12.10.16

Il miliardario contro la casta (Gea Scancarello)

Pare che le ultime gaffe spontanee o studiate, specialmente quelle di sapore maschilista, abbiano fatto calare le perrcentuali di Trump nei sondaggi, rendendo più probabile l'ascesa alla presidenza USA di una donna, per la prima volta nella storia dell'Unione. Il successo del “populista” miliardario nella conquista della candidatura contro l'establishment del suo stesso partito (contro cui continua a polemizzare platealmente anche in campagna elettorale) è ragione sufficiente per una riflessione. L'articolo che segue, che dà conto di uno studio americano, offre qualche valido spunto. (S.L.L.)

L’attimo fuggente. Quell’istante di verità non calcolata, ma forse prevedibile. Il momento dell’allineamento perfetto tra il magnate, il cittadino medio e lo zeitgeist oltre la telecamera: ed è subito Trump.

That makes me smart, questo perché sono intelligente, ha risposto fiero The Donald all’accusa sdegnata rivoltagli da Hillary Clinton di non aver pagato nemmeno un dollaro di tasse, durante il primo dibattito presidenziale americano, in mondovisione. Molti l’avrebbero ritenuta un’ammissione sufficiente a finire davanti a un giudice federale; lui l’ha usata come volano per provare ad agganciare un popolo intero. E basterebbe questo, forse, a raccontare cosa sia diventata, anche a latitudini ben lontane dalle beghe dell’Italia tribalista postberlusconiana, la discussione politica di una democrazia complessa e articolata: avvitata, come poche volte in passato, in un populismo difficile da decodificare e smantellare.
Ancora più curioso è che siano servite solo quattro parole, su un totale di 16 mila snocciolate in 90 minuti di scontro, per scoprire le carte e realizzare l’affondo. D’altronde, la pochezza delle frasi, anche numerica, è uno dei parametri utilizzati da uno studio dettagliato per raccontare il tono della campagna politica che l’8 novembre porterà un nuovo inquilino alla Casa Bianca; firmato da J. Eric Oliver e Wendy M. Rahn, pubblicato negli “Annali della American Academy of Political and Social Science”, Rise of the TrumpenVolk analizza nel dettaglio, tra le molte cose, la semantica, lo stile e persino la struttura linguistica dei pretendenti al trono.
Più brevi le parole, meno articolato il pensiero, maggiore l’impronta populista: e l’indagine computerizzata su migliaia di ore di discorsi rivela che Trump è, tra tutti i candidati (e gli aspiranti tali) a sedersi nello Studio Ovale, quello che più spesso ha scelto parole con meno di sei lettere, abbinate a periodi composti in media da non più di 10 parole. Il semplicismo come valore, o come capacità da esibire.
Politicians, politici è probabilmente l’eccezione linguistica alla regola, ma racconta di un’altra condizione tanto in voga quanto difficile da sviscerare: l’avversione alle élite. In Italia si chiamerebbe casta; negli Stati Uniti, oggi, è l’establishment, la lobby, il Congresso o il partito, democratico o repubblicano che sia: giacché sono la disunione interna, la litigiosità, le faide e le ripicche reciproche ad aver creato lo spazio per i nuovi campioni della politica. Non è un caso che proprio Trump, con credenziali identiche a quelle attuali, esplorò la candidatura anche nel 2000, senza riuscire ad andar oltre alle ambizioni: molto, a Washington e fuori, da allora è evidentemente cambiato.
Il magnate ha menzionato i politicians sette volte durante il dibattito: sempre in antitesi da sé. Loro: privilegiati, lontani, indifferenti, incapaci di capire e di risolvere, o forse nemmeno intenzionati a farlo.
Seguendo una logica che non segue più però le cose di questo mondo, il denaro esibito con sorriso smargiasso da Trump dovrebbe essere corredo essenziale dell’élite, e dunque allontanare l’uomo Donald dal suo popolo, come peraltro amava dire Bernie Sanders, l’altro indiscusso catalizzatore di masse e umori che fino all’ultimo ha rischiato di soppiantare Hillary nella corsa, proponendosi come vergine alternativa ai maneggi democratici.
Ma non in questi tempi di populismi compositi e altamente strutturati, a dispetto del comun profetizzare. Perché – rivela ancora “Rise of the TrumpenVolk” – il secondo asse del populismo di nuova foggia è la sfiducia negli esperti: scienziati, politici o analisti finanziari che siano.
Così, mentre i business man per diritto ereditario nell’immaginario collettivo sorpassano in capacità gli economisti, nella tesi del magnate neo-repubblicano il cambiamento climatico si trasforma in una bufala messa in giro dai cinesi, come ha ricordato con malcelato piacere Hillary Clinton davanti ad almeno 100 milioni di spettatori. E le teorie cospirative diventano pane per elettori in cerca di rappresentatività e rivincite, mescolate al fondamentalismo e al cosiddetto nativismo: tanto che si invoca il muro col Messico a cementare la primazia dei diritti per i cittadini venuti alla luce nel Paese, a dispetto di stranieri e immigrati, anche regolari.
Quanto sia fattibile non importa: funziona non quando esiste, ma finché canalizza la rabbia, talvolta il conservatorismo, il senso di emarginazione, l’anomia. Condizioni e attitudini più o meno evidenti ma, secondo le analisi, determinanti nel successo populista, e incarnate con inconsapevole perfezione dai supporter imbufaliti e aggressivi presenti alle adunate oceaniche di The Donald. Ma anche nelle manifestazioni della tifoseria anti-elitaria di Sanders, incapace di rassegnarsi alla sua sconfitta e al successo di un membro dell’establishment.
Più difficile è capire come la sfiducia negli esperti e l’avversione alla casta possano andare di pari passo al sentimento nazionale, terzo baluardo di una cittadinanza elettorale che non crede più nelle istituzioni né nei suoi uomini, ma aggrappa le proprie speranze a un’affiliazione con capacità demiurgiche: il potere del popolo e della vera gente. Ma è un paradosso che si scioglie – tanto in Italia quanto in America, e persino nella Gran Bretagna dell’ideologo Corbyn – con la capacità del leader populista: ogni sentimento ha bisogno del suo pubblico e del suo oratore. E sembra quasi superfluo dunque ricordare il battage patetico del tycoon sul certificato di nascita di Barack Obama, presidente dal Dna diversamente ricco e dalla pelle marcatamente scura, tacciato di non essere un vero americano, quindi impossibilitato a guidare la nazione.
Non è dato sapere quanti birthist fossero nella sala della Hofstra University di Hamspead, mentre The Donald cercava di spiegare perché soltanto alla fine del settembre 2016, cinque anni dopo l’esibizione di quel certificato, ha infine ammesso che sì, accidenti, Barack Obama è davvero americano. Ma c’è da immaginare che Hillary Clinton possa essersi gustata un momento di rara felicità, unica tra gli aspiranti commander in chief a rifuggire (per lo più) dalle scorciatoie demagogiche: come provano, oltre alle tabelle di queste pagine, anche le fatiche a conquistare la nomination.


Pagina 99, 1 ottobre 2016

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