Conflitto» sembra
essere, come «guerra», il contrario di «pace». Qualcosa di
sgradevole e penoso e pericoloso. Conflitto è tra opposti o
contrari, urto tra volontà e bisogni.
Ci dicono che l'immagine
di «pace» sorge dall'appagamento dei bisogni infantili, da tutto
quel che riconduce allo stato fetale o a quello dell'allattamento
(sicurezza, calore, indifferenza a quanto è estraneo) mentre
l'immagine di «conflitto» è connessa a quella di separazione,
mancanza, ricerca, sfida, prova, rischio, sofferenza, crescita,
avventura. Non troppo paradossalmente, la pace contiene in sé la
tentazione della morte mentre il conflitto implica l'eros, la brama e
il desiderio. Per molte sapienze il conflitto è proprio
dell'apparenza, della tremenda scena «teatrale» della realtà
mentre solo vera è la pace del Non Essere, il ritorno o il
raggiungimento del Nulla. Il conflitto è vissuto allora come male o
come necessità transitoria. Le religioni monoteistiche affidano alle
funzioni di comando, civili o religiose, la difesa della pace. Sulla
forza repressiva si fonda la legge, entro la legge si dovrebbero
risolvere i conflitti, chi infrange la legge è nemico della pace
pubblica. Ma accanto e contro l'esperienza di due condizioni
simmetriche e antagoniste sta quella della loro inseparabilità.
Senza conflitto non si da il fondamento medesimo della esistenza che
dura, il lavoro. Senza la «prestazione» e quel che essa implica
(ostacolo, resistenza, usura, sofferenza, consumo) non si da
«piacere». Senza conflitto non si da riposo o «pace»).
Le guerre sembrano tutte
eguali soltanto per chi ne guarda le cause immediate e tecniche. E
invece sono diverse come la storia delle società e delle parti in
conflitto. Chiamare battaglie quelle dei greci, che non duravano (per
estenuazione dei combattenti) più di mezz'ora e quelle delle guerre
moderne che durano ininterrotte per mesi è un inganno di linguaggio.
E così coloro che vogliono demolire o assopire ogni spirito di
protesta e di opposizione alle cose-come-stanno vi predicano che ogni
contrasto è conflitto, ogni conflitto violenza, ogni affermazione di
principio è «antidemocratica», e viva le tavole rotonde e simili
imbrogli.
Presso i cinesi,
sorridere all'avversario può manifestare un'ostilità grandissima.
Il cerimoniale del duello, fino a meno di cent'anni fa, era una forma
culturale di espressione di un conflitto tra individui. L'ironia può
essere, come si dice, sanguinosa come una stilettata. La violenza non
è negli strumenti impiegati per usarla. E certo le buone maniere
sono preferibili, quasi sempre, alle cattive. Quasi sempre: dare
della canaglia, ad esempio, è, in date circostanze, una forma di
conflittualità «esemplare» ed «educativa» come non lo sarebbero
invece un ironico risolino o un rispettoso dissenso.
La storia umana è anche
storia di intolleranza e tolleranza, di conflitti e di loro
risoluzioni, di contese e di accordi da cui nascono altre contese e
altri accordi. Come nella musica o almeno in gran parte di essa. Sono
sempre esistiti i tentativi, di individui o di gruppi, di uscire
fuori della conflittualità verso la «pace» del nulla, della
non-azione, dell'annullamento del desiderio e del confronto; penso al
buddismo e alla tradizione mistica occidentale.
E anche le procedure
opposte, di chi porta alle estreme conseguenze lo scontro, offrendosi
vittima all'avversario dagli assediati (Numanzia o Masada) che
scelgono il suicidio contro la resa, fino ai singoli che rifiutano la
vita se offerta in cambio della ritrattazione o del pentimento
(«questa mia è una verità di cui non si può dare testimonianza se
non morto», dice, avviato al rogo, un eretico fiorentino del
Quattrocento; e «lei sa, padre, che cosa significhi salvarsi
l'anima?» risponde Gramsci prigioniero al prete che gli propone di
inoltrare una istanza di grazia a Mussolini).
Ma non ogni conflitto è
«il» conflitto, come non ogni guerra è «la» guerra e non ogni
pace è «la» pace. Va respinto come un volgare imbroglione tanto
chi (e non sono pochi) interpreta i moderni conflitti tra nazioni e
potenze come proiezione di conflitti tra «mentalità» o «culture»
o «religioni» o «civiltà» (e presto si arriva a parlare di lotta
del «bene» contro il «male» e simili rozze e purtroppo sempre
efficaci menzogne). Costoro, nella migliore delle ipotesi, dilatano a
livello mondiale l'esistenza e la rilevanza certo realissima dei
conflitti inconsci degli individui « fingono di non vedere che ogni
cozzo di interessi e passioni traspone, sì, anche quelli sedimentati
o rimossi negli individui e nei gruppi umani, ma che nelle società
moderne tanto le strategie del piccolo negoziante quanto quelle delle
grandi potenze assegnano un'importanza sempre minore ai motivi e agli
interessi non formulabili in forma razionale.
Quando il generale
Schwarkopf ordina di sventrare diecimila iracheni non lo fa perché
da piccolo la mamma gli negava il seno o il padre lo minacciava di
busse; tanto più che egli è probabilmente un uomo di buon cuore,
pronto magari ad adottare un orfano di quegli iracheni e amante della
musica popolare dell'Arkansas o della lirica trovadorica o
dell'allevamento dei criceti. Lo fa perché non sarebbe a quel posto
ove non fosse stato selezionato ai suoi compiti da un sistema
complesso di cui fanno parte industriali, economisti, storici,
psicologi, sociologi, uomini politici, insomma, tutta una cultura.
Che poi quel complesso sistema abbia bisogno anche di truccare le
proprie motivazioni ora evocando paure (e rassicurazioni) infantili
(«II nemico è un orco sanguinario e pazzo e ognuno può contribuire
a distruggerlo infilzando spilli in una sua effìgie per poi tornare
a mangiare il tacchino e la torta di mele con mamma, moglie e figli
nel Giorno del Ringraziamento») ora fornendo argomenti solo
apparentemente più realistici («vogliamo il petrolio») ma
altrettanto menzogneri o parziali - tutto questo ci dimostra che «la
pace» è una parola vuota e consolatoria se non si definisce bene a
quale conflitto, a quale lotta o guerra si opponga. Si opponga,
appunto. Negarli un conflitto equivale a istituirne un altro.
«La vita dell'uomo sulla
terra è un servizio militare», «Io sono venuto a portare la
spada»: Chi ha detto queste frasi è la medesima bocca che ha detto:
«Beati coloro che si adoperano per la pace». Credo non ci sia
nessuna contraddizione. La prima frase riconosce che la
conflittualità (tra «bene» e «male», fra «giusto» e
«ingiusto») e la sua sofferenza è costitutiva, come la sua gioia,
dell'essere umano e del suo fondamentale bisogno di conservazione e
riproduzione, ossia di «lavoro».
La seconda ci avverte che
il latore di consapevolezza è anche latore di conflitti. La terza
vuoi dire che i facitori di pace sono coloro che, accrescendo la
cerchia dei rapporti, dei temi e delle ragioni di non-conflitto,
spostano la frontiera degli inevitabili e fecondi conflitti,
inducendo sempre più ampie alleanze e sempre più precisamente
definendo e chiamando per nome i nemici, trasformandoli prima in
avversari, poi in collaboratori necessari e preziosi. Ogni individuo,
ogni classe, ogni società è «pacifica» all'interno della cerchia
del proprio «fuoco di bivacco» ma non può non avere sentinelle
poste a difesa della fraternità e della solidarietà, sempre
minacciate da «dentro» come da «fuori»; al limite il «nemico»,
come diceva Leopardi, sarà identificato nella nostra condizione di
esseri naturali, nella «natura» che ci destina alla scomparsa
individuale e, in prospettiva, della specie.
Oggi e subito il
«nemico», quello contro cui è necessario non solo conflitto ma
guerra, è tutto quello che propone false mete, false coscienze,
false solidarietà, false paci; e che, per esempio, nega di fatto,
a colpi di parole o di leggi o di capitali o dì missili,
l'uguaglianza dei diritti - e la finale identità umana - fra i
privilegiati e i «dannati della terra». Però, con un'aggiunta: la
lotta per quella uguaglianza non può non implicare conflitto contro
chi opprime e asservisce altrui. Nessuna peggiore ingiustizia che
fare le parti eguali tra diseguali, insegnava don Milani. Per questo
la lotta contro chi organizza il consumo di una spropositata parte
dei beni della terra a favore di una minoranza cosiddetta
«civilizzata» può non essere «giusta» ma è necessaria. Ancora
una volta il conflitto è un «male» per un «bene» e per un bene
non garantito. Così l'uomo mosse armato di bastone contro l'alce o
il bufalo, sapendo la sofferenza cui si esponeva o che infliggeva,
nella speranza di sopravvivere alla fame. Bisogna scegliere.
Dal supplemento al
“manifesto” Le lezioni del golfo
N.8 – senza indicazione di data, ma 1991
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