme razziali della Repubblica di Salò. Leggi che furono
condensate nella circolare esplicativa da lui stesso firmata, non
appena il giovane tenente della Guardia Nazionale repubblicana passò
dall'ufficio per 007 delle 'intercettazioni' cui era stato
originariamente destinato, a quello di capo di gabinetto del
Minculpop repubblichino (succeduto nell'incarico a Gilberto Bernabei,
poi divenuto segretario particolare di Andreotti a palazzo Chigi).
Con il compito di
propagandare alla radio la bontà delle nuove norme che consentivano
di condurre a termine la persecuzione antiebraica con arresti,
deportazioni ed espropri: bisognava, sui mezzi di informazione della
triste repubblichetta mussoliniana, “rilevare che le nuove leggi”
costituivano non la cancellazione ma l'aggiornamento delle norme del
1938 “in base alle esperienze acquisite, e alle nuove necessità
determinate dalla situazione in cui la guerra, il tradimento e la
ricostruzione hanno messo e mettono il paese”. Lui, Almirante,
intanto, faceva la spola - anche per 'missioni segrete' - tra il
'duro' ministro Mezzasoma e Mussolini. Nelle disposizioni razziali a
sua firma si tessevano elogi dell'accanimento contro i 'meticci' e i
matrimoni misti, e si aggiungevano accurate precisazioni sul tasso di
'arianesimo' da garantire per rendere efficace la selezione dei
perseguitati.
Più tardi, Almirante
avrebbe falsamente sostenuto di avere lasciato in un cassetto del
ministero le norme 'antigiudaiche' (richieste, a suo dire, dai
tedeschi), in uno scritto sprezzantemente intitolato 'autobiografia
di un fucilatore'. La polemica di quel titolo era proprio rivolta
all'Unità, che nel 1968 aveva pubblicato il testo di un manifesto
firmato dal 'capo di gabinetto' Almirante, che intimava, “Alle ore
24 del 25 Maggio scade il termine stabilito per la presentazione ai
posti militari e di Polizia Italiani e Tedeschi, degli sbandati ed
appartenenti a bande. (…) Tutti coloro che non si saranno
presentati saranno considerati fuori legge e passati per le armi
mediante fucilazione nella schiena. Vi preghiamo curare
immediatamente affinché testo venga affisso in tutti i Comuni vostra
Provincia”. Sulla base di questo editto 83 'sbandati' furono
fucilati in Maremma. E questa terribile eredità, assieme alla
militanza di Almirante almeno fino al 25 aprile nelle Brigate nere
impegnate nei massacri di partigiani in Valdossola con il grado di
tenente, macchiò per anni e anni l'immagine pubblica del più
duraturo e forte dirigente del Movimento sociale, che un Tribunale
clamorosamente per di più sbugiardò riguardo all'editto contro gli
'sbandati', assolvendo il nostro giornale dall'accusa di
diffamazione.
L'Msi l'aveva fondato
proprio lui, Giorgio Almirante, assieme a una combriccola di reduci
della Rsi, nel 1946, e questa 'istituzionalizzazione' delle nostalgie
più o meno eversive per il regime fascista e per Salò, concordata
con la Dc e il Vaticano, di solito gli viene ascritta a merito. Ma
pochi sanno che pochi mesi prima lo stesso Almirante e altri futuri
protagonisti della storia dell'Msi avevano creato, tanto per non
legarsi le mani, anche un'organizzazione clandestina, detta Fronte
armato rivoluzionario - Far - protagonista di numerosi attentati e
sabotaggi, che convisse fino al 1952 in un rapporto altalenante ma
quasi ininterrotto con l'Msi, e diede anche vita a un Esercito
Clandestino Anticomunista, ramificato in varie parti del paese. Bombe
carta, attentati, blitz contro cortei di lavoratori: la storia dei
Far negli anni seguenti avrebbe avuto la sua diretta filiazione in
Ordine Nuovo e Avanguardia nazionale, le due organizzazioni
clandestine, protagoniste della strategia della tensione e delle
stragi.
Fate attenzione a certi
album di famiglia. Tra i fondatori del Far, c'era un'altra allora
'giovane speranza' dell'eversione nera: Giuseppe Umberto Rauti, per
gli amici 'Pino'. Che è il suocero del sindaco di Roma che vorrebbe
oggi dedicare una strada ad Almirante, e fu per lunghi anni il
fratello-coltello del defunto leader in diversi dissidi e molteplici
scissioni e riappacificazioni della tumultuosa storia - forse ancora
da scrivere - del Movimento sociale.
L'Unità, 24 Maggio 2008
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