1963. Una foto aerea documenta la vastità del disastro (Wikipedia) |
L'articolo, competente e in taluni passaggi brillante, che ho ripreso
dal sito dedicato ad Amadeo Bordiga, fu pubblicato in «Il programma
comunista», n. 20 del 1-15 novembre 1963. La critica radicale di due sacre leggi del capitalismo, la massimizzazione del profitto e la divisione del lavoro, mi sembra puntuale ed efficace. Il testo fu scritto in seguito
all'inondazione dei paesi circostanti la diga del Vajont, avvenuta la
notte del 9 ottobre 1963, con oltre 2.000 morti. (S.L.L.)
La diga del monte Toc, ormai cimelio, in una foto del 2013 (Wikipedia) |
Nella epopea patriottica
italiana il Piave aveva dal 1917 guadagnato il posto ed il titolo di
fiume nazionale. In quella che avrebbe dovuto essere la quarta guerra
di indipendenza, facendo fare alla Patria un balzo ulteriore oltre la
frontiera veneta ottenuta (non per gloria d'armi) nella terza, dopo
più di due anni di fronte inchiodato sull'Isonzo, dalle onde di
sangue di una dozzina di battaglie, il movimento si era invertito, e
con la rotta famosa di Caporetto gli Austriaci avevano dilagato nella
pingue pianura. Dopo alcune giornate di tremore in cui si credette
che li si sarebbe fermati sull'Adige o sul Mincio, al confine del
1859-66, riuscì (intuita solo dal mozzicone non del tutto scemo di
re che dirigeva la difesa) la battaglia di arresto sul Piave.
Imparammo tutti allora che si dice il Piave e non la Piave, dubbio
dei nostri anni di scolaretti. Il nome del fiume entrò nella poesia
più popolare e nella leggenda. Il vecchio rimatore napoletano E. A.
Mario, da poco morto, scrisse versi e musica che per un pelo non
batterono l'inno di Mameli per il posto di inno nazionale...
Ricordate l'ingenuo frasario?... «insieme ai fanti combattevan
l'onde...». Ancora un fiume personificato nella letteratura come
quelli classici, che difende la patria portando al mare torme di
cadaveri nemici... « il Piave mormorò: non passa lo straniero... ».
Ma ora il Piave ha
portato a mare migliaia di cadaveri italiani, travolti dall'onda
apocalittica del Vajont nella tetra notte tra il 9 e il 10 ottobre, e
ha perso il suo titolo di nobiltà. La sua leggenda era e resta una
leggenda di morte, e non vi è più gloria nel portare corpi di
combattenti che di pacifici civili sorpresi nel sonno. Allora furono
immolati ai non mai sazi di sangue numi della guerra, oggi a quelli
della moderna civiltà capitalistica borghese e patriottica, e
soprattutto adoratrice della sua scienza e della sua tecnica. Non da
oggi abbiamo il desiderio di disonorare, insieme alle deità
assassine della guerra tra i popoli, queste non meno infami di una
civiltà che si corrompe e decade di anno in anno.
In « Prometeo », II
serie, n. 4, del luglio-settembre 1952, dedicammo al tema un
articolo: Politica e costruzione, che, tra vari esempi di
disastri mortali costituenti vere bancarotte della tecnica
scientifica, ricordava alcuni casi di inondazione e citava esempi
storici di dighe di contenimento dei bacini montani, ricordando il
corso di questa arte a partire dai Mori di Spagna e da Leonardo fino
alle carenze organizzativi dei moderni servizi idraulici, nel tempo
del grande capitale e delle mostruose imprese di costruzione.
Nel 1959 vi fu in Francia
la paurosa catastrofe del Fréjus che tuttavia, malgrado il cedimento
della diga, che nel bacino del Vajont non si è avuto, fece meno
vittime della recente catastrofe italiana. Fin da allora trovammo un
responsabile, un imputato da trascinare sullo scanno dei rei, ma non
alla maniera dei politicanti sciagurati dell'opportunismo demagogico:
era il Progresso, questo mito bugiardo che fa curvare davanti a sé
le schiene dei poveri di spirito e degli umili affamati, pronti a
giurare fede in questo Moloch che ogni tanto e un poco ogni giorno li
stritola sotto le ruote del suo osceno carro.
Il crollo della diga di
Malpasset, al Fréjus, che fece oltre 400 vittime, fu commentato
sulla rivista del PC Int. «Programme Communiste» nel numero
10 del gennaio 1960, e l'articolo (Fatalità sociali) venne
tradotto in italiano in «Il programma comunista», n. 4 del 27
febbraio-10 marzo 1960. Nel disumano sistema del capitale, ogni
problema tecnico si riduce ad un problema economico di premio che si
ottiene riducendo i costi e alzando i ricavi. Le antiche civiltà
preborghesi avevano qualche tempo residuo per pensare alla sicurezza
e all'interesse generali.
Come ricordammo per la
diga del Fréjus, anche quella era un capolavoro della tecnica ultimo
grido, era leggera, sottile e agile e con un limitato numero di
tonnellate di cemento ed acciaio aveva infrenato un volume
astronomico di acqua nel bacino a monte. Ma già gli antichi
costruttori sapevano che le dighe erano a gravità, ossia in tanto
reggevano la formidabile spinta liquida in quanto pesavano
enormemente e non si ribaltavano. Ricordammo che dopo alcuni disastri
in Spagna, e in Italia del Gleno (1923), si era modificata la teoria
tenendo conto anche di una spinta idrica, da sotto in sopra, dalla
base della diga; e queste erano divenute più corpulente e stabili.
Ma le
modernissime dighe hanno
ubbidito (ha ubbidito una scienza venale) alla esigenza santa del
basso costo e si fanno, come nel Fréjus e nel Vajont, ad arco, ossia
con una curvatura che volge il tergo all'acqua spingente e scarica
sulle spalle incastrate nei due fianchi della valle interrotta. La
diga diviene così meno voluminosa, meno pesante e di minor costo, e
si fa coi materiali di massima resistenza. Ma allora la pressione
delle due spinte sui fianchi di imposta cresce a dismisura, perché
dipende dalla pressione di acqua a tergo: che è tanto più tremenda
quanto più alta è la diga. Permettendo gli ottimi materiali di
assottigliare la diga e quindi le spalle di essa, la pressione sulla
roccia naturale è immensa, ed il problema non è più quello,
dominabile, di proporzionare l'arco di cemento armato alla spinta
(che non si può ridurre), ma di prevedere se i fianchi rocciosi non
si stritoleranno lasciando rovinare la diga ad arco. Questo fu
l'errore al Fréjus, anche allora non sbagliarono gli ingegneri
meccanici ed idraulici; ma si disse i geologi che erano stati
chiamati a giudicare della solidità della roccia.
Il primo problema può
essere meglio seguito da calcoli matematici, siano essi fatti da un
valente teorico o da una macchina elettronica, mentre il grande
teorico consuma dietro di essa pochi pacchetti di sigarette. Può
essere verificato con opportuni modelli in iscala, in un laboratorio.
Il problema geologico non
è da calcoli da fumoir o da gabinetto di prove. È un problema di
lunga esperienza umana sulla prova che hanno fatto i manufatti
storici. Esperienza umana e sociale. Tutta la moderna ingegneria in
quanto fa manufatti non tascabili o automobili, ma opere fisse alla
crosta del pianeta, ha il suo problema chiave nel rapporto fra
terreno e costruzione (per una umile casa la fondazione) e non ci
sono formule che valgano per ogni caso, ma molteplici mezzi di arte
tra cui si può scegliere avendo una sudata esperienza, e non basta
prendere stipendi da tre milioni al mese per fumare dietro la
calcolatrice elettronica.
Questa esperienza si è
accumulata in secoli. Chi crede al progresso e alla facezia che
l'ultima trovata della scorsa stagione compendia tutto il senno dei
tempi, può trovare il ricco stipendio, ma fa succedere i disastri,
la cui statistica moderna, ma essa sola, è in progresso. La stessa
tradizione popolare tra le masse incolte, la stessa toponomastica
possono aiutare l'esperto geologo (se davvero toccasse a lui), ma
piuttosto il valente ingegnere. Perché mai la stretta di Fréjus si
chiamava del Mal passet? il malo passo davvero. Il monte che
fiancheggiava il lago artificiale e che è franato in esso facendolo
debordare paurosamente, perché si chiamava monte Toc? In veneto Toc
vuol dire pezzo; era roccia che veniva via a pezzi, e tutti i
valligiani aspettavano la frana. Vajont, nome che prima che del lago
artificiale era del passo, dell'orrido in cui si è incastrata la
diga di 263 metri (primato di tutti i paesi e di tutti i tempi!), in
dialetto ladino friulano vale il veneto va zo, va giù, che viene
giù, che rovina a valle. Infatti si è parlato di frane storiche, su
cui poi hanno poggiato i poveri abitanti.
Il geologo Gortani, nello
smentire sdegnosamente che alla scelta del luogo per la diga avesse
dato mai assenso, ha detto che la decisione competeva agli ingegneri.
Esattissimo. La filosofia delle due tragedie del Malpasset e del
Vajont (fra tante altre) è una sola.
Alla base di queste
attuazioni temerarie, dettate e imposte dalla fame di profitto, da
una legge economica cui devono chinarsi il terrazziere, il geometra e
l'ingegnere dirigente, e per cui è rimedio sciocco trovare con le
inchieste quello da condannare, sta il più idiota dei culti moderni,
il culto della specializzazione. Non solo è disumano trovare il
capro espiatorio, ma è vano, quando si è lasciata sorgere questa
insensata società produttrice fatta a compartimenti stagni. Nessuno
sarà colpevole, perché, messa un momento la testa fuori della sua
bendatura a paraocchi, potrà dire di aver riposato sul parere di
quello del compartimento vicino, che era lui l'esperto, lo
specializzato, il competente.
La scienza e l'arte del
produrre e soprattutto del costruire saranno nella società del
futuro, che abbia ucciso il mostro del rendimento economico, della
produzione di plusvalore, unitarie e indivise. Non la testa di un
uomo, ma il cervello sociale, al di sopra di stolti compartimenti
stagni, vedrà senza paraocchi di comodo la vastità di ogni
problema.
Si è letta una
presentazione dell'ingegnere che per 30 anni perseguì il sogno di
fare la diga del Vajont. Il valentuomo è morto e non ha bisogno
della nostra difesa. Egli era suggestionato dal fatto, puramente
morfologico, che con poca diga si poteva fermare moltissima acqua, e
che non vi era un posto con un migliore rendimento a pari spesa. Una
vittima del determinismo inesorabile.
Nel suo commento l'ing.
Semenza si stupiva che, vedendo la diga fatta, si potesse pensare che
ci erano voluti trent'anni di sviluppo della sua idea di partenza.
Non sospettava che il lungo tempo potesse dipendere dal dubbio sulla
buona scelta. Gli pareva che il lavoro fosse stato bene diviso tra i
settori protetti dal diritto di non sapere né volere controllare le
conclusioni l'uno dell'altro. In questa illusione, che non è una
colpa e tanto meno un delitto punibile «in committendo» o «in
omittendo», sta la onnipotenza, più forte di tutti e anche del più
grande ingegnere, della moderna capitalistica superstizione della
divisione del lavoro, che Marx primo condannò, e la sola rivoluzione
ucciderà. L'innocenza del progettista si legge nelle sue parole:
«centinaia, migliaia di persone, scienziati, ingegneri, operai di
tutte le specializzazioni, hanno lavorato alla realizzazione di
questa diga che avrebbe sbarrata la stretta e profonda forra del
torrente Vajont. Orrido del Vajont, come lo chiamano certe guide
turistiche, tanto la natura è impervia e inospitale». Nessuno oggi
pensa che potrebbe avere ragione l'agente di turismo, dato che fa
soldi facendo ammirare la stretta forra, e non collaborando alla
diga... «Fra i primi gli idrologi» che misurando le piogge e le
portate dei corsi d'acqua permettono di «risalire al volume delle
acque che verranno trattenute nel serbatoio formato dalla diga». «Su
in alto il geologo esamina a fondo le caratteristiche della roccia,
confortato dalle più moderne (dalli!) ricerche geofisiche». «Il
topografo, intanto, precisa con esattezza millimetrica (gergo di
moda!) la configurazione della valle, arrivando a stabilire
perfettamente i contorni».
Omettiamo i dettagli
sulla progettazione o le progettazioni, le 90 ore di calcolatrice che
hanno risparmiato anni di lavoro di una squadra di matematici, la
storia delle verifiche sui modelli in legno prima, poi in cemento...
Un solo passaggio ci interessa, quello che si riferisce alla
ineluttabilità della determinante economica. « Il progetto tra i
tanti adottato, che risale al 1956, sfrutta completamente le
caratteristiche della valle che sembra fatta apposta per costruirvi
uno sbarramento di dimensioni eccezionali». La valle era fatta
apposta per essere sfruttata, e se non ci fosse stata... bisognava
inventarla. Con la scienza, la tecnica e il lavoro, l'uomo sfrutta la
natura? Non è vero, e il rapporto intelligente tra uomo e natura
nascerà da quando non si faranno questi conti, e calcoli di
progetto, in soldi, ma in grandezze fisiche, ed umane.
Sfruttare si può dire
quando un gruppo umano sfrutta l'altro. Con le costruzioni grandiose
del tempo mercantile gli sfruttati si rendono solidali con la
intrapresa sfruttatrice. A Longarone era stata impiegata tanta gente
ed era piovuto tanto oro. L'ingegnere doveva rispondere, se faceva
piovere oro? È vero che una maestranza ha scioperato per l'evidenza
del pericolo di frana, ma è anche amaro insegnamento quello
dell'operaio che, allontanato dal geometra votato alla morte perché,
claudicante, non ce la avrebbe fatta a fuggire in caso di allarme, si
è violentemente ribellato. Quando la paga è alta, il rischio della
vita umana è l'aria normale che la società del danaro e del salario
respira. Tutta la valle ha rischiato ed è morta. La soluzione di
questo problema i comunisti in commercio non la troveranno mai col
metodo «democratico ».
Sono soluzioni sciocche a
queste tragedie che mostrano solo che la società borghese e
pecuniaria, di iniziativa privata e di mercato, sopravvive alle
ragioni della sua storia, e ormai è un cadavere più putrefatto di
quelli di cui ha seminato il Piave quelle agitate dai giornali
nutriti di una bolsa demagogia piccolo borghese, che forse un secolo
addietro poteva essere ammessa, e che chiede giustizia, onestà, e
pene per quelli che sbagliano o truffano.
Socialmente e
politicamente ci separiamo da quanti chiedono, in nome dei morti che
hanno rischiata la vita perché una società iniqua desse loro la
sola civiltà che possa elargire, le tre procedure risibili.
L'inchiesta amministrativa, disposta dai ministri che hanno le mani
in pasta, e demandata a professori di università, ligi al sistema
della responsabilità di settore, per cui si ha il diritto di non
sapere «la materia degli altri » in questo sistema burocratico,
scolastico e carrieristico che ci affoga.
L'inchiesta parlamentare,
in cui un gruppo di gente di nessuna preparazione, di ideologie
contrastanti, salvo quella della brama del successo e dell'arrivismo
politico che è lo stesso dall'estrema destra all'estrema sinistra,
studiano quello che non capiscono e poi fanno votare l'assemblea dei
«politici», ossia di quelli che per primi dovrebbero andare al
macero per liberare la società umana.
La magistratura, che sa
il suo mestiere nell'applicare un codice inchiavardato nella
tradizione e nell'ultima costituzione, buono per il ladruncolo di
poche lire e per il funzionario che in questo caso, solo ad andare
dentro, aveva reso pubblico «rubandolo» un documento che indicava
che il sospetto tecnico della diga era fondato ed antico.
Tre gradi diversi di
beffa, non per i morti, ma per i vivi che guardano ai partitacci e ai
giornalacci di tutti i colori, e affogano nella incoscienza dei loro
destini.
Che fare della diga?
Altro problema che l'ingranaggio dell'amministrazione burocratica e
democratica non potrà risolvere. La diga non è stata travolta, e
l'ing. Semenza se vivo, dal punto di vista del settore, sarebbe
innocente. Ma il problema era la stabilità dei fianchi della valle,
una volta che su di essi si era di colpo portata una pressione idrica
di 26 atmosfere. Nel fondo non vi erano alluvioni? Che scusa è
questa? Nella forra il filo liquido veloce dunque non depositava, ma
erodeva, creando nei secoli le condizioni che i topografi riferirono
al povero Semenza. Dunque la parete era friabile, certamente
permeabile, e sotto la grande pressione in strati che hanno potuto
cedere ha causato la frana del Toc.
Gli invasi successivi che
potevano dare un collaudo empirico, sono stati effettuati senza
collaudi e senza ordine dell'onnipotente Stato. La diga era troppo
alta. La relativa legge dovrebbe essere riformata dando un massimo di
altezza; poniamo meno di cento metri. Ma allora il ricavo
dell'operazione scenderebbe al disotto dei costi. Orrore! Non ci
rimetterebbe il monopolio, ma tutto il modo di mangiare di quelli che
ne dipendono, e lo stesso sarebbe se operasse direttamente lo Stato.
Il riformismo, non solo
in Italia, ha questa bandiera; fatta la legge, trovato l'inganno. Un
vecchio ingegnere che è per l'antica laurea in grado di capire
geologia, topografia e meccanica costruttiva, ha detto che ora la
diga potrebbe crollare. Dietro di essa non vi è acqua ma una fase
mista di acqua e terra (fango e melma) la cui spinta per il maggior
peso specifico può risultare più forte. Qui non ci sono modelli che
tengano! Il caso è troppo indeterminato e vanno buche anche le
calcolatrici.
Il bacino del Vajont è
diviso in due dalla colossale frana il cui volume supera quello
dell'acqua che conteneva, una collina che esce dal pelo d'acqua di
centinaia di metri. Ma il minore lago rimasto contro la diga può
generare la pressione indicata dal vecchio ingegnere di cui sopra.
Tutto dipende dall'altezza, che è la totale, e dalla densità della
melma, che starà decantando. Il bacino va vuotato, non sfondando la
diga a cannonate, ma attuando dei sifoni a cavallo di essa, in
sostituzione dei dispositivo che il disastro ha annientati, e
rinunziando alla energia potenziale che le turbine potrebbero, se
funzionanti, sfruttare.
Non crediamo che il
Consiglio superiore dei lavori pubblici abbia potuto decidere che il
muro resti come sostegno (?) di un lago alpino. Quella fogna di morte
non è un lago alpino. I laghi si sono formati nell'epoca glaciale
tra fianchi di roccia abissale incrollabile e con un modesto
sbarramento di naturali colline moreniche. Il loro collaudo lo ha
fatto Madre Natura in milioni di anni, e non una Commissione tecnica!
L'uomo, è certo, vincerà
la natura. E lo farà grazie ad una scienza, una tecnica ed una
amministrazione, che non si affitteranno a nessuno. Prima di piegare
a noi la natura, dovremo aver piegate le sinistre forze sociali che
ci schiavizzano peggio di milioni di metri cubi di pietre sepolcrali,
e che mettono il responso degli esperti di oggi sotto la condanna dei
lauti compensi e dei profitti esosi. Dobbiamo arginare le frane non
di acque e terra; ma di schifosissimo oro.
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