Un autoritratto di Egon Schiele (1914) |
Romanzare la vicenda di
un artista incarcerato è sempre pericoloso. Si rischia di mitizzare,
aggiungendo dettagli pittoreschi - la solita luce filtra dalle
sbarre, la muffa alle pareti, il corpo scheletrisce. La condanna alla
solitudine ci appare ancor più deleteria per chi ha bisogno per
eccellenza di plein air e libertà. Perciò, diventa credibile
che un pittore ventiduenne, nel suo Diario dal carcere (Skira,
con una postfazione di F. Ammiraglio, pp. 54, € 14,00), alterni
inni alla vita a pagine disperate.
Per molto tempo, su
questa pubblicazione postuma del 1922, a cura di Arthur Roessler,
amico e mecenate di Schiele, nessuno aveva espresso riserve,
nonostante non siano mai emersi gli autografi. Oggi i dubbi
sull'autenticità sono abbastanza solidi: alcuni propendono per il
falso, altri sostengono che sia stato redatto a partire da
testimonianze orali del pittore, scomparso nel 1918.
«Il destino volle che
una ragazza provasse simpatia per me, arrivando fino al punto di
entrarmi in casa di sua volontà. - La cacciai via. - Ma la sera dopo
ritornò e non se andò. Non c'era nessuno delle vicinanze che
potesse venire a prenderla. - E se avessi chiamato qualcuno avrei
dovuto temere una tragedia. - Allora la tenni con me e scrissi ai suoi
genitori - Venne a prenderla il padre. - Si convinsero che era
intatta, e tuttavia la faccenda finì in tribunale» (lettera di
Schiele a Franz Hauer, 1914). Questo è l'unico accenno, in tutto
l'epistolario, all'incresciosa vicenda di Neulengbach, che causò al
pittore ventiquattro giorni di carcere. Il padre della quattordicenne
è un alto dirigente del Ministero della Marina. Nel Diario,
invece, il racconto si carica di perquisizioni della polizia e di
sequestri nello studio, di capi d'accusa infamanti come pornografia e
corruzione di minori, di un disegno bruciato durante l'ultima seduta
del processo. L'episodio è talmente succulento che si ha buon gioco
nel confondere mito e storia.
Quando l'arte arriva a
ferire i sentimenti di un'epoca, i suoi stessi criteri estetici
stessi, la società corre ai ripari, sia edificando miti consumabili,
sia con la censura (le braghe alla Sistina). Lo scandalo non è
generato solo dalla scelta di un tema: l'etichetta infatti rimane
quella ufficiale, «nudo di donna», quella prediletta della pittura
europea dal Rinascimento alle accademie di fine Ottocento.
Stilisticamente, non c'è più niente in comune fra la tradizione e
quest'uomo che sceglie di stuprare con lo sguardo le modelle e la sua
stessa immagine.
Un nudo di Egon Schiele (1914) |
Eppure non è facile
spiegarsi come sia possibile apprezzare oggi quel che un tempo i
nostri simili potevano ritenere oltraggioso. A Milano, nelle sale di
Palazzo Reale, fino a poco tempo fa, disegni e dipinti di Schiele
potevano essere osservati pacificamente, come se si trattasse di un
qualsiasi artista d'avanguardia ormai canonizzato. È bastato quel
Roessler per poter consumare un mito, un altro eroe rassicurante? Il
pubblico non è mai uno solo: certamente, gli strumenti culturali
della borghesia viennese non sono quelli nostri, e ipotizzare che il
gusto sia cambiato è ovvio. Ma la distanza storica, il fatto stesso
che qualcuno abbia giudicato prima di noi, ci colloca in una
posizione particolare. Non soltanto le provocazioni alla morale, dopo
un secolo, perdono di intensità. Basterebbe sapere che qualcuno ha
osato bruciare i disegni di un artista per stimolare in noi una
reazione di solidarietà. La nostra identità di secondo pubblico ci
autorizza a formulare un apprezzamento diverso, ci esorta a
schierarci dalla sua parte per dar prova di discontinuità con gli
austeri austroungarici. O magari è solo un fenomeno di buone
maniere, e quindi, nei sussulti iniziali davanti all'immagine, ancora
vorremmo che certi disegni di donne 'scorticate' venissero dati alle
fiamme? e poi prevarrebbe quella specie di coscienza estetica
democratica che ci induce ad accettare ogni forma di espressione?
L'iconoclasta esprime un giudizio assai prezioso: si distrugge ciò
che è insopportabile, se all'arte si assegna ancora un valore.
Ma va aggiunto che
l'espressionismo rappresenta un punto di non-ritorno. Il sentimento
di armonia che ogni generazione punta a stabilire con la natura,
sotto i colpi dei colori più stridenti e delle linee più
vertiginose, è messo in crisi. L'uomo comune, direbbe Artaud, non
può sopportare tutto questo. Perciò l'emarginazione
dell'espressionismo è stata una necessità sociale prima che
estetica. La scissione fra l'artista e il suo pubblico avviene seduta
stante: se il primo propone una tale visione della realtà, il
secondo reagisce emarginandolo. Da questo ricatto più subito che
cercato, sgorga la vena più libera, che spesso è sconfinata nella
follia. E se riprendiamo il grande padre di questa stagione, Van
Gogh, scoviamo anche l'altro polo di questo processo: la costrizione
al suicidio, la seconda pira, dopo il carcere, su cui si getta il
corpo dell'artista per ripararsi dalle sue frecce. Questo per
precisare come potrebbero funzionare i rapporti tra arte e società
in modo meno comodo di quello, oggi invalso, secondo cui è sempre
l'artista che, superomisticamente, sceglie la libertà (ecco, compare
il bohémien).
Se le cose non stanno più
come un tempo (l'ultimo dei «suicidi espressionisti» è Kirchner,
poi irrompe di nuovo la guerra, un'altra generazione si forma, c'è
chi in carcere addirittura scopre di essere artista), o la nostra
società ha smesso di essere repressiva (e non si direbbe) o i nostri
artisti hanno smesso di essere scomodi. Infine, chissà se è ancora
possibile guardare a Schiele con occhi più o meno vergini. Se
insomma, dopo aver passato mentalmente in rassegna i poliziotti e i
borghesi di ieri, i visitatori estasiati o compiaciuti di oggi, si
possa ritornare ancora a quegli acquerelli dove aleggia l'idea stessa
dei vent'anni, il senso del noi-oggi, una scoppiante fermezza di
sguardi. Un artista che riproduce se stesso in ogni volto e la donna
l'ha resa un prototipo-manichino, non a sua immagine ma a sua
disposizione, in un patetico darsi di nudità fragilissime. Un
degradarsi insomma, dell'uomo, a linee prime che non sono chiamate né
alla costruzione né all'astrazione. Giusto una sagoma, e poi minime,
infinite variazioni, per spiegare che fra volti paesaggi alberi fiumi
non c'è poi molta differenza. La natura diventa una cellula che
sparge se stessa ovunque, diramandosi, restringendosi senza
spiegazioni. Il corpo: la cosa proibita che si cerca in tutti i modi
di possedere, attorno a cui sempre si è costretti a ruotare.
“alias-il manifesto”,
3 luglio 2010
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