Città cosmopolita d'oro
e di porpora, di cupole che si stagliano sull'intenso azzurro del
cielo, di edifici imponenti e magnifici culminanti nel Palazzo
imperiale, di un sole smagliante che rimbalzava sulle vesti e sul
diadema dell'imperatore facendone un altro sole, di fastose cerimonie
di corte, di ostentazione del lusso dell'aristocrazia, di atelier
di arti suntuarie e di botteghe di oggetti raffinati, di incontro di
diplomazie dalle molte lingue, Costantinopoli è stata identificata
per secoli con Bisanzio, fino ad una equivalenza totale, confortata
dalle stesse élite che ai vertici del potere civile ed ecclesiastico
videro sempre nella capitale dell'Impero il polo di attrazione unico,
fino a considerare «barbare» le regioni periferiche che pur dello
stesso impero facevano parte.
Costantinopoli, la città
che Costantino aveva voluto sul Bosforo nel secolo IV come nuova
Roma, era certo la capitale in cui, fino alla sua caduta nel secolo
XV, si svolgevano udienze e processioni imperiali impressionanti per
messa in scena e sfarzo, il centro di una burocrazia centrale
occhiuta, il crocevia di transito e di miscuglio di schiavi, eunuchi
e ricchezze, il salotto di dotti e di circoli eruditi: la sede,
insomma, nella quale si elaboravano i modelli politici, religiosi,
culturali, artistici che sono a fondamento della civiltà bizantina.
E tuttavia la coincidenza tra l'impero di Bisanzio e Costantinopoli
si dimostra sempre più fuorviante. La capitale rischia di diventare
l'albero alto, ramificato e fronzuto che finisce con il nascondere
dietro di sé l' intera foresta delle realtà bizantine. E a queste
realtà, che meglio si colgono nelle regioni eccentriche dell'Impero,
dove non sono offuscate dallo splendore della capitale, si è voluta
dedicare larga parte del XX Congresso internazionale di Studi
bizantini, che si aprirà domani a Parigi (Collège de France, 19-25
agosto).
Una di queste realtà
sono le campagne, con i loro villaggi di una trentina di nuclei
famigliari, i loro casali, le loro sperdute abitazioni contadine, e
con l' assillo del raccolto e la persecuzione del fisco, più leggero
soltanto per chi prestava servizio militare. Nel secolo IX l'
imperatore Leone VI asseriva che due erano i pilastri dello Stato: i
contadini che allevavano i soldati, e i soldati che difendevano i
contadini. Questa campagna era cristiana nelle sue credenze e nei
suoi riti, ma le cerimonie liturgiche non erano quelle metropolitane
di Santa Sofia sfavillante di ori e di luci, ma le officiature entro
chiesette anguste; e le icone non erano oggetto di disquisizioni
teologiche sottili degli intellettuali di Costantinopoli, ma rozze
tavole dipinte con immagini come quella di San Giorgio, il santo che
rendeva fertili i campi, ingrassava gli animali o li faceva
miracolosamente rinascere dalle ossa spolpate.
Un'altra realtà che va
scandagliata meglio è il monachesimo, che proprio fuori della
capitale aveva la sua maggiore presa e i suoi insediamenti più forti
e vitali. Si pensi al Monte Athos, la città monastica. Si giunge da
Ouranopolis; e i monasteri sono ora a strapiombo sul mare, ora sul
pelo dell' acqua, ora all' interno, collegati da acque spesso
tempestose o da sentieri sassosi e ripidi. Le celle sono semplici e
austere, le pareti bianche e il pavimento di pietre lastricate.
Teorie di vesti nere e di barbe lunghe segnano il luogo, scandito dal
suono del symandron (uno strumento di legno a percussione) che
chiama agli uffici e ai canti liturgici fin dalle prime ore dell'
alba. Era in questi monasteri che si ritiravano quanti volevano
fuggire il mondo, o coloro che scampati alla morte in quel giardino
dei supplizi che era la giustizia imperiale restavano mutilati, o
ancora quanti giunti alla fine della vita vi andavano a morire in
pace con il Signore. Il monachesimo ha attraversato tutta la
geografia e tutta la storia di Bisanzio.
Realtà complessa sono i
santi non integrati nella vita urbana: i santi stiliti che si
ritirano a vivere su colonne sempre più alte, e che accecati dal
sole e bagnati dalla pioggia muoiono anoressici e rinsecchiti tra
folle oranti; i santi erbivori, che vagano nudi nelle campagne
nutrendosi come bestie; i santi anacoreti, ricurvi in grotte tanto
anguste da impedire qualsiasi altra posizione del corpo; i santi
«folli in Cristo», che inscenano gesti estremi e deviati per
proclamare la violenza del sacro.
Realtà, infine, è una
cultura che non è solo quella classica delle élite di
Costantinopoli. Da sempre Bisanzio è stata ritenuta il tramite dell'
antica cultura classica, la depositaria di Omero e Pindaro, Sofocle e
Aristofane, Erodoto e Tucidide, Lisia e Demostene, e di tanti altri
autori antichi. Ma questa cultura era appannaggio di una casta
privilegiata di letterati o eruditi e di uomini di governo, e restava
tutta concentrata in ristretti circoli della capitale. La cultura più
autentica di Bisanzio era quella dell'individuo mediamente istruito,
com' era un Cecaumeno, un generale di provincia a riposo che in
gioventù non aveva frequentato scuole di retorica e che leggeva
libri di chiesa, cronache, trattati militari, e altri scritti assai
lontani dalle opere classiche o da quelle contemporanee prodotte
dall'aristocrazia delle lettere. E privilegiare Cecaumeno come
specchio della cultura di Bisanzio significa riconoscere una volta
per tutte che quest'ultima non fu né soltanto Costantinopoli né,
tanto meno, l' Atene del passato.
Corriere della sera, 18
agosto 2001
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