Con
il titolo Zeno Einaudi, nel 1987 pubblicò nella Biblioteca
dell'Orsa, una raccolta di testi di Italo Svevo, curata di Mario
Lavagetto, che mette a fuoco la genesi complessa e i potenziali
sviluppi del personaggio protagonista de La coscienza di Zeno. La
recensione di Mazzacurati saluta l'operazione editoriale come
un'importante contributo critico, che giova a ricostruire la poetica
dello scrittore triestino al di là delle sue stesse dichiarazioni,
talora depistanti. (S.L.L.)
Italo Svevo con la moglie e la figlia |
Zeno
non è soltanto il protagonista de La coscienza di Zeno, ma
l'eroe eponimo e riassuntivo delle vicende nuove di una vecchia voce.
Nel romanzo di Svevo si accampa sul proscenio, di fronte alla buca
del suggeritore, minimizzandosi ironicamente nel cognome di un tale
Cosini e ciarlando di sé, a vantaggio, lì per lì, di un astioso
analista ; e poi a sua definitiva confusione e confutazione. Ma già
prima quella voce si era aggirata per i camerini confusa tra altre.
Più tardi - dopo il 1923
– riprenderà ad entrare ed uscire dalle quinte, dietro maschere e
nomi diversi, finché non tornerà a recitare frammentariamente sotto
maschera e nome provvisorio di «vegliardo». Maschera e nome che la
morte renderà definitivi. La si distingue, quella voce, da alcune
tonalità particolari, che vanno dalla recitazione un po' sfilacciata
e in prima persona alle sovrapposizioni di tempo e di luogo, dalle
strategie oblique del suo bavardage fino alle sproporzioni ben
poco euclidee di causa ed effetto, di moventi e risultati, di impiego
e ricavi; infine, per un'insopprimibile e quasi infantile tendenza
alla menzogna e per la ricerca dei più impresentabili alibi. E',
insomma, la voce di un «umorista» particolarissimo, di un
«auto-umorista», come lo era già stato del resto Sterne, il primo
a denunciare, nel Tristram Shandy, gli strani comportamenti
della «coscienza».
Mai come in questo caso,
allora, per descrivere un progetto di lettura, occorre cominciare
dall'indice, che comprende pezzi decisivi dell'ideale «enciclopedia
e prosopopea storica di Zeno», raccolta da Mario Lavagetto: un
montaggio a collage che potrà suscitare perplessità tra i non pochi
seguaci della religione che vuole il protagonista sveviano uno e
trino, unitario e monoloquente, in definitiva, nella trinità delle
fattezze e nello stile «storico» dei ritratti (quello dell'Alfonso
di Una vita, dell'Emilio di Senilità, dello Zeno de La
coscienza). Potrà sembrar loro sottigliezza eccessiva, se non
paradossale, una ricerca di affluenti e defluenti (verso e da Zeno),
che spesso aggira le cateratte per soffermarsi su alcuni rigagnoli,
che insomma sembra cancellare le prime incarnazioni del prototipo per
cercare ai loro bordi (come nel Diario per la fidanzata, ad
esempio) i segni di un'incipiente terza metamorfosi.
Lavagetto appare
rassegnato, nella prefazione intitolata appunto, nudamente, Zeno,
alle ipoteche che si addenseranno su questo strappo nella carne
dell'opera e nella «carriera» di Svevo, tra le quali quella di
poter apparire soltanto provocatorio ; ma si mostra altrettanto
deciso a correre il rischio, oggi, non foss'altro che per
interrompere un'abitudine di lettura o fatta per vertici (i tre
romanzi e basta) o pazientemente costruita lungo l'opera omnia, più
o meno cronologicamente ben disposta. Dove tempi, orizzonti, modalità
di scrittura diverse, ragioni di crisi sopravvenute annegano, come
nel fluire suadente di una «galleria», risarcite da un'illusoria
«unità» autore-opera, senza essere state identificate
criticamente.
Dalla «galleria di
famiglia» provengono infatti tutte le immagini di continuità, più
meno autorizzate dallo stesso Svevo, mentre festeggiava (negli ultimi
quattro felicissimi anni della sua vita) l'uscita propria e
dell'intera opera sua dal tunnel abbandonato degli scrittori senza
pubblico: Zeno, fratello soltanto più anziano, più ricco e perciò
più ironico e flaneur di Alfonso e di Emilio; La Coscienza
ultima parte o terza puntata di un romanzo solo, semi-ciclico, come
se, adeguati i toni e le iconografie, dietro quei volti e quei nomi
cangianti ci fosse ancora un paradigma lineare nell'universo
biologico-sociale dei personaggi, una costanza di progetto analoga a
quella adoperata da Zola, nel ciclo dei Rougon-Macquart.
Ma Svevo, come Zeno, era
divenuto, invecchiando in gloria, un anziano signore molto
«bugiardo», spesso euforico, ciarliero e ghiotto di consensi, a
qualsiasi titolo gli provenissero: amava, come puntiglioso
commerciante, sentir lodare la sua merce nuova così come quella che
aveva dormito per decenni nei depositi di quel suo vizio privato e
fallimentare che era stata la Letteratura. Inutile chiedere a lui una
scelta, una discriminazione: amate Una vita? Certo, forse è
il mio unico «romanzo». Avete una predilezione per Senilità?
Capisco, del resto anche Larbaud...; e così via.
Di Svevo non ci si deve
fidare; e Lavagetto, impaginando il suo Zeno, mostra di fidarsene
poco o meglio, di fidarsene soltanto dopo averlo interpretato.
L'isolamento di Zeno
dalla galleria dei ritratti di famiglia ha appunto per scopo
principale l'interpretazione; è anzi già in sé un'interpretazione
o almeno una sua necessaria condizione di avvio. Con ciò non si
vuole neppure dire che il volume della «Biblioteca dell'Orsa» sia
soltanto un laboratorio per scrutare in profondità, dai palinsesti,
ai croquis e dai disegni preparatori fino alle successive
riprese, le orme di un capolavoro: è certo anche questo, ma in più
(miracoli sveviani) uno straordinario libro di lettura per turisti
colti, cui mostra «come si deve o si può leggere il quadro» senza
annoiarli affatto, anzi coinvolgendoli in sorprendenti riscoperte.
Il filologo ovvero il
critico «calvo, assiduo, dalle orecchie lunghe e dal piccolo piede
tenero dolcemente scricchiolante» (tanto per rubare a Joyce
un'immagine che Svevo ricorderà bene), se riesce ad accettare le
finalità del laboratorio, potrà forse cogliere qualche carenza
«didascalica» nell'impianto, ritenere troppo vasta per un verso o
troppo angusta e unilaterale la raccolta di ingredienti testimoniata
dall'indice : quel che conta, una volta tanto, è il principio. Tutto
quello che serve a comprendere Zeno è lì, ai piedi della sua
predella: ma prima, Zeno.
C'era stata una crisi,
ventennale, troppo spesso ridotta alla pura questione privata del
fallimento artistico, della sana economia familiare (specie quella
dei Veneziani) da risarcire: da tale crisi (secondo la leggenda in
parte voluta da Svevo stesso) il savio massaro sarebbe uscito un
giorno, più o meno intatto di voglie e vocazioni, profittando dei
silenzi della Borsa e della decompressione che la guerra aveva
prodotto sul suo tempo, già frastornato dai ritmi della produzione
industriale di vernici. Dentro questo spazio di crisi, nel privato e
nella storia, si è invece consumato per intero il «mondo di ieri»
(se così si vuoi definire dolcemente, con Stefan Zweig, lo «stupido
Ottocento»); sono nate, sotto gli occhi vigili dello scrittore
latitante, le scienze e le tecniche nuove del Novecento, dalla
psicoanalisi alla fisica relativa, dalla linguistica al cinema; uno
dei più intransigenti rifondatori della forma narrativa europea
(James Joyce) è andato casualmente ad abitare a due passi da lui e
si è legato alla sua vita in un intrecciò aperto di echi scambiati.
Infine, è esplosa
l'apocalisse del '14-'18: di fronte a questa fin troppo rapida tavola
sinottica, immaginare che Zeno potesse davvero essere soltanto «un
fratello più anziano e più ricco» dei due predecessori significa
pensare di Svevo tutto quello che ne pensava crudelmente Bobi Bazlen
(«Non aveva che genio, nient'altro. Per il resto era stupido,
egoista, opportunista, gauche, calcolatore, senza tatto»,
scriverà in una lettera a Montale); e in più negargli anche ogni
traccia di genio.
Per cogliere in
profondità la trasformazione di Zeno occorre diffidare di Svevo.
Perfino l'aggiornato gioco con la psicoanalisi gli serve a costruire,
più che uno di quei tecnoromanzi che spesso sognava (aveva sognato
anche un «romanzo della trementina»), un narratore del tutto
inattendibile: «La sua grande invenzione — scrive Lavagetto —
nel momento in cui mette in scena un personaggio così subdolo ed
evasivo, così opinabile^ così capzioso, così bugiardo come Zeno,
consiste proprio nell'aver inventato e incuneato, e successivamente
registrato, tra ognuna delle sue sillabe, un discorso nascosto sotto
il discorso di chi ufficialmente parla, si confessa, si giustifica,
si difende, accusa, costruisce con frammenti a volte sconnessi e
incompatibili la propria autoapologia o almeno una versione
accettabile dei fatti».
Quanto poi al suo uso
della psicoanalisi (non diciamo, né Lavagetto dice, l'uso che può
farne un interprete fuori del testo, ma quello che ne fa Zeno per
montare il suo testo) «... Come non cedere alla tentazione di vedere
alla spalle di Zeno la figura di un condannato alla pena di morte
che, per sfuggire al proprio destino, si mette a studiare il codice
penale e alla fine lo conosce con tanta sicurezza e precisione da
scovare gli errori e i vizi di forma commessi da uomini educati e
vissuti su quei codici?». E', tra l'altro, questa figura di
narratore interno tanto avvolto nella crisi d'ogni ordine (da quello
del tempo a quello del principio di non contraddizione), che rende
impossibile a Svevo raccontare una storia intera, attraverso di lui.
Quella voce l'ha inventata, ma nell'orbita di Zeno ne è anche
prigioniero. Per credergli di più, occorre sorprenderlo di lato, non
mentre intrattiene garrulo il suo fresco uditorio e i posteri,
finalmente intravisti, per rassicurarli sulla serietà della ditta e
sull'omogeneità complessiva dei suoi prodotti, ma quando parla
d'altri e di sé a se stesso.
La sua autobiografia
formale (di produttore di forme, cioè) la si troverà meno
mascherata, ad esempio, là dove è più deviata: in alcuni pensieri
frammentari e sospesi del «diario» (Pagine sparse) o
addossata ad altre storie, come nel rapido profilo dello Stradivari,
che riscopriamo nel Soggiorno londinese, dopo averlo chissà
quante volte scorso senza metterlo mai a fuoco; e forse è anche
questo un merito dell'ordine nuovo che Lavagetto ha dato al suo
(direbbero gli urbanisti) «asse di lettura attrezzato».
Se all'Amati — maestro
dello Stradivari — volessimo sostituire la narrazione in terza
persona tipica dei modelli narrativi cui Svevo s'era adeguato in
gioventù (da Flaubert a Zola), e all'arte nuova di Stradivari
l'enorme sforzo sperimentale compiuto per frantumare quel materiale,
rifarne le forme e ricomporlo per un diverso suono, allora questa
vicenda estetica dell'antico liutaio finirebbe per assomigliare
straordinariamente, in questi anni tra il '23 e il '25, al travaglio
teorico, alle tentazioni di virare di nuovo verso tecniche più
tradizionali, di cui Svevo farà cenno anche in alcune lettere a
Montale. Corto viaggio sentimentale ('25-'26), ad esempio, che
pure è un piccolo, ambiguo capolavoro, non figura nella raccolta che
ha per epicentro (tra incubazioni e postumi) il soggetto nuovo Zeno,
forse proprio perché, nell'anamnesi del personaggio sveviano, è
come una parentesi, un tentativo di ritorno al soggetto trattato come
oggetto.
L'implicita dichiarazione
di poetica che si può dedurre, come da un apologo, dalla divagazione
su Stradivari, è comunque una delle tante che danno ragione e
giustificazione all'operazione compiuta da Lavagetto. Nessuno,
crediamo, dopo molte mostre e cataloghi storici dell'arte di
Stradivari, vorrebbe metter in questione l'utilità di una mostra che
documentasse i tempi e le tecniche attraverso le quali egli «deviò»
dalle «già perfette forme del suo maestro Amati»; e pochi,
speriamo, vorranno pregiudizialmente rifiutare l'opportunità,
l'utilità di un libro che documenta come Svevo «deviò» dalle «già
perfette forme» da lui stesso costruite.
“il manifesto”,
ritaglio senza data, ma 1987
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