15.11.14

Curzio Rufo racconta Alessandro Magno e il suo tempo perduto (Claudio Montefoschi)

Dopo aver varcato le Porte della Cilicia, nell'odierna Turchia, Alessandro giunge a Tarso. Fa caldo. Mentre, davanti ai soldati, si bagna in un fiume, è colto da un brivido e sviene. Si riprenderà con un farmaco miracoloso, ma il suo esercito è sgomento. I soldati macedoni - scrive, nelle Storie di Alessandro Magno (Fondazione Valla, Modadori, 2000), Curzio Rufo, questo straordinario scrittore «proustiano» vissuto a Roma nel I secolo d.C. - veneravano Alessandro: perché nulla pareva che egli intraprendesse senza l’aiuto divino; per la temerarietà che sempre s’era tradotta in gloria; la giovane età che rendeva spettacolari le sue azioni; i modi semplici. Lui li ripagava con pari affetto.
Il rapporto di Alessandro con i soldati è uno dei due leit-motiv fondamentali d’una cronaca storica appassionante: un libro nel quale la storia guarda ai modelli di Tucidide e Erodoto (per i rispettivi crediti alla ragione, alla leggenda e al mito); mentre la profondità dell’indagine psicologica, la teatralità delle passioni, lo spinge ai vertici della modernità. Quante volte vedremo il giovane condottiero, innamorato del mondo e di se stesso, uscire dalla tenda reale e, di volta in volta, spronare, blandire, esaltare, frustare, supplicare le sue truppe: digrignando i denti e piangendo, infiammando i petti, sollevando i volti cupi chinati al suolo!
Se l’ esercito macedone ha sottomesso l’Europa e l’Asia Minore, e ora sta per piegare la Persia vendicando le antiche offese, e si spingerà, sulle orme di Ercole e Dioniso, fino ai confini del mondo, per creare un impero unico in cui si mescolino Oriente e Occidente (questo è l’altro leit-motiv, da cui il primo discende), cosa possono e devono contare i pericoli, il nemico, i ghiacci, i deserti, la fame, la sete, la paura, la morte!
Quale ostacolo, quale impedimento potrà mai arrestare l’impresa umana che sfida i limiti del corpo e del tempo, ma anche, e soprattutto, quelli dell’anima e della mente? L’ ombra che scende nell’animo di Alessandro, cominciando a offuscargli la mente nel lento logorio che, di pari passo al procedere verso l’ignoto, lo condurrà alla follia, si profila in uno dei tre grandi episodi del racconto. Dopo aver sconfitto Dario nella battaglia di Isso, che Curzio Rufo descrive non come la dipinse Altdorfer, ma come avrebbe potuto dipingerla Delacroix (tenebre, sangue, scintillio d’ armi), Alessandro lascia che il persiano fugga e va in Egitto. Vuole consultare il famoso oracolo di Giove Ammone nel deserto. Quando vi arriva, il sacerdote anziano si rivolge a lui come «figlio di Giove», sostenendo che tale appellativo gli viene dal suo padre celeste. Lui, accoglie la paternità divina e domanda se «dai fati gli è destinato il dominio di tutto il mondo». Avendo avuto risposta affermativa - la stilla del veleno che si insinua nelle vene - torna indietro, fonda la città di Alessandria, e si volge all’inseguimento del fuggiasco.
Fino a questo momento, il bilancio delle perdite negli scontri fra i persiani e i macedoni è clamoroso: i persiani lamentano 110 mila morti, i macedoni 182. Inoltre, Alessandro ha catturato la moglie di Dario e sua madre, Sisigambi. Con lei ha saputo mostrare tale clemenza, tale rispetto, da conquistare, pur essendole nemico, il suo affetto. Ora, le ragioni del cuore devono rimaner segregate nel padiglione delle prigioniere, che continuano a ricevere onori come fossero regine. Dario, il marito e figlio che le reclama, ha mandato all’invasore ogni tipo di messaggio: arrogante, suadente. Tutto è stato vano. Ogni proposta di mediazione, di accordo è stata rifiutata. Avendo concentrato le sue truppe a Babilonia, non gli resta che andare incontro ad Alessandro nella pianura mesopotamica, fra il Tigri e l’Eufrate. Lì, i due eserciti si fronteggiano. Sono, uno di rimpetto all’altro, due mondi. La descrizione dell’esercito persiano è fastosa. Non si muove un esercito, bensì una corte: con carri d’argento, giovinetti vestiti di porpora, sacerdoti, inni, il fuoco eterno alimentato sugli altari, e sulla tenda reale, l’immagine del sole racchiusa nel cristallo.
Tuttavia, questo è anche uno sterminato esercito: riempie l’intera pianura. Infatti, i rudi soldati Macedoni, abituati al cuoio e al ferro, tremano. E una improvvisa eclissi di luna non fa che aumentare lo sgomento. Perché, dicono, dobbiamo essere «trascinati ai confini del mondo contro la volontà divina?» Perché spargere «il sangue di tante migliaia di uomini per la soddisfazione di uno solo, che con deliranti pensieri aspirava al cielo?» Quando la luce torna sulla terra, il fulgore dell’aria, tremolante come una vampa d’incendio, avvolge la moltitudine persiana con contorni di fiamma. Di notte, alla vista dei fuochi, pari alle stelle del firmamento, il cuore si colma di paura. Alessandro veglia, nella sua tenda: è in ansia. Ma, al mattino, indossa l’armatura e ai suoi soldati chiede una sola cosa: vincere. Lui, come sempre, combatterà in prima fila. Dalla parte opposta, il discorso di Dario lo avrebbe potuto fare Pericle: soldati, dice, noi combattiamo per la nostra libertà. Una frase, importante, illumina la profondità della mente: «Forse è disegno fatale degli dei che l’impero persiano fosse squassato da un moto violento, perché ci ricordassimo dell’umana fragilità».
Inizia la battaglia. È una apocalisse persiana: 40 mila morti contro 300. Di nuovo, Dario fugge; e, mentre Alessandro celebra la vittoria gozzovigliando, è preda di un complotto. Trafitto dalle lance, è trascinato dal suo carro in riva a un ruscello. Il re dell’oriente è un cadavere senza nome. Se ne accorge per caso - come nella Gerusalemme Liberata avrebbe potuto immaginare il Tasso - un soldato macedone, chino a dissetarsi.
Il terzo e ultimo «momento-chiave», coincide con la fine del viaggio: è un momento dilatato e grandioso. Il lettore ha seguito i macedoni e i loro alleati nei territori più impervi. Ha conosciuto gli Sciti misteriosi e le Amazzoni. È penetrato in regioni ghiacciate e deserte. Ha attraversato foreste lugubri infestate dalle fiere. Ha scalato monti. Ha visto, uno dopo l’altro, cadere regni e città. Ha assistito a complotti veri o presunti. Ha conosciuto la clemenza, la furia, il coraggio e la crudeltà di Alessandro. Lo ha udito pretendere dai suoi, non solo dai persiani sottomessi, onori divini. Ha ascoltato molti altri discorsi ai soldati sfiniti. Ha veduto la follia ingigantirsi. Ha contemplato il mitico re indiano Poro, violento e molle, in groppa ai suoi elefanti. Ha visto la sconfitta di Poro. Ora, alla foce dell’Indo, è ai confini del mondo. Oltre, si estende il misterioso Oceano, l’ignoto. Alessandro sale su una nave e, per alcuni chilometri, si inoltra. Al largo - dov’è il nulla - celebra sacrifici agli dei e torna a riva.
Comincia il viaggio di ritorno nel mondo che ha conquistato. Ma è un viaggio di ritorno nel vuoto. Con quanta abilità, Curzio Rufo - senza enunciarlo - sa costruire questo vuoto nel pieno dell’impero unificato dall’una all’altra sponda del mondo conosciuto! Ora, non gli resta che accompagnare Alessandro nella sua tenda di Babilonia. È stato colto da febbri mortali (qualcuno insinua provocate dal veleno: ecco che l’idea del veleno ritorna), è in fin di vita, piange. I suoi soldati piangono. Tutti piangono. Piange anche Sisigambi, la madre di Dario. Perché questo dolore ne evoca un altro: quello per suo figlio morto. Così il presente evoca il tempo: come nella Ricerca del tempo perduto.


Corriere della Sera, 27 ottobre 2000

1 commento:

lentini m. teresa ha detto...

"...Piange anche Sisigambi, la madre di Dario. Perché questo dolore ne evoca un altro: quello per suo figlio morto..."

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