Il profilo che segue del
grande chansonnier francese
era, in un vecchio “alias”, premessa a una lunga intervista che
l'etnomusicologo napoletano Giovanni Vacca aveva fatto a Ferré
nel 1990 e che il supplemento culturale del “manifesto”
riprendeva. Posterò anche l'intervista, assai bella. (S.L.L.)
Léo Ferré è morto il
14 luglio 1993. È stato un artista necessariamente bifronte, capace
di attingere alle fonti più insondabili della sua ispirazione
artistica e, allo stesso tempo, «stare» nell'industria della
musica. Due mondi, dunque, o meglio una specie di «Ferré contro
Ferré».
Ferré nasce a Monaco nel
1916. In una giovinezza divisa tra l'Italia e la Francia scopre il
pianoforte, da autodidatta, cominciando a musicare i versi di Paul
Verlaine. Alla fine degli anni 40 si esibisce nei cabaret parigini,
lavorando anche in radio. In quegli anni compone le sue prime
canzoni, spesso di contenuto ribelle e anticonformista. Negli anni
'60 scrive brani di grande successo e mette in musica i grandi poeti
francesi (Baudelaire, Verlaine, Rimbaud, Aragon). Il 68 lo trova
perfettamente a suo agio, avendone egli già anticipato in musica lo
spirito libertario e antiistituzionale. Continuerà a comporre fino
alla morte, attraversando praticamente tutti i generi, dalla canzone
all'opera, dirigendo spesso l'orchestra sinfonica.
Ferré ha portato nella
canzone moderna molte cose: l'ha annodata alla poesia colta e nello
stesso tempo ha recuperato la forza della parola di strada; ne ha
svecchiato i contenuti, da un lato iniettandovi il malessere
derivante dalle contraddizioni dell'allora incipiente società di
massa (il suo periodo d'oro va dagli anni 50 a tutti gli anni 70 del
secolo passato) e dall'altro reinventandola come canzone «politica»,
legata ai grandi temi dell'attualità del suo tempo; l'ha portata
sulla scena con una teatralità impressionante, che gli veniva da
anni di formazione nei locali notturni parigini; l'ha usata come
punto di partenza per scrivere opere teatrali, composizioni
sinfoniche, e poi saggi e perfino un romanzo (non era così comune
all'epoca, come lo è oggi, che un autore di canzoni scrivesse anche
romanzi).
Eppure Ferré rimane in
fondo, e consapevolmente lo rivendica nell'intervista che
pubblichiamo, un poeta romantico, tardoromantico, in una società che
obbliga il romantico, che essa stessa ha prodotto, a fare i conti con
i suoi meccanismi assolutamente «anti-romantici»; da qui, tutte le
sue, salutari, contraddizioni.
Senso dell'esilio
«Il senso dell'esilio e
della solitudine fu l'esperienza cruciale della nuova generazione,
che ne ebbe così determinata in modo durevole tutta la visione del
mondo. Tale senso di solitudine assunse innumerevoli forme, e trovò
la sua espressione in tutta una serie di tentativi di evasione dei
quali il ritorno al passato fu il più tipico. La fuga nell'utopia e
nella favola, nell'inconscio e nell'immaginario, nel sinistro e nel
misterioso, il volgersi all'infanzia e alla natura, al sogno e alla
follia (...)»: così lo storico Arnold Hauser parlava della
generazione romantica, e chi conosce bene l'opera di Ferré può
ritrovare in queste parole addirittura i titoli di alcune tra le sue
più belle composizioni (La Folie, La solitude,
L'enfance, L'imaginaire, Monsieur mon passé).
Le sue canzoni più
propriamente politiche sono dunque funzionali soprattutto alla
manifestazione di
un vitalismo esasperato,
un'insubordinazione totale, «cosmica», «contro ogni Dio e ogni
padrone»: le sue polemiche prese di posizione, infatti, pur essendo
molto più dirette e circostanziate di quelle di Brassens, per non
parlare di quelle di Brel, e pur straordinariamente efficaci dal
punto di vista espressivo, si esauriscono nella denuncia (Yen a
marre) o nell'utopia (L'age d'ôr), senza mai tradursi, e
forse per fortuna, in reale «appoggio» politico a questa o a quella
causa.
Difficilmente Ferré
potrà avere degli eredi: la sua scrittura irregolare e violenta,
soprattutto la scrittura-flusso degli anni della maturità (si pensi
a brani come Il n'y a plus rien o Le chien), è il
punto di approdo nell'arte di massa (la «canzonetta» che egli non
ha mai rinnegato: «Non sono che un artista di varietà», diceva)
della tradizione poetica romantico-simbolista che ha avuto
soprattutto in Baudelaire e Rimbaud i suoi massimi esponenti. La
potenza visionaria di questa tradizione, quella del «poeta-veggente»,
cantore dell'immaginario e dell'inquietudine della modernità, delle
sue «corrispondenze» (lo ha fatto, in parte, anche il primo Dylan),
è stata interamente riassorbita e disseminata nelle infinite
potenzialità elettroniche di composizione, produzione e riproduzione
dell'immagine visiva stessa e nella sua proliferazione illimitata,
preponderante all'interno dei linguaggi frammentati e immediati
dell'infosfera. La sua aggressività e la sua violenza verbale («lo
stile dell'invettiva», come egli stesso lo definiva) ha poco spazio
in un'epoca «politically correct», anche tra gli autori più
«engagés», e si può forse ritrovare, paradossalmente, in
linguaggi musicali che non vengono dalla tradizione della canzone
d'autore (si veda, ad esempio, il rap militante).
Ferré è stato dunque
unico, in grado, come nessun altro, di stare fuori e dentro la
storia, fuori e dentro la cultura pop; testimone scomodo e
contraddittorio di un'«epoca epica» in cui, per dirla ancora con le
sue parole, «l'immobilità disturba il secolo». Della sua vasta
produzione discografica consigliamo:
Les fleurs du mal
(Charles Baudelaire 1857 - Léo Ferré 1957,Odéon)
Les chansons d'Aragon
(1961, Barclay))
Verlaine et Rimbaud
(1964, Barclay)
Léo Ferré 1969
récital en public au Bobino (1969, Barclay)
Amour -Anarchie
(1970, due volumi, Barclay)
La chanson du
mail-aimé (su testo di Guillaume Apollinaire, 1972, Barclay)
Léo Ferré in
italiano (Traduzioni di E. Medail, 1972, Barclay)
Il n'y a plus rien
(1973, Barclay)
La musica mi prende
come l'amore (traduzioni di G. Armellini, 1977, La mémoire et la
mer)
Léo Ferré au T.L.P.
Dejazet (1988, Epm)
Ferré/Rimbaud:
Une saison en enfer (1991, Epm)
“alias
– il manifesto”, 10 luglio 2004
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