Francisco Hajez, Rinaldo e Armida |
Che accadrebbe se Steven
Spielberg decidesse di fare un film sulla Gerusalemme liberata?
Sarebbe in grado di
tradurre in immagini il tormento di Tancredi e di Solimano, il
conflitto tra dovere religioso e piacere erotico presenti nel poema
di Tasso o, grazie alle raffinate tecniche dell'industria
cinematografica (la telecamera che accompagna il sibilo della freccia
nel Robin Hood di Kevin Costner!), punterebbe soltanto a
esaltare i motivi militari, epici, d'avventura, pur altrettanto
importanti? O ancora, dopo la guerra del Golfo, esibirebbe la
superiorità occidentale contro i perfidi musulmani come nella prima
Crociata del 1099, materia storica e poetica del libro di Tasso?
La riproposta
mondadoriana della Gerusalemme nella collana blu degli Oscar
Grandi classici può suscitare, nel lettore attratto dalla teatralità
dell'opera, anche questi interrogativi.
L'attuale edizione - come
le precedenti - è accompagnata dalla perizia filologica di Lanfranco
Caretti, da una sintetica guida ai venti canti del poema e dalla
riproposizione, con alcune modifiche, di uno scritto del 1957 ancora
di grande interesse. In particolare si leggano le pagine sul
«bifrontismo spirituale» del Tasso nell'«assidua tensione tra
l'energica spinta unitaria e l'opposto impeto delle forze
centrifughe, che costituisce in realtà l'irrequieta e indocile vita
interna del poema»; o quelle sulla «suspense tassiana», che è
«inerente alla coscienza stessa del poeta, proiezione letteraria del
suo sgomento di fronte alla realtà».
La Gerusalemme
liberata per tre secoli tenne banco nella cultura europea,
tra i ceti colti e tra quelli popolari. Tradotto continuamente, amato
dai poeti barocchi (un po' meno da Galileo), fonte di ispirazione per
Goethe che scrisse un dramma intitolato Tasso, esaltato dai
romantici che costruirono il mito del martire perseguitato dalla
società e dalla chiesa, penetrato più di quanto si creda nella
poesia italiana del Novecento, il libro maggiore di Tasso fu un
autentico best-seller.
Rousseau racconta di aver
ascoltato i gondolieri veneziani cantare le ottave della Gerusalemme.
E in effetti, fuori dalle facili mitologie, la tradizione del poema
epico quattro-cinquecentesco (forte di elementi narrativi,
cavaliereschi, lirici, comici) da Boiardo a Pulci a Ariosto e Tasso -
ma senza dimenticare, nel '600, la favola mitologica di Marino - fu
tra le più popolari nel nostro paese. Anzitutto per il metro usato,
l'ottava rima, metro narrativo per eccellenza, facilmente
memorizzabile come la terzina dantesca.
Poi per la materia
trattata, estremamente varia, ricca di eroici cavalieri, di amori, di
magia bianca e nera, una materia fatta di repentini capovolgimenti,
drammatica ed elegiaca, mortuaria e sensuale insieme come scrisse lo
stesso Tasso nei Discorsi dell'arte poetica pensando al suo
capolavoro che terminerà nel 1575: «così parimente giudico che da
eccellente poeta... un poema formar si possa nel quale, quasi in un
picciolo mondo, qui si leggano ordinanze d'esserciti, qui battaglie
terrestri e navali, qui espugnazioni di città, scaramucce e duelli,
qui giostre, qui descrizioni di fame e di sete, qui tempeste, qui
incendii, qui prodigii; là si trovino concilii celesti e infernali,
là si veggiano sedizioni, là discordie, là errori, là venture, là
incanti, là opere di crudeltà, di audacia, di cortesia, di
generosità, là avvenimenti d'amor or felici, or infelici, or lieti,
or compassionevoli».
Gli ingredienti ci sono
tutti e la loro miscela non è mai scontata. L'inquieto Torquato,
uomo della Controriforma (nacque nel 1544 e mori nel 1595), è ancora
insidiato dall'eredità del naturalismo rinascimenlale, è un uomo di
transizione, tra Ariosto e Marino, tra lo splendore delle corti e
l'inizio della servitù politica italiana.
Il tema della liberazione
del Santo Sepolcro si offriva per la sua attualità storica - nel
'500 lo scontro con l'Islam aveva conosciuto momenti di drammatica
intensità - e inoltre la stessa Controriforma cattolica
rappresentava una sorta di crociata contro gli infedeli fuori
d'Europa e contro i più pericolosi riformatori del vecchio
continente.
Ma la liberazione di
Gerusalemme ad opera delle forze del Cielo contro quelle dell'Inferno
è pure liberazione interiore, percorso salvifico alla maniera di
Dante, purificazione dal peccato. Solo che in Tasso è assente la
compatta architettura ideologica del cristiano militante medievale,
ed egli sembra spesso camminare sull'orlo di un burrone, sfidare di
continuo l'autorità religiosa come, quando al termine del poema,
mette in bocca alla pagana Armida le parole della Vergine: «Ecco
l'ancilla tua».
E proprio la maga Armida,
bellissima seduttrice dei cavalieri cristiani e amante di Rinaldo, è
l'emblema del piacere, di quel «meraviglioso pagano» che attrae ma
va combattuto.
Il suo
lussureggiante giardino nelle Canarie, al di là delle
Colonne d'Ercole, lontano dagli scontri militari e politici, è il
luogo dove si rinnova l'età dell'oro, dove un'esotico pappagallo
(parente dell'usignolo di Marino?) esalta l'immediatezza del
godimento: «Cogliam la rosa in su '1 mattino adorno/ di questo dì,
che tosto il seren perde;/ cogliam d'amor la rosa: amiamo or quando/
esser si puote riamato amando».
L'amore - tema centrale
della Gerusalemme - svia i cavalieri cristiani dalla conquista della
città santa: il cristiano Rinaldo è irretito dalla pagana Armida,
Tancredi - pure lui crociato - ama Clo-rinda, eroina pagana, ed è
invano desiderato dalla pagana Erminia; ma l'amore non si realizza
mai compiutamente e anzi sembra rivelarsi solo in prossimità della
morte, come nel caso di Tancredi che uccide senza saperlo la sua
amata in una splendida ottava in cui la morte è metafora
dell'amplesso erotico: «Ma ecco ornai l'ora fatale è giunta/ che '1
viver di Clorinda al suo fin deve./ Spinge egli il ferro nel bel sen
di punta/ che vi s'immerge e '1 sangue avido beve;/ e la veste, che
d'or vago trapunta/ le mammelle stringea tenera e leve,/ l'empie d'un
caldo fiume. Ella già sente/ morirsi, e '1 pié le manca egro e
languente». E si arriva addirittura a sfiorare la necrofilia quando
l'amante non corrisposto di Tancredi, Erminia, bacia il suo cavaliere
creduto morto dopo un combattimento.
Riprendiamo per un
momento alcuni ingredienti suggeriti dal Tasso nel suo elenco. Fame,
sete, tempeste, prodigi, incanti, battaglie: si resta ammirati dalle
capacità che possiede il poeta di Sorrento di creare scenari
naturali improvvisamente sconvolti da tempeste e tuoni provocati
dalle potenze infernali, di descrivere l'arsura che soffoca uomini e
animali seguita da una pioggia vivificatrice, di fissare, secondo il
collaudato modello petrarchesco, l'eterna primavera del giardino
incantato, di rappresentare la ferocia degli scontri militari con la
precisione di chi conosce anche i trattati di arte bellica.
In conclusione,
attraverso un linguaggio spesso ellittico, concentrato, franto
(l'enjambement fa la parte del leone), fatto di coppie di
antitesi e di anafore, di fraseggio ora prezioso ora prosaico;
attraverso il ricorso creativo, anche quando sembra solo «tradurre»,
alla contaminazione di modelli classici, biblici e romanzi (Virgilio
e Petrarca tra i preferiti); attraverso il succedersi del
meraviglioso e del verosimile e senza accettare dogmaticamente le
poetiche aristoteliche, Tasso alterna il momento epico a quello
lirico, l'afflato religioso del cattolico tridentino all'erotismo del
corpo femminile, riuscendo a fissare in modo bruciante e polare le
contraddizioni sue e del suo tempo.
“la talpa giovedì –
il manifesto”, ritaglio senza data, ma 1992
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