Giulio Ferroni scrisse
per “l'Unità” sul finire del 2007, in occasione della
pubblicazione di un Meridiano dedicato allo scrittore toscano, il
profilo di Mario Tobino che segue, centrato sul Diario fino ad
allora del tutto inedito. A sottolineare la grandezza di Tobino è
peraltro la circostanza che il suo romanzo corale sulla Resistenza,
Il clandestino, molto bello,
non sia compreso nelle Opere scelte:
l'esclusione è discutibile e tuttavia vuol dire che
nell'opera del medico scrittore c'è da scegliere. (S.L.L.)
Mario Tobino |
Per Mario Tobino, medico
e scrittore, appassionato della vita in tutte le sue forme, radicato
nella più viva tradizione popolare toscana e versiliese, scrivere è
stato sempre un modo di essere dentro un mondo vivo, di dar voce ad
una realtà in movimento, piena di vite, di esperienze, di passioni:
in un senso della vita che non ha nulla a che fare con il
programmatico vitalismo di tante rovinose ideologie novecentesche, ma
che si radica nel riconoscimento della concretezza dei rapporti,
degli incontri con gli esseri umani e con le cose, nel confronto
essenziale con le necessità della vita materiale, nell'impegno a
riscattare la dignità umana entro l'inesorabile fluire delle leggi
naturali, tra tensione morale e ricerca di una bellezza semplice e
vigorosa, senza aloni sentimentali o estetizzanti.
Nella sua aperta e
avventurosa disponibilità ad entrare in rapporto con gli altri, ad
una diretta immersione nelle cose, Tobino è stato scrittore «antico»
e popolare, ma lontano da ogni culto del «primitivo» e da ogni
populismo, spregiudicatamente e toscanamente laico: nei suoi libri si
sente ancora il pulsare vivo di quella «umile Italia» di cui
Pasolini lamentava la fine, un'Italia toccata subito in
un'adolescenza vissuta insieme ai ragazzi di Viareggio, sofferta
nelle esperienze della guerra e della Resistenza, osservata nei suoi
esseri più deboli nella lungo lavoro di psichiatra nel manicomio di
Magliano, in un esercizio di attenzione alle vite concrete dei
malati, di partecipazione diretta alla loro esperienza (e il valore
da lui attribuito al rapporto quotidiano e «comunitario» dello
psichiatra con i malati di mente lo portò ad un atteggiamento
polemico nei confronti della legge Basaglia e della chiusura dei
manicomi).
Questo scrittore così
vigoroso, che non può essere ricondotto a nessun gruppo letterario,
che si è affidato sempre alla propria energia incontenibile,
indifferente ad ogni proposito programmatico, ha qualcosa di
«classico», per la severa spontaneità con cui dice sempre quello
che ha da dire: estraneo alle teorie e alle disintegrazioni della
scrittura novecentesca, alla sua ossessione del negativo, nella sua
scrittura avverte il pericolo che grava sul mondo vivo e concreto che
egli ama, ma senza ripiegamenti elegiaci, anzi con la persistente
felicità di chi quel mondo lo ha abbracciato fino in fondo, di chi
se ne è fatto sostanza e corpo personale.
Occasione di una nuova
attenzione all'opera di Tobino può essere data dall'uscita del
Meridiano a lui dedicato, curato ottimamente da una giovane
abilissima filologa come Paola Italia (Opere scelte, Mondadori
2007), con due introduzioni, una di Eugenio Borgna (A tu per tu
con la follia), che mette in luce i caratteri della psichiatria
di Tobino, la sua attenzione alle «strutture di significato» della
follia, la sua disponibilità a confrontarsi con le motivazioni
esistenziali dei malati, e una di Giacomo Magrini (Partigiani di
mare), che insiste con sottigliezza sul rapporto dell'autore con
gli «eterni della realtà». Alle introduzioni segue, come è
costume dei Meridiani, una ricchissima Cronologia, elaborata
dalla curatrice, fitta di dati informativi di prima mano. Sono
presenti poi i testi delle maggiori opere narrative di Tobino, quasi
tutte sospese tra romanzo e autobiografia, costruite sulla
trasposizione romanzesca di esperienze personali vissute con
integrale partecipazione, come è il caso dei libri dedicati
all'attività psichiatrica (qui Le libere donne di Magliano,
del 1953, e Per le antiche scale, del 1972: e peccato che
manchi l'amaro Gli ultimi giorni di Magliano, del 1982, sulla
fine di quella lunga esperienza), del libro sulla partecipazione alla
seconda guerra mondiale apparso ne «I gettoni» di Vittorini, Il
deserto della Libia, del 1952, di quello sulla morte della madre
e sul destino della sua famiglia, La brace dei Biassoli, del
1956. Di eccezionale densità sono le Notizie sui testi, con
cui la curatrice fornisce articolatissime informazioni sulla genesi,
la redazione, la storia editoriale delle varie opere. Sia qui che
nella Cronologia Paola Italia ha avuto modo di appoggiarsi su
fitto materiale d'archivio e soprattutto sui quaderni autografi
custoditi presso gli eredi di Tobino, che contengono, oltre a
materiale preparatorio per i romanzi poi pubblicati e a testi
inediti, un vastissimo Diario, che occupa 101 quaderni e
procede dal 4 marzo 1945 al 17 luglio 1980.
L'uso di questi autografi
costituisce in effetti la grande novità del Meridiano: e oltre a
servirsene variamente per la Cronologia e per le Notizie
sui testi, la Italia pubblica, in appendice al testo de Le
libere donne di Magliano, un Quaderno, in cui l'autore
discute animatamente le reazioni suscitate dal libro specialmente
nell'ambiente del manicomio, e, come esempio e anticipo del Diario
(in vista di una sua più ampia pubblicazione), le pagine del 1950.
Il Diario
costituisce in effetti una sorta di serbatoio dell'intera esperienza
di Tobino, zibaldone personale da cui sono scaturite man mano alcune
delle sue opere fondamentali: la messa in scena dell'esperienza
personale rivela la fonte e la ragione prima del suo scrivere, del
diretto rapporto che egli istituisce tra vita e scrittura. E già
queste pagine del 1950 mostrano in più punti la forza
dell'investimento personale con cui egli affrontava una scrittura
scandita nel ritmo dei giorni, fatta di umori, di disappunti, di
rabbie, di entusiasmi, di scatti opposti, di vitale allegria e di
cupa malinconia. Nel Diario egli stesso credeva di vedere la
sua opera «migliore», proprio perché rivolta a «ristabilire
l'uomo», a farsi voce del vissuto, «uguale alla natura,
all'architettura dei fiumi, del mare, alla cerchia dei monti che cova
una pianura». E al diario affidava tutti gli eccessi della sua
vitalità, con la sua ricerca di grandezza, di bellezza, di umanità
autentica e palpitante, il suo amore per l'Italia («il paese dove a
ogni secondo prorompe la vita»), pur capace di dargli «nausea» per
la viltà, la paura, la mediocrità, l'insulsaggine che il nostro
paese accoglieva (e accoglie) dentro di sé.
Il suo io si impone qui
in piena, assoluta evidenza, con le sue qualità e i suoi difetti,
con un'esibizione di valore personale, contro gli uomini «piccini»,
contro un nemico abitato da «una marea di mediocri e vili». Ma
Tobino si offre pienamente al mondo nell'atto stesso di accamparvi
tutto se stesso, vuole entrare dentro il cuore del mondo e farlo
proprio: il suo puntare sull'io non coincide con quel narcisismo che
ha aduggiato e aduggia tanti intellettuali contemporanei, ma fa
pensare piuttosto all'egotismo di un autore da lui tanto amato e a
cui più volte si riferisce in questo Diario del 1950, il
grande Stendhal.
Formidabile ad esempio
questa notazione, che, specchiandosi nel veloce destino dell'autore,
della sua vita trascinata via dal tempo, ne afferma la singolare
energia poetica: «La vita di Stendhal è un lampo, come la mia. Non
ha avuto tempo di fare nulla, avendo meditato tutto. Come il fiume è
fuggita. È la vita che mollemente scivola via. Ha rincorso sempre,
ciò che non si afferra. Finalmente un completo poeta». La passione
per Stendhal conduce ad una sfida all'impossibile ritorno del tempo:
«Come vorrei che Stendhal fosse vivo per vedere che aveva ragione».
E il tempo si proietta anche verso un sogno d'amore in un impossibile
futuro: «Se è una fanciulla, fra trecento anni, esca i seni dalla
stoffa che li ricopre e me li mostri e mi dica: o ombra, o antico
morto, amerei te se ora tu fossi vivo, ti farei vedere in questo
silenzio la mia bellezza, hai tanto amato la vita che io amo te che
lo meriti, sono la più bella di questa città».
Con Stendhal Tobino
condivide la disposizione all'eccesso, l'abbandono fulminante alla
bellezza, all'amore, all'indignazione, l'energia deformante nei
giudizi sul mondo, l'adesione alla vita sociale e l'opposizione ad
essa: aggiungendo una particolarissima coloritura popolare e toscana.
Spirito anarchico e laico, egli scommette tutto se stesso in ogni
momento e in ogni situazione dell'esistenza, con una schiettezza
provocatoria e con qualche esito di maschilismo molto poco
politically correct. Ma davvero impagabili in questo Diario
del 1950 sono certi eccessi, proiezioni del mondo sulla misura
dell'io, fino al limite del paradosso. Ecco così un uso tutto laico
ed energetico dell'anno santo 1950, che culmina in San Pietro
nell'esaltazione per Michelangelo («è lui che inconsapevolmente
viene adorato dalla moltitudine, è la sua tragedia davanti al
mistero dell'uomo che fa inchinare la moltitudine», mentre il papa
sembra «un povero vecchietto, un uccellino caricato a molle e
trasportato su quella sedia, un fuscello in un mare»).
E così Tobino prende di
petto gli scrittori italiani a lui contemporanei, con giudizi
impietosi e taglienti: entro il Diario del '50 inserisce una
sua bislacca storia letteraria del ventennio fascista, con frecciate
in più direzioni che non sono semplicemente frutto di maldicenza da
outsider, ma risalgono proprio a quel suo esplosivo egotismo,
sono segno di una intolleranza verso i riti del mondo letterario
ufficiale, verso i modelli critici assestati, verso gli atteggiamenti
programmatici che pretendono di filtrare l'inafferrabile autenticità
della vita. Così, pur riconoscendone il carattere parziale ed
eccessivo, non semplicemente malevole appaiono tante battute, come
quella sugli ermetici fiorentini che «si beano del nulla
caramellato, dell'aridità mascherata di astruseria», o quella sul
critico che «parla sempre di Foscolo, il quale se fosse in vita dopo
che lo avrebbe preso a calci per due chilometri non lo direbbe a
nessuno vergognandosi di aver faticato i muscoli per un simile
limitato», o quella su Moravia «sempre indaffarato a sciorinar
segatura», ecc.
Ma con questi esagerati
giudizi Tobino afferma la sua sconfinata passione per la vita, la sua
richiesta pressante di una letteratura che afferri in sé l'energia
guizzante del tempo che scorre, che dia voce all'amore e al dolore,
che si affidi alla bellezza senza stare a guardare la propria ombra.
Passione certamente «contro tempo» quella di Tobino, nemico giurato
delle complicazioni intellettualistiche della cultura del Novecento,
delle infinite torsioni del negativo, del vario aggregarsi degli
scrittori in gruppi, tendenze, conventicole. Ma proprio da questo suo
essere «contro tempo» e dal singolare egotismo che l'accompagna è
scaturita la sua capacità di ascolto del mondo che ha attraversato,
della follia dei suoi malati e dell'Italia da lui intensamente amata.
L'Unità 27 Dicembre 2007
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