3.10.16

Amleto. La sua follia è anche “politica” (Pier Maria Pasinetti)

Vittorio Gassman nel ruolo di Amleto (1960)
Nessuno legge, gli indici d'ascolto alle voci della letteratura vera e propria sono irrisori non solo per i contemporanei (là è la catastrofe) ma per i classici più canonizzati. Siamo tanto abituati a ricevere meste informazioni del genere che si drizza l'orecchio se appena appena si fa la scoperta di un segno contrario e minimamente ottimistico.
Tanto più se ci si accorge che era una scoperta ovvia, bastava occuparsene un momento, la cosa era lì. Per esempio ho visto che l'Amleto della BUR, con introduzione e testo a fronte a cura del compianto Gabriele Baldini, ha raggiunto qualche settimana fa la sesta edizione. Ci sono altri analoghi «Amleti» sul mercato; pure, già per questo solo, l'unità di misura delle vendite nel corso delle regolari edizioni non è stato il migliaio ma la decina di migliaia. Abbiamo ciò che direi il minibestseller tranquillo e durevole.

Un dramma «irregolare»
Ci saranno molti altri casi del genere e mi affretto a venire a un altro punto, che è poi il più importante. Ho colto qui al balzo il caso di un'opera drammatica, anzi addirittura della più famosa e rappresentata, forse, al mondo. E il punto è questo: le regolari vendite segnalerebbero una persistente domanda del testo completo. Continuando nell'ipotesi ottimista, immaginiamo un lettore che dopo aver conosciuto vari Amleti, da quelli con il teschio a quelli sul sofà dello psicanalista o in altre posizioni, leggendolo ora intero e dando magari qualche occhiata alla pagina sinistra con l'originale, arrivi a concludere che l'eccessivo protagonismo di tanti Amleti vada a svantaggio di tutti, spettatori e Amleto stesso compresi.
Insomma è il momento di provare a vedere, su qualche campione dell'immenso dramma, se il protagonista non diventi più interessante e attuale quando lo si veda, in posizione eminente senza dubbio, ma in un pieno contesto politico e familiare.
La coppia di aggettivi è opportuna perché «Amleto sara anche un dramma «irregolare» e un po' scombussolato ma rimane, se occorre dirlo, nella grande tradizione classica presentando una dimensione individuale e domestica insieme a una dimensione pubblica, come le grandi tragedie dell'antichità basate sui miti di Argo e di Tebe.
Solo che qui, nonostante le apparenze danesi e l'epoca relativamente remota, siamo chiaramente in una società, un regno, e una corte, un «palazzo», rinascimentali ossia «moderni». C'è un sovrano che detiene il potere e buona parte dell'azione ha a che fare con il modo in cui quel potere è stato raggiunto e con i mezzi per mantenerlo. E c'è una struttura del «palazzo»: il re ha intorno a sé vari cortigiani fra i quali Amleto, il principe ereditario, è solo il più in vista.
Il modo in cui lo Stato e la corte di «Danimarca» sono presentati fin dalle prime battute è ben noto: in immagini di corruzione e marciume. E già qui si può limitare l'eccessiva concentrazione sul protagonista e contenere l'attesa di chi vede nei suoi soliloqui qualcosa come le arie di un tenore favorito; la sua posizione di denunciatore della decadenza attuale, e la maggiore pezza d'appoggio per la sua denuncia — l'assassinio di suo padre e il conseguente desiderio di ottenere vendetta e purificare la corte distruggendo il re attuale sono fattori essenziali ma non fanno tutto il dramma. E poi, del resto, la situazione pubblica viene indicata - e Marcello ha pronunciato il famoso «C'è qualcosa di marcio... » - prima che Amleto abbia parlato con lo spettro di suo padre e appreso quella versione dell'antefatto tragico.
Insomma fin dal principio il senso di incombenti pericoli esterni, (non a caso si comincia con le sentinelle a guardia di notte sugli spalti del castello) e di lacerazione interna trascendono la storia personale di Amleto, della vendetta, del delitto di re Claudio: questi appaiono come altrettanti sin- tomi di un più generale quadro di corruzione e di disfacimento. Sino dalla prima assemblea di corte i due eminenti giovani cortigiani, Amleto e Laerte, progettano solo di andarsene, sono cioè il contrario dei fedeli paladini e «supports du tròne» al modo stesso che Claudio, colpevole di assassinio, e poi, sposando la regina Gertrude, di un atto che il vigente codice bolla come incestuoso, è il puntuale capovolgimento dell'ideale «pater patriae» e «pater familias».
Sempre geniale e affascinante è la maniera in cui tale sovvertimento è espresso nei termini scenici, piani e visibili, della vita e delle istituzioni di corte. Siamo probabilmente di fronte a una delle più brillanti definizioni di ciò che costituisca l'«andare a pezzi» di una società. Come in tutte le fasi tarde e decadenti di una struttura sociale o artistica (la corte in certo modo è ambedue queste cose), invece di sostanza abbiamo apparenza, le facciate adorne e vuote; così Polonio, che dopo Amleto è la figura più eminente della casa reale, è presentato satiricamente nelle sue formalità verbali e nelle sue vacue norme di condotta. Il linguaggio si svuota, è elaboratissima ovvietà. Le maniere diventano manierismi. E le tradizionali forme e istituzioni, le pompe e le solennità della vita di corte, appaiono in varianti corrotte e distorte. Il linguaggio dell'amore cortese diventa per opera di Amleto una parodia di «civil conversazione» nella scena del «teatro nel teatro» dove il teatro stesso, tradizionale istituzione di corte, è usato politicamente dal protagonista per intrappolare e smascherare il re.
Ci sono i noti elementi di grottesco nel modo di trattare le situazioni macabre e funebri, basti pensare alla morte di Polonio, scambiato per il re e infilzato dietro l'arazzo, o ai celeberrimi riti per Ofelia. E infine il torneo d'armi, tipico test di valore e di destrezza dei cortigiani di fronte al loro re, qui per disegno del re stesso si trasforma nella grande, conclusiva carneficina. E chi ha invitato Amleto a quella festa è Osric, la «libellula», la caricatura delle vuote formalità cortigianesche.
È palese quindi che tanti Amleti prevalentemente interiorizzati e autocontemplativi rimangono un po' astratti; il personaggio è completo non in un luogo della mente registica ma piuttosto nella dimensione del regno e della corte con i loro svariati modi d'azione, meccanismi e conflitti. L'indeciso rapporto fra pensiero e realizzazione, intento e atto, nella condotta del protagonista — tema quant'altri mai calcato negli innumerevoli Amleti dei secoli — trova il suo grande analogo nello sfasciarsi di quelle norme di condotta che avrebbero guidato le azioni pubbliche in un «palazzo» bene governato e che ora hanno perso dignità e valore.

Un codice alternativo
In un quadro pubblico così desolato e infetto, ci si domanda se Amleto stia cercando salvezza in un suo codice alternativo di condotta, magari stravagante e folle; ma in realtà il principe sembra troppo immerso non solo nella disperazione ma proprio in quel meccanismo di corte al quale inevitabilmente appartiene, per cui il suo umore balzano, la sua «antic disposition», è una mossa strategica, la sua follia è politica, tutt'altra cosa da quella di Ofelia con le sue canzonette orrendamente strazianti e dolci. Tuttavia, il tono melanconico e spesso moraleggiante del discorso di Amleto, e lo stesso desiderio di vendetta, paiono indicare nostalgia di un mondo, come dobbiamo supporre sia stato quello di suo padre, retto da rapporti leali e da rispettati codici d'onore.
Degno di nota a questo proposito è l'atteggiamento di Amleto verso Fortebraccio. Non di rado «tagliato» in produzioni amletiche attraverso i secoli, Fortebraccio è personaggio verso il quale il drammaturgo attira la nostra attenzione proprio all'inizio della tragedia, e in modo decisivo alla fine. È in lui che paiono essersi conservati ideali e codici oggi corrotti e stravolti alla corte «danese» ed è lui, naturalmente, che ha il «voto» per la successione dalla moribonda voce di Amleto. E cavallerescamente dichiara che se non fosse successo tutto quel che è successo (e che Orazio ha appena riassunto in versi tra i più memorabili della letteratura drammatica di tutti i tempi) Amleto si sarebbe probabilmente dimostrato molto degno della regalità.


Corriere della Sera, lunedì 13 agosto 1984

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