Dopo aver varcato le
Porte della Cilicia, nell'odierna Turchia, Alessandro giunge a Tarso.
Fa caldo. Mentre, davanti ai soldati, si bagna in un fiume, è colto
da un brivido e sviene. Si riprenderà con un farmaco miracoloso, ma
il suo esercito è sgomento. I soldati macedoni - scrive, nelle
Storie di Alessandro Magno (Fondazione
Valla, Modadori, 2000), Curzio Rufo, questo straordinario
scrittore «proustiano» vissuto a Roma nel I secolo d.C. -
veneravano Alessandro: perché nulla pareva che egli intraprendesse
senza l’aiuto divino; per la temerarietà che sempre s’era
tradotta in gloria; la giovane età che rendeva spettacolari le sue
azioni; i modi semplici. Lui li ripagava con pari affetto.
Il rapporto di Alessandro
con i soldati è uno dei due leit-motiv fondamentali d’una
cronaca storica appassionante: un libro nel quale la storia guarda ai
modelli di Tucidide e Erodoto (per i rispettivi crediti alla ragione,
alla leggenda e al mito); mentre la profondità dell’indagine
psicologica, la teatralità delle passioni, lo spinge ai vertici
della modernità. Quante volte vedremo il giovane condottiero,
innamorato del mondo e di se stesso, uscire dalla tenda reale e, di
volta in volta, spronare, blandire, esaltare, frustare, supplicare le
sue truppe: digrignando i denti e piangendo, infiammando i petti,
sollevando i volti cupi chinati al suolo!
Se l’ esercito macedone
ha sottomesso l’Europa e l’Asia Minore, e ora sta per piegare la
Persia vendicando le antiche offese, e si spingerà, sulle orme di
Ercole e Dioniso, fino ai confini del mondo, per creare un impero
unico in cui si mescolino Oriente e Occidente (questo è l’altro
leit-motiv, da cui il primo discende), cosa possono e devono
contare i pericoli, il nemico, i ghiacci, i deserti, la fame, la
sete, la paura, la morte!
Quale ostacolo, quale
impedimento potrà mai arrestare l’impresa umana che sfida i limiti
del corpo e del tempo, ma anche, e soprattutto, quelli dell’anima e
della mente? L’ ombra che scende nell’animo di Alessandro,
cominciando a offuscargli la mente nel lento logorio che, di pari
passo al procedere verso l’ignoto, lo condurrà alla follia, si
profila in uno dei tre grandi episodi del racconto. Dopo aver
sconfitto Dario nella battaglia di Isso, che Curzio Rufo descrive non
come la dipinse Altdorfer, ma come avrebbe potuto dipingerla
Delacroix (tenebre, sangue, scintillio d’ armi), Alessandro lascia
che il persiano fugga e va in Egitto. Vuole consultare il famoso
oracolo di Giove Ammone nel deserto. Quando vi arriva, il sacerdote
anziano si rivolge a lui come «figlio di Giove», sostenendo che
tale appellativo gli viene dal suo padre celeste. Lui, accoglie la
paternità divina e domanda se «dai fati gli è destinato il dominio
di tutto il mondo». Avendo avuto risposta affermativa - la stilla
del veleno che si insinua nelle vene - torna indietro, fonda la città
di Alessandria, e si volge all’inseguimento del fuggiasco.
Fino a questo momento, il
bilancio delle perdite negli scontri fra i persiani e i macedoni è
clamoroso: i persiani lamentano 110 mila morti, i macedoni 182.
Inoltre, Alessandro ha catturato la moglie di Dario e sua madre,
Sisigambi. Con lei ha saputo mostrare tale clemenza, tale rispetto,
da conquistare, pur essendole nemico, il suo affetto. Ora, le ragioni
del cuore devono rimaner segregate nel padiglione delle prigioniere,
che continuano a ricevere onori come fossero regine. Dario, il marito
e figlio che le reclama, ha mandato all’invasore ogni tipo di
messaggio: arrogante, suadente. Tutto è stato vano. Ogni proposta di
mediazione, di accordo è stata rifiutata. Avendo concentrato le sue
truppe a Babilonia, non gli resta che andare incontro ad Alessandro
nella pianura mesopotamica, fra il Tigri e l’Eufrate. Lì, i due
eserciti si fronteggiano. Sono, uno di rimpetto all’altro, due
mondi. La descrizione dell’esercito persiano è fastosa. Non si
muove un esercito, bensì una corte: con carri d’argento,
giovinetti vestiti di porpora, sacerdoti, inni, il fuoco eterno
alimentato sugli altari, e sulla tenda reale, l’immagine del sole
racchiusa nel cristallo.
Tuttavia, questo è anche
uno sterminato esercito: riempie l’intera pianura. Infatti, i rudi
soldati Macedoni, abituati al cuoio e al ferro, tremano. E una
improvvisa eclissi di luna non fa che aumentare lo sgomento. Perché,
dicono, dobbiamo essere «trascinati ai confini del mondo contro la
volontà divina?» Perché spargere «il sangue di tante migliaia di
uomini per la soddisfazione di uno solo, che con deliranti pensieri
aspirava al cielo?» Quando la luce torna sulla terra, il fulgore
dell’aria, tremolante come una vampa d’incendio, avvolge la
moltitudine persiana con contorni di fiamma. Di notte, alla vista dei
fuochi, pari alle stelle del firmamento, il cuore si colma di paura.
Alessandro veglia, nella sua tenda: è in ansia. Ma, al mattino,
indossa l’armatura e ai suoi soldati chiede una sola cosa: vincere.
Lui, come sempre, combatterà in prima fila. Dalla parte opposta, il
discorso di Dario lo avrebbe potuto fare Pericle: soldati, dice, noi
combattiamo per la nostra libertà. Una frase, importante, illumina
la profondità della mente: «Forse è disegno fatale degli dei che
l’impero persiano fosse squassato da un moto violento, perché ci
ricordassimo dell’umana fragilità».
Inizia la battaglia. È
una apocalisse persiana: 40 mila morti contro 300. Di nuovo, Dario
fugge; e, mentre Alessandro celebra la vittoria gozzovigliando, è
preda di un complotto. Trafitto dalle lance, è trascinato dal suo
carro in riva a un ruscello. Il re dell’oriente è un cadavere
senza nome. Se ne accorge per caso - come nella Gerusalemme
Liberata avrebbe potuto immaginare il Tasso - un soldato
macedone, chino a dissetarsi.
Il terzo e ultimo
«momento-chiave», coincide con la fine del viaggio: è un momento
dilatato e grandioso. Il lettore ha seguito i macedoni e i loro
alleati nei territori più impervi. Ha conosciuto gli Sciti
misteriosi e le Amazzoni. È penetrato in regioni ghiacciate e
deserte. Ha attraversato foreste lugubri infestate dalle fiere. Ha
scalato monti. Ha visto, uno dopo l’altro, cadere regni e città.
Ha assistito a complotti veri o presunti. Ha conosciuto la clemenza,
la furia, il coraggio e la crudeltà di Alessandro. Lo ha udito
pretendere dai suoi, non solo dai persiani sottomessi, onori divini.
Ha ascoltato molti altri discorsi ai soldati sfiniti. Ha veduto la
follia ingigantirsi. Ha contemplato il mitico re indiano Poro,
violento e molle, in groppa ai suoi elefanti. Ha visto la sconfitta
di Poro. Ora, alla foce dell’Indo, è ai confini del mondo. Oltre,
si estende il misterioso Oceano, l’ignoto. Alessandro sale su una
nave e, per alcuni chilometri, si inoltra. Al largo - dov’è il
nulla - celebra sacrifici agli dei e torna a riva.
Comincia il viaggio di
ritorno nel mondo che ha conquistato. Ma è un viaggio di ritorno nel
vuoto. Con quanta abilità, Curzio Rufo - senza enunciarlo - sa
costruire questo vuoto nel pieno dell’impero unificato dall’una
all’altra sponda del mondo conosciuto! Ora, non gli resta che
accompagnare Alessandro nella sua tenda di Babilonia. È stato colto
da febbri mortali (qualcuno insinua provocate dal veleno: ecco che
l’idea del veleno ritorna), è in fin di vita, piange. I suoi
soldati piangono. Tutti piangono. Piange anche Sisigambi, la madre di
Dario. Perché questo dolore ne evoca un altro: quello per suo figlio
morto. Così il presente evoca il tempo: come nella Ricerca del
tempo perduto.
Corriere della Sera, 27
ottobre 2000
1 commento:
"...Piange anche Sisigambi, la madre di Dario. Perché questo dolore ne evoca un altro: quello per suo figlio morto..."
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