8.10.16

Iniziare un romanzo, un'arte senza fine (Giovanni Raboni)

Victor Hugo
Be', si potrebbe cominciare così: «Sappia dunque la signoria vostra, prima d'ogni altra cosa, che mi chiamo Lazzaro di Tormes, figlio di Tommaso Gonzales e di Antonia Perez...». Oppure, con sbrigativa solennità: «Chiamatemi Ismaele». O ancora, con causidica e disperata ironia: «Una delle poche cose, anzi forse la sola ch'io sapessi di certo era questa: che mi chiamavo Mattia Pascal».
Certo, si potrebbe cominciare così: presentandosi con tanto di nome e cognome e paternità; o almeno con il nome di battesimo. Ma, qualche volta, le circostanze del passato potrebbero indurre a un maggior riserbo: «Il mio vero nome è così noto negli archivi e registri del carcere di Newgate e dell'Old Bailey, e vi sono ancora implicati, riguardo la mia personale condotta, certi fatti di tanta importanza, che non dovrete attendervi che io accompagni al racconto il mio nome o un ragguaglio della mia famiglia...».
E poi, non è detto che sia proprio necessario, per raccontare una storia, esporsi in prima persona: si può benissimo presumere, o fingere, che si tratti di qualcun altro, di una terza persona: per esempio un personaggio famoso delle cui vicende si sia minuziosamente al corrente («Nell'autunno del 1787 Mozart intraprese, in compagnia di sua moglie, un viaggio per Praga...»), o un uomo d'alto lignaggio al quale attribuire un nome di fantasia («Edoardo - chiameremo con questo nome un ricco barone nel fiore dell'età virile - aveva trascorso le più belle ore d'un pomeriggio d'aprile nel suo frutteto...») o, al contrario, un tipo così normale, così qualunque, che non conta tanto come si chiama, quanto come lo chiamano: «Tutti ormai lo chiamavano don Ciccio».
Il lettore si rassicuri: non ho nessuna intenzione di giocare agli indovinelli. Mi affretto dunque a dichiarare (pur ritenendo la precisazione largamente superflua) che le mie non erano ipotesi o proposte, ma pure e semplici citazioni. Ecco qua, nell'ordine: La vita di Lazzarìno di Tormes (1554) Moby Dick (1851) di Herman Melville; Il fu Mattia Pascal (1904) di Luigi Pirandello; Moll Flanders (1722) di Daniel De Foe; Mozart in viaggio per Praga (1856) di Eduard Mòrike; Le affinità elettive (1809) di Johann Wolfgang Goethe; Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957) di Carlo Emilio Gadda.
Tanto affastellamento di nomi, titoli e date (e siamo solo all'inizio!) è per rispondere, anzi per tentare di rispondere a una domanda semplicissima: come si fa a cominciare un romanzo? O, se si preferisce: come iniziano i romanzi (alcuni dei romanzi) più belli o famosi?
Curiosità legittima, impresa, ahimé, tanto affascinante quanto disperata. Anche se ci limitiamo a prendere in considerazione il moderno romanzo occidentale, cioè la tradizione alla quale appartengono, bene o male, i romanzi che ancora oggi si scrivono e si pubblicano (altrimenti, dicono gli esperti, dovremmo risalire alle chansons de geste medievali, o alle narrazioni ellenistiche dei primi secoli dopo Cristo, o ad ancora più remoti testi aramaici o assiro-babilonesi, o addirittura ai poemi omerici...), e prendiamo dunque come punto di partenza il Gargantua e Pantagruel di Francois Rabelais, o il romanzo picaresco spagnolo (di cui il già citato e anonimo Lazzarino di Tormes è il primo esempio conosciuto), o il Don Chisciotte di Miguel de Cervantes, quello che ci sta di fronte è un territorio sterminato, un vero e proprio continente, ricco di città e foreste, di fiumi e montagne, di zone infinitamente popolose e di terre suggestivamente desolate; un mondo intero di storie - migliaia, decine di migliaia di storie - che nel corso di quattro secoli sono state raccontate, ripetute, variate e dunque, ogni volta, «cominciate», cominciate in tanti, tantissimi
modi diversi, dai più canonici ai più bizzarri, dai più prevedibili ai più stupefacenti.
La campionatura offerta poco fa riguardava una sola - la più naturale, in un certo senso - delle categorie possibili: quella in cui l'inizio coincide con la presentazione «anagrafica» (ingenua o sofisticata, schietta o reticente) del protagonista narrante o narrato. È forse inutile aggiungere che, in questo come nei casi che seguiranno, la campionatura non soltanto è minima rispetto alla vastità della casistica, ma è anche, inevitabilmente, dettata dai gusti, dalle predilezioni, dalle personali nostalgie di chi la effettua: in questo caso, ovviamente, dai miei. In altre parole, nel mettere insieme un minirepertorio di «come si comincia» uno finisce col dare, lo voglia o no, anche una mappa delle sue letture privilegiate, dei suoi amori, dei suoi «points de repère»; e dunque, indirettamente, una lista subdola di libri consigliati, di libri «da leggere»...
Chiarito, per scarico di coscienza, questo aspetto della faccenda, e prima di passare ad altri capitoli o settori dell'empiricissimo repertorio, vorrei avvertire che, a mio avviso, l'inizio di un romanzo ne condiziona solo fino a un certo punto lo svolgimento e il destino. A differenza di una poesia o di un brano musicale, in cui la battuta iniziale determina in modo ineludibile l'ambito tonale e il disegno tematico, un romanzo pone, con il suo inizio, delle premesse che il futuro del testo potrà confermare ma anche ribaltare, approfondire ma anche eludere: giacché il romanzo è davvero (e questa, penso, è la sua assoluta peculiarità rispetto ad ogni altro genere di espressione artistica) un organismo vivente, un'entità biologica, non meno che una struttura formale; qualcosa, insomma, che assomiglia alla vita, con le sue eccezioni e i suoi scarti, almeno nella stessa misura in cui assomiglia a un trattato di filosofia, a un'ode o a una sinfonia.
Ma torniamo al nostro gioco. Subito dopo la categoria degli inizi che ho chiamato «anagrafici» mi sembra ragionevole porre quella degli inizi di carattere temporale o cronologico, nei quali, cioè, l'autore dà o finge di dar conto del momento (anno, stagione, giorno del mese o della settimana, ecc.) in cui la narrazione comincia e, presumibilmente, è destinata a continuare. Anche in questa categoria si va da un massimo di precisione a un massimo di indeterminatezza, sottilmente sfumata o esibita.
Qualche esempio del primo tipo: «Il 15 settembre 1840, verso le sei del mattino, il Ville-de-Montereau stava per partire e spandeva grosse volute di fumo davanti al quai Saint-Bernard» (Gustave Flaubert, L'educazione sentimentale); «Il 15 maggio 1796 il generale Bonaparte fece il suo ingresso a Milano alla testa di quel giovane esercito che aveva passato il ponte di Lodi...» (Stendhal, La certosa di Parma); «Nel 1815 Charles-Francois Bienvenu Myriel era vescovo di Digne» (Victor Hugo, I miserabili); «L'inverno del '44 è stato a Milano il più mite che si sia avuto da un quarto di secolo» (Elio Vittorini, Uomini e no); e così via - è il caso di dirlo - all'infinito.
Ed ecco, invece, alcuni casi in cui si accenna, sì, a una circostanza temporale, ma in modo così generico o enigmatico da rendere la circostanza stessa assai più metafisica che reale: «Ai nostri giorni, ma è inutile precisare l'anno, una sera d'autunno, sull'imbrunire, una barca infangata e dall'aspetto equivoco navigava sul Tamigi...» (Charles Dickens, Il nostro comune amico); «In una giornata estremamente calda del principio di luglio, verso sera, un giovane scese in strada dalla stanzuccia che aveva in subaffitto...» (Fèdor Dostoevskij, Delitto e castigo); «Era tarda sera quando K. arrivò» (Franz Kafka, Il castello); «Quel giovedì dell'inizio d'aprile, il mio dotto amico, l'eminente Martial Canterel, mi aveva invitato, con pochi altri intimi, a visitare l'immenso parco che circondava la sua bella villa di Montmorency» (Raymond Roussel, Locus solus). E anche qui, è chiaro, si dovrebbe continuare chissà fin quando; per evitarlo, trascrivo l'incipit che, nel genere, mi sembra più beffardamente radicale: «Era un giorno qualunque di un qualunque gennaio» (Carlo Dossi, La desinenza in A).
Un degradare in qualche modo analogo dall'esattezza a un voluto offuscamento si può ritrovare nella non meno sterminata categoria degli inizi che potremmo definire «di luogo»: quelli, cioè, in cui si dice o si dovrebbe dire (e, a volte, si evita sottilmente di dire) dove il racconto è ambientato. Ne elencherò alcuni esempi seguendo, appunto, l'ordine della crescente indeterminatezza: «In quella parte dell'antica Cantabria, che da' più moderni fu detta Guipuscoa, e giace sul mare, rivolta a Settentrione...» (Daniello Bartoli, Vita di Sant'Ignazio); «Quel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti...» (Alessandro Manzoni, I promessi sposi); «A metà di rue Saint-Denis, quasi all'angolo di rue du Petit-Lion, c'era un tempo una di quelle case preziose che danno agli storici la possibilità di ricostruire per analogia la vecchia Parigi» (Honoré de Balzac, La maison du chat-qui-pelote); «Alla fine di rue Guénégaud, venendo dal Lungosenna, si trova il passaggio del Pont-Neuf...» (Émile Zola, Teresa Raquin); «In via Goròchovaja, in una di quelle grandi case, la cui popolazione sarebbe stata sufficiente per tutta una città di provincia, se ne stava di mattina a letto nel suo appartamento Ilja Iljic Oblòmov» (Ivan Goncarov, Oblòmov); «C'era in Westfalia, nel castello del barone Tunder-Ten-Tronckh, un giovane cui la natura aveva dato i tratti più dolci» (Voltaire, Candido); «Nel paese di Kuhschnappel l'avvocato dei poveri Siebenkàs aveva speso l'intero lunedì affacciato all'abbaino...» (Jean Paul, Siebenkàs); «In un luogo della Mancia di cui non voglio ricordarmi il nome, non molto tempo fa viveva un gentiluomo...» (Cervantes, Don Chisciotte); «Nell'ufficio di... ma è meglio non dire in quale ufficio» (Nikolaj Gogol', Il cappotto).
È meglio non dirlo, davvero; e a questa regola, da un certo punto in poi, si atterrà la maggior parte degli autori.
Ma passiamo, proseguendo ostinatamente nella nostra catalogazione dell'incatalogabile, a un'altra importante categoria: quella degli inizi gnomici, ovvero - in parole povere - quella dei romanzi che cominciano con una sentenza, volta a volta seria o scherzosa, solenne o futile: «Sarebbe il capolavoro della filosofia rendere evidenti i mezzi adoperati dalla provvidenza per raggiungere i propri fini...» (Sade, Justine); «È verità universalmente riconosciuta che uno scapolo largamente provvisto di beni di fortuna debba sentire il bi§ogno di ammogliarsi» (Jane Austen, Orgoglio e pregiudizio); «La magnificenza e la galanteria mai ebbero in Francia tanto splendore, quanto negli ultimi anni del regno di Enrico II» (Madame de Lafayette. La principessa di Clèves); «Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece disgraziata a modo suo» (Lev Tolstoj, Anna Karenina); «Sotto certi aspetti ci sono nella vita poche ore più piacevoli di quelle dedicate alla cerimonia del tè del pomeriggio» (Henry James, Ritratto di signora).
In una variante singolare (e tipicamente settecentesca) di questa categoria, la sentenza si anima, si fa petulante e dialettica; mi limiterò a due esempi, a mio avviso bellissimi. Il primo è da Jacques il fatalista di Denis Diderot: «Come s'erano incontrati? Per caso, come tutti. Come si chiamavano? Che v'importa? Di dove venivano? Dal luogo più vicino. Dove andavano? Si sa forse dove si va?»; il secondo dal Tristram Shandy di Laurence Sterne: «Avrei desiderato che mio padre e mia madre, o meglio tutti e due, giacché entrambi vi erano egualmente tenuti, avessero badato a quello che facevano, quando mi generarono».
Il tempo stringe, la pazienza di chi mi legge sarà, suppongo, agli sgoccioli, e mi accorgo di avere ancora almeno due categorie di inizi cui accennare. Una è nientemeno che quella dell'accadimento puro, della coincidenza fulminea e totale fra inizio della narrazione e inizio del fatto narrato; insomma, dell'ingresso «in medias res». Categoria ancora più vasta e aperta delle altre, sospesa com'è fra l'infinità del possibile reale e l'infinità del possibile romanzesco: «La risposta del marchese di Croismare, se mai me ne darà una, mi fornirà le prime righe di questo racconto» (Diderot, La monaca); «Per quattro giorni filammo verso sud senza mai incontrare ghiacci» (E. A. Poe, Gordon Pym); «Pur essendo vecchio, generalmente passeggio di notte» (Dickens, La bottega dell'antiquario); «Per far parte del "piccolo nucleo", del "piccolo gruppo", del "piccolo clan" dei Verdurin, era sufficiente ma anche necessaria una condizione...» (Marcel Proust, Un amore di Swann); «Per tre o forse cinque centimetri non arrivava a un metro e ottanta» (Joseph Conrad, Lord Jim). «Al di là dello steccato, fra i rampicanti, poteva vederli giocare» (William Faulkner, L'urlo e il furore); «All'improvviso dal sentiero dei pascoli, ma ancora molto lontano, arrivò l'abbaiare di un cane» (Silvio D'Arzo, Casa d'altri); «Lolita, luce della mia vita, fuoco dei miei lombi (Vladimir Nabokòv, Lolita); «Nessuno poteva dormire. All'alba avrebbero calato in mare i mezzi d'assalto» (Norman Mailer, Il nudo e il morto); «Eccoci ancora soli» (Louis-Ferdinand Celine, Morte a credito); «Sono nella camera di mia madre» (Samuel Beckett, Molloy); «Oh sì, mi dico, presto sarà tutto finito...» (Celine, Nord); «Presto, comunque, sarò del tutto morto, finalmente» (Beckett, Malone muore).
E qui, con questo piccolo fuoco di citazioni incrociate il gioco si potrebbe concludere. Ma come non dedicare due o tre citazioni anche alla più astratta delle categorie, quella degli inizi che riflettono sull'inizio, del romanzi che cominciano dicendo come cominciano, o chiedendosi come cominciare? Ancora Celine: «È così che è cominciata» (Viaggio al termine della notte). E. M. Forster: «Possiamo cominciare con le lettere di Helen alla sorella» (Casa Howard). Georges Perec: «Sì, tutto potrebbe iniziare così, qui, in questo modo, una maniera un po' pesante e lenta...» (La vita: istruzioni per l'uso). Tommaso Landolfi: «Mio Dio, mio Dio! Da tanto tempo desideravo cominciare uno scritto con questa inutile invocazione. Ed ecco, almeno questo avrò fatto» (La bière du pécheur). Il serpente della letteratura non solo si mangia la coda, ma se ne nutre. E con Julio Cortàzar (Il viaggio premio) potremmo tranquillamente ricominciare tutto da capo, così: «La marchesa uscì alle cinque - pensò Carlos Lopez - Dove diavolo l'ho letto?».


EUROPEO, 2 MAGGIO 1987

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