30.11.14

Franco Fortini, la letteratura alla luce della Rivoluzione (Massimo Onofri)

Non sono stati in molti a ricordare l'altro ieri i venti anni dalla morte di Franco Fortini. Tra le commemorazioni reperibili in rete spicca questa, di un critico di valore, Massimo Onofri, che si svolge sul filo di una contraddizione: “Fortini non si spiega senza la rivoluzione / Fortini ha molto da dirci anche dopo il crollo dell'utopia rivoluzionaria”. Articolo bello, con molti spunti da approfondire. (S.L.L.)
Anni 50 del Novecento. Franco Fortini all'Olivetti 
Parlando, nel 1978, d’un libro come Questioni di frontiera, Cesare Garboli scriveva: «Se c’è un luogo dove non vorrei entrare neppure per tutto l’oro del mondo, questo è la mente di Franco Fortini». E aggiungeva, in un articolo che ora si può leggere in Falbalas (1990): «Le sorprese del suo ingegno non amano la luce. Avvengono nel buio, all’ombra. Essere inaccessibile come l’ombra, inabitabile come l’oscurità e la tortuosità, ecco ciò che Fortini desidera». Una mente irta e inospitale, se non inaccessibile, che coltiva consapevolmente la tortuosità: L’ospite ingrato (1966, che poi diventerà, nel 1985, Primo e Secondo) s’intitola, appunto, quel notevole zibaldone ove trovano asilo anche alcuni suoi memorabili epigrammi. Eppure, proprio in quegli anni, erano in tanti che, quella mente, si provavano ad abitarla, convinti di farlo, se non con comodità, almeno con profitto.

Cultura e politica. A vent’anni dalla morte di Franco Lattes – l’ebreo che aveva mutato il cognome in Fortini e s’era fatto valdese – si può dirlo con una certa sicurezza: non era possibile, per chi si muoveva da protagonista nel dibattito del secondo Novecento, soprattutto quando ci si richiamava al nesso tra cultura e politica, schivare un confronto con lui, non importa se per respingerne il comunismo totalizzante e messianico, vissuto nei modi d’una ortodossia che era solo del sentimento, o per restare suggestionati, invece, dalla sua eresia militante, in pendolarismo tra Brecht e Adorno.

Tra Sereni e Pasolini. Non parlo dei poeti: l’amico Vittorio Sereni o il distonico Attilio Bertolucci, che di Fortini spesso, per lettera, discutevano. Ma degli intellettuali: i cruciali rapporti con Giacomo Noventa e Pier Paolo Pasolini, del resto, sono noti, e quelli con Pasolini testimoniati da un libro imprescindibile come Attraverso Pasolini (1993). E non vorrei dimenticare Paolo Volponi, Giovanni Giudici e Andrea Zanzotto. Ma, in discendenza, penso, a destra, agli scambi con l’altro olivettiano, Geno Pampaloni, e, a sinistra, all’egemonia che esercitò sul gruppo di “Quaderni piacentini”: Piergiorgio Bellocchio, Grazia Cherchi, Goffredo Fofi, Giovanni Raboni, Giovanni Jervis, tutti nel comitato di direzione, con Cases che s’affacciava tra i collaboratori. Né vorrei tacere dell’influenza che ebbe sul massimo dei nostri critici formali, Pier Vincenzo Mengaldo. Speciale resta il caso di un altro piacentino, Alfonso Berardinelli, che a Fortini, nel 1973, dedicò una monografia d’adesione che ebbe molto successo, ma che da Fortini prestò s’allontanò, in direzione d’un empirismo libertario e individualista, che, se mi si consente il neologismo, all’oscurismo ideologico di Fortini preferì presto la comunicatività laica di George Orwell e di Nicola Chiaromonte.

Presente alienato. E’ stato proprio Berardinelli a dirlo meglio di tutti: senza rivoluzione, Fortini non si spiega. E questo non vale solo per il saggista e il critico, ma anche per il poeta e persino per il traduttore. Essere fedeli alla rivoluzione significava anche giustificare la volontà di non essere capiti nel presente alienato per essere compresi nel futuro liberato, quasi che il nocciolo razionale dei suo discorsi potesse finalmente essere estratto dal suo guscio mistico e estraniato: come gli venne da rispondere a Goffredo Parise il quale, nella incomprensibilità linguistica di Fortini vedeva invece l’antidemocratica arroganza del Potere, il perenne latinorum di don Abbondio.

Extrema ratio. Sicché la domanda resta ineludibile: implosa l’idea stessa di rivoluzione, cosa potrebbe restare oggi di Fortini? Sarei tentato di dire che l’utopia comunista fu il suo piranesiano carcere d’invenzione. Ci fu forse qualcuno che, meglio del Piranesi carcerario, seppe contemplare e ritrarre le rovine del suo presente, avvertirne il che di atroce e feroce? Possiamo metterla anche così: il futuro della rivoluzione, sempre procrastinabile, e fissato nel suo eterno non-essere, consiste esattamente in quella luce, algida e inesorabile, che ci permette di vedere più lucidamente il presente per quel che è, gelido e livido, irredimibile e tristo. Dentro una condizione perfettamente espressa dalla climatica ostile, diciamo così, di certi suoi titoli agonistici: Dieci inverni (1947-1957). Contributi ad un discorso socialista (1957); Poesia e errore (1959); Questo muro (1973); Paesaggio con serpente (1984); Insistenze (1985); Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine (1990); Composita solvantur (1994).

Movimento dialettico. Insomma: se il futuro s’accampa utopicamente come totalità, quella di un’umanità finalmente integrale, non più scissa, il nostro oggi lacerato e contraddittorio, infelice e irredento, potrà essere compreso sino in fondo solo se interpretato dialetticamente. Ogni dettaglio andrà così sempre messo a sistema, qui e ora, con vigile pazienza e tenacia, dentro un ostinato allarme di coscienza, senza sconti per nessuno, a cominciare da se stessi: perché è nella Storia che troverà la sua verità. Fortini non ha dubbi: «Svolgere il discorso critico vuol dire allora poter parlare di tutto a proposito di una concreta e determinata occasione. Il critico allora è esattamente il diverso dallo specialista». Ecco perché, se il presente è questo inferno di dolore e sopraffazione, la letteratura, che lo riunifica in sé, si paleserà, contemporaneamente, come verifica quotidiana e come anelito di salvazione.
Crollata l’utopia, gli assilli di Fortini ci possono ancora essere di aiuto? Credo di sì: perché della sua critica a una coscienza falsa, acquietata e serva dello status quo, abbiamo ancora bisogno. Almeno come imperativo etico.


La Nuova Sardegna, 28 novembre 2014

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