25.11.14

Culti meridionali. Un solco nella neve (Alfonso M. Di Nola)

Bacugno (Rieti), Il toro ossequioso alla festa della Madonna della Neve
Chi conserva memoria delle letture classiche di lontani anni liceali riesce a rievocare, all'interno di monotone descrizioni di battaglie e di lotte civili, l'improvvisa fresca notazione di eventi straordinari: l'irrompere nelle vicende degli uomini di segni e prodigi, di portenti e di mostruosità climatiche e animali, nei quali si manifesta una segreta, inattesa presenza numinosa. E' forse lo spiraglio del popolare aperto nel piatto ritmo della storia aulica. Statue di dei improvvisamente lagrimanti, pioggia di color rosso in questo o in quel municipium italico, nascita di buoi con due o tre teste, l'immagine di Giunone che apre gli occhi a Lavinio, il dio Marte che scuote, in una foga guerriera, la sua lancia e, singolare prodigio teofanico. la discesa della neve in agosto o in luglio. I romani sanavano questi eventi sconvolgenti con il ricorso alle placazioni, ai riti che ricomponevano nell'ordine l'universo sconvolto dal disordine. Giunta la notizia a Roma, rapidamente portata dai cursori a cavallo, i sacerdoti annunziavano la qualità eccezionale dei segni, qui e lì emergenti nei municipi e nelle colonie, e gestivano i grandi cerimoniali di salvazione, per esempio l'offrire cibi abbondanti agli dei sui loro lettisterni una sorta di divani, o il girare tre volte intorno alla città con un porco, una pecora e un toro. Le culture cristiane, che succedono al mondo tardo-antico, queste cose straordinarie le hanno ereditate e piegate alla loro visione del mondo.
Il quattro-cinque agosto sono giorno pregni di annunzi e segni miracolosi, che attestano l'irrompere della teofania nella storia quotidiana, e la gente, nel mondo antico, era in attesa di radicali capovolgimenti diretti a modificare la miseria del quotidiano. Sull'Esquilino, a Roma cade, in queste giornate, la neve abbondante e sfida la canicola incombente. Prodigio, portento, miracolo, taumaton, che dissolve le cadenze della normalità e contiene un messaggio. Secondo la tradizione che viene da dimenticati libri di cronaca, il papa Libano il 5 agosto del 356, scende dalla sua sede, accompagnato da preti e celebranti, e sulla piana dell'Esquilino, coperta di neve in agosto, traccia un solco che delimita la costrizione della chiesa mariana più antica, quella Santa Maria Maggiore che, conclusa nelle sue strutture medioevali, la devastazione barocca e tardo-barocca dei Borromini e dei Bernini, ridusse a fantasma di glorie architettoniche. E questa tracciatura di solco, cosi densa di rimandi alla nostra cultura contadina, rappresentata nei mosaici esterni della chiesa romana, diviene per ogni cittadino un inaccessibile topos della nostra storia: canonici severi, spesso stupidi e ignoranti, proprietari di case e di appartamenti vuoti lungo tutta la via Merulana, sottratti alla sete di mura dei poveri e degli indigenti, raramente ti fanno salire ai mosaici per accertare una storia eccezionale.
L'evento prodigioso di Roma si fa modello di innumeri celebrazioni attuali intorno alle chiese dedicate alla Madonna della Neve. In un villaggio della provincia di Rieti, Bacugno, frazione del comune di Posta, si cumulano nel rituale contadino del 4-6 agosto le più differenti stratificazioni di matrice pagana. La chiesa della Madonna della Neve, ricostruita, dopo un terremoto, ai principi del XVIII secolo sulle rovine di un più antico tempio cristiano eretto nel luogo di un sacello di divinità italiche, diviene una sorta di topos di remote cerimonie. Dalla collina imminente un gruppo di contadini, attualmente sostituiti da artigiani e operai, traccia un «solco dritto», che scende verso uno degli angoli della chiesa, si tratta di una tracciatura rigorosamente regolata dalla tradizione, un solco non utile ai fini coltivatori, e tuttavia, esemplare e modulo di tutti i solchi futuri che saranno segnati nell'epoca dell'aratura. Prova di precisione e di perfezione lavorativa, il «solco dritto», presente in molte parti d'Italia, si configura come un esorcismo dei mali futuri che possono derivare da tracciature confuse e imperfette. Ma contemporaneamente da una zona distante del villaggio i contadini accompagnano preocessionalmente un torello selvatico, una volta un bue aratore, la cui presenza è stata distrutta, qui, dagli avanzamenti tecnologici. Il torello passa in mezzo alla folla dei fedeli, qualche volta donne e maschi gli si avvicinano per stringergli lo scroto e le gonadi, quasi a ricavare forza generativa dal contatto. Il toro, condotto fino alla soglia della chiesa, è costretto a inginocchiarsi più volte dinanzi al prete che esibisce le reliquie del velo di Sant'Anna e di quello della Vergine: una genuflessione che è stata ottenuta dall'abile tirocinio cui l'animale è stato sottoposto per molti giorni. Né manca, in questa festa bacugnese il tema dell'ultimo covone, che sarebbe piaciuto a Frazer. Un potente covone di grano, detto «mannocchio», viene trasportato nella processione, dietro il prete che regge le relique e dietro la tenue patetica schiera delle Figlie di Maria che levano al ciclo le scomposte cantiche cristiane nella lingua italo-reatina. Qui resta viva la memoria di un'antica dea italica, Vacuna, signora del territorio sabino, forse nume femminile della terra e della fecondità, che avrebbe dato, secondo una probabile ipotesi, il nome al villaggio (Bacugno da Vacuna). E veramente in questa campagna ubertosa e felice si fondono i segni mirifici della neve in agosto, la venerazione cattolica della Vergine, i ritmi cerimoniali tardo-antichi e forse alcuni residui medioevali e barbarici, se un testo del IX secolo, l'Indiculus superstitionum, di influenza longobarda, vieta, nella sua rubrica de sulcis, di trarre pronostici dalla tracciatura dei solchi. E la commistione resta tanto evidente e parlante che un parroco degli scorsi decenni, in un diario che mi è stato dato di consultare, scriveva che «il sacerdote in quel giorno passa in sottordine. Da ministro di Dio diviene pupazzo nelle mani di veri anticlericali...». Il personaggio più importante del giorno è «il toro addobbato e ammaestrato».
Nuova Cliternia (Campobasso), Il santuario della Madonna Grande
Proprio in questo ritmo di giorni dominati dal Cane canicolare, la neve di agosto appare, secondo la tradizione contadina, in un disperso paese molisano, a Nuova Cliternia, sulle sponde del Biferno, dove il santuario di Madonna Grande, una costruzione amorfa ottagonale che attualmente custodiscono, con la loro ingenua pietà, le monache benedettine di Montevergine. Me lo ha segnalato, ancora una volta, Emiliano Giancristofaro, un cronista della povertà sacrale del Meridione, che fonde l'impegno della ricerca sul campo, di preciso gusto demartiniano, con una solerte pietà storica nei riguardi di queste povere tradizioni del Sud, così distanti dall'aulica cerimonialità della chiesa ufficiale: e Giancristofaro, il paziente continuatore di quella Rivista Abbruzzese ricca di alte memorie crociane, mi ha accompagnato sul posto e mi ha spiegato il rito. Vengono qui, presso Serracapriola, dove infierì il dominio feudale vicereale e borbonico, le donne di Puglia e di Molise, spesso ancora a piedi, e i piedi denudano nell'area sacrale. E per tre volte girano intorno alla costruzione cementizia, brutta, insensata, dominante nel calore estivo; e per tre volte girano intorno ad essa, secondo un costume, quello della magica circumambulazione triplice che appartiene alla tradizione italica e antico-romana, quasi uno stringere nel ritmo ambulatorio la potenza nascosta nel Baccello, evocata e carica della sua qualità benedittoria.
E qui, in questa cima desolata, si conserva il luogo epifanico nel quale la Madonna in agosto, apparve a un rustico, e fece scendere la neve, invitando i preti a tracciare la pianta del saccello ottogonale. Memorie sconvolgenti che la gente di qui rivive nelle narrazioni sacrali dinanzi agli occhi stupefatti dei bambini. E i pellegrini, carichi delle loro seppellite angustie, si fanno grida viventi della prostrazione del Sud: entrano nella cella, simile a un gallinaio, che definisce in aeternum lo spazio sacrale della Madonna nevosa, e fra il 12 e il 14 agosto, affidano a lei, in brevi richieste, dure e offensive, la soluzione della cronaca meridionale. Passano queste madri e queste spose, attraverso un foro stretto all'interno del gallinaio sacrale, e proclamano la loro trita, drammatica esistenzialità: «Fa Madonna della Neve di Agosto, che mio marito non mi tradisca, torni dalla Germania», «Fa Madonna della Neve che mio figlio trovi un posto», e il linguaggio si fa eroica sfida contro gli dei ignoti che dominano il cielo rurale e pastorale. E ancora una volta stimola la memoria quella necessità demartiniana di sondare il reale, di ricostruirlo attraverso la fatica sul campo, che l'antropologia da tavolino, così facile e gratificante, spesso in Italia, dimentica.

"il manifesto", ritaglio senza data, probabilmente agosto 1986

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