Hans Memling, La porta del Paradiso |
Se
vi domandano all’improvviso: «Ma il paradiso dove si trova
esattamente?» quanti di voi sapranno dare una risposta precisa?
Molti saranno imbarazzati, qualcuno sorriderà: tutti penseranno che
è una domanda fuori luogo. Infatti che cosa c’è di più remoto ed
astratto per noi che il concetto stesso di paradiso? Eppure dietro
l’apparente scetticismo di tutti si nasconde una selva oscura di
sentimenti, contraddittori e confusi, che non lasciamo affiorare. È
il minimo che si possa dire considerando il successo di pubblicazioni
che hanno per oggetto l’aldilà, soprattutto nella sua dimensione
paradisiaca.
L’ultima
è una Inchiesta sul Paradiso,
curata da Paola Giovetti, nota al pubblico per aver condotto la
discussa trasmissione televisiva Mister O, dedicata ai fenomeni
peranormali. Il libro raccoglie una serie di interviste a
intellettuali, politici, scienziati, su un tema che sembra degno
degli hippies e della cultura degli anni Sessanta: il paradiso oggi,
«paradise now». L’aspetto più curioso è che tutti gli
intervistati non solo hanno risposto, ma si sono dilungati con molti
particolari, come se in vita loro non avessero aspettato altro che
un’occasione simile per aprire il loro cuore.
Il
rabbino capo di Roma Elio Toaff e lo psicanalista Emilio Servadio,
l’arabista Francesco Gabrieli e l’attrice Paola Borboni, lo
scrittore Alberto Bevilacqua e il musicista Roman Vlad - insomma un
miscuglio non certo omogeneo di credenti e miscredenti, stinchi di
santo e libertini - sono tutti d’accordo su un punto: parlare del
paradiso è la cosa più bella che ci sia.
C’era
da aspettarselo? Forse sì. Paola Giovetti non è nuova a queste
imprese. La sua trasmissione sul paranormale, Mister O, ha scatenato
ogni sorta di reazione: dai balzi vertiginosi degli indici d’ascolto
ai balzi furiosi degli scienziati sulla sedia. In ogni caso emozioni.
Mai indifferenza.
Una
giornalista abile e spregiudicata che sa come si tiene in pugno il
pubblico? Non si direbbe. A incontrarla per strada Paola Giovetti ha
un’aria seria, un po’ spenta: per niente grintosa. E allora?
Allora è evidente che le reazioni nascono dal contenuto delle
domande, non dall’intervistatore. E del resto, basta entrare in
libreria, basta sfogliare le riviste più recenti per capire che
l’interesse per l’aldilà non è una moda, ma una vera e propria
ossessione culturale degli ultimi anni, che non si placa ed anzi
cresce col tempo. È nata perfino “Abstracta”, una rivista di
divulgazione raffinata, sul modello di “Fmr”, dedicata all’arcano
e ai rapporti con l'aldilà, a cui collaborano storici come Franco
Cardini, scrittori come Stanislao Nievo, teologi come Corrado
Balducci. Le fanno eco le riviste specialistiche: sull’ultimo
numero di “Quaderni Medievali”, l’estrosa ed originale
pubblicazione diretta da Giosuè Musca, è apparso un brillante
saggio di Margherita Lecco, sulle rappresentazioni medievali
dell’aldilà.
Il
saggio di Margherita Lecco non è che l’ultimo esempio di questo
genere di interventi, se andiamo indietro negli ultimi due o tre anni
troviamo una sfilza di storici, semiotici, filosofi di grido che si
sono occupati di questi temi. Medievalisti come Jacques Le Goff, che
ha studiato la nascita del mito del purgatorio in un’opera
classica, già esaurita (La nascita del purgatorio,
Einaudi) semiologi come Cesare Segre che ha analizzato le strutture
mentali delle rappresentazioni dell’aldilà (La nascita
dell’altro mondo, in
“Autografo”, n° 1); studiosi di religioni e lingue orientali
come Ugo Marazzi, autore di un magnifico volume sugli sciamani, gli
stregoni che parlano con i morti (Testi dello sciamanesimo,
Utet); antropologi come Luigi Lombardi Satriani, il cui volume Il
ponte di San Giacomo (Rizzoli)
sulle rappresentazioni popolari dell’aldilà ha vinto nel 1983 il
premio Viareggio. L’ultimo della serie è uno studio, uscito in
questi giorni, di Jean Couliano, che affronta il problema dell’aldilà
nell’aldiquà, ovvero l’esperienza del paradiso in terra nei
mistici di ogni razza e paese (Esperienze dell’estasi
dall’Ellenismo al Medioevo,
Laterza).
Perché tanto
interesse? Non si può
rispondere alla domanda senza chiedersi prima: perché tanto
interesse proprio per il paradiso? E cioè: perché il paradiso sì e
l’inferno no? E infatti innegabile che tutti i libri, gli articoli,
le interviste su questo argomento parlano quasi esclusivamente del
paradiso, al massimo del purgatorio, ma non certo dell’inferno, un
luogo che, a detta di un cattolico ultraortodosso come Roberto
Formigoni, esiste, ma «non è detto che dentro ci sia qualcuno o che
ci finirà qualcuno» (Inchiesta sul paradiso).
Dunque,
perché solo il paradiso? Per capire questa complessa e contorta
«fede senza fede» in un aldilà positivo più dell'aldiquà,
occorre fare un salto indietro nel tempo, fino alle origini della
cultura occidentale. Essa ha infatti un carattere particolare che la
differenzia dalle altre: una fiducia spiccata nella vita e nell’uomo.
Le
concezioni dell’altro mondo riflettono chiaramente questo ottimismo
antropocentrico, per cui la vita è il bene più grande, la morte il
male peggiore. A differenza di altre religioni, per i greci e per i
latini l’oltretomba ha un carattere tristissimo ed opposto alla
vita terrena: dopo la morte tutti precipitano nella stessa angosciosa
terra di nessuno, il Regno delle Ombre. Ridotti a pallidi fantasmi,
gli uomini continuano a sopravvivere a se stessi, tristi, inutili,
rimpiangendo la vita perduta. Il loro stato d’animo è ben
esemplificato da ciò che Achille dice ad Ulisse nell’Odissea:
l’astuto eroe riesce a scendere nel Regno delle Ombre e incontra il
suo ex compagno d’armi: e questi, desolato, gli dice che
preferirebbe essere «l’ultimo degli schiavi sulla terra piuttosto
che il re dei morti». Questa concezione dolorosa dell’oltretomba
nasceva appunto dalla concezione ottimistica dell’esistenza: la
vita solare ed esuberante dei popoli del Mediterraneo era sentita
come il massimo dei valori; dopo non c’era che nostalgia e
turbamento.
Le
cose cambiano in epoca ellenistica. Dopo la morte di Alessandro Magno
(323 avanti Cristo) sì formano i vasti imperi che annullano ogni
ambizione politica ed ogni libertà individuale. I cittadini delle
popolose ed esuberanti città-stato divengono sudditi di questo o
quel monarca, senza più prospettive democratiche. Si potrebbe dire
che la loro vita terrena assomiglia ormai alla loro vita
ultraterrena: privi di stimoli, di iniziativa, di possibilità di
miglioramento, possono solo obbedire, chinare il capo e sopravvivere.
Ed ecco allora che fioriscono dovunque nuovi culti, nuove concezioni
dell’aldilà, che riflettono le speranze di tutti in un mondo
migliore. Culti misteriosi che si richiamano a Orfeo, a Pitagora,
agli Oracoli dei Caldei, promettono la salvezza. Il motivo comune a
tutti questi culti è che l’uomo è prigioniero della materia,
schiavo del corpo e della vita terrena. Se riesce a liberarsi, con
tecniche appropriate, ritroverà la sua vera natura: egli è un
essere divino.
Queste
concezioni, alimentate e approfondite dai filosofi neoplatonici,
portano a un radicale cambiamento della visione dell’aldilà. Dopo
la morte vi possono essere due possibili destini: o si ritorna alla
divinità perché ci si è liberati dal peso delle costrizioni; o si
rimane ancora prigionieri del carcere terreno e ci si deve purificare
con una lunga serie di tormenti e, secondo alcuni, addirittura con la
reincarnazione in una nuova esistenza. La vita diviene così sempre
più un peso: la vera vita è quella di chi si libera da questo peso
e ridiviene simile al Dio che l’ha creato. Allo stesso modo per gli
induisti, l’anima si dissolve nello Spirito divino, il Brahman.
Il passaggio
successivo fu, naturalmente,
il cristianesimo. Nel pensiero cristiano ritroviamo molti elementi
della cultura orfico-pitagorica: l’anima si deve liberare dalla
catena della carne, per riconquistare il paradiso perduto. Ma la
differenza, la novità del cristianesimo fu proprio nel concetto di
«paradiso perduto». Infatti, secondo il racconto della Bibbia,
l’uomo ha perduto il paradiso per una colpa, oscura ma terribile,
all’origine. Dunque non è solo un prigioniero del corpo: è un
prigioniero che sconta un reato, un crimine che è stato commesso una
volta da Adamo, ma che si ripete ogni volta che i suoi discendenti
violano le leggi di Dio.
La
novità consisteva nel concetto di redenzione e di merito che l’idea
di colpa introduceva. Per la prima volta nella storia della cultura
occidentale l’uomo poteva scegliersi l’aldilà che voleva. Non
era più una vittima della morte che lo riduceva a un’ombra;
neppure era vittima di un destino che lo incatenava al corpo. Era
vittima solo delle sue passioni, della sua superbia: in una parola di
se stesso.
Cominciarono
a diffondersi, così, visioni a forti tinte della vita ultraterrena,
che sottolineavano il diverso destino del giusto e del peccatore.
Severi moralisti come Tertulliano si abbandonano a descrizioni del
giudizio divino degne del marchese de Sade: lo spettacolo dei
cattivi, dei potenti, dei peccatori fatti a pezzi, squartati,
bruciati, torturati per l’eternità è un grande sollievo per chi
soffre le pene dell’esistenza.
In
ambienti ereticali simili visioni furono ancora più furenti:
nell’altro mondo si realizza ciò che in questo mondo è vietato.
Ed ecco allora le Apocalissi degli gnostici, con terrificanti
immagini di punizione; ecco le condanne senza appello dei manichei
per chi non è «eletto», salvato direttamente da Dio da una vita
che non può che essere peccaminosa.
L’armamentario
delle punizioni ripesca vecchi motivi del folklore, insieme a nuove
fantasie: il fuoco, tormento tipico e tradizionale di molte
religioni, si mescola a spezzettamenti e torture spesso legate
all’orfismo (Orfeo fu fatto a pezzi dalle Baccanti).
E
il paradiso. Quanto più truce, feroce, bestiale è l’inferno,
tanto più ineffabile, aereo, luminoso è il paradiso. Il
cristianesimo sviluppa all’estremo le suggestioni neoplatoniche:
libero dalla materia, dal corpo e soprattutto dalla colpa e
dall’angoscia, chi è in paradiso è felice in modo indicibile; è
una specie di ubriaco lucido che scivola nell’aria. Una concezione
che ricorda quella del volo estatico dello sciamano nelle religioni
primitive.
Le
due realtà opposte si fronteggiarono per secoli durante il Medioevo:
l’invenzione del purgatorio, come ha mostrato Le Goff, è un
fenomeno tardo, nato per attenuare l’urto tra due destini così
radicalmente opposti. Il purgatorio accoglie i borghesi, i piccoli
peccatori, le puttane, i truffatori che pullulano nelle città, nei
comuni che si stanno liberando del Medioevo. Costoro non sono
sufficientemente cattivi per essere dannati, ma neanche sono anime
candide e meritano una qualche punizione. Nasce così l'idea di un
tormento a tempo determinato: pene simili a quelle dell’inferno
(fuoco; fatica; dolore) ma meno violente e soprattutto solo
temporanee.
Non si trattava
però di una vera
innovazione: come abbiamo visto già nella filosofia neoplatonica si
ammettevano delle pene di espiazione temporanee: ed Origene, grande
teologo del III secolo dopo Cristo, aveva proclamato che l’inferno
non poteva durare per sempre, provocando le ire della Chiesa.
In
ogni caso, nuova o meno, l’idea del purgatorio piacque: e
l’immagine dell’aldilà, consacrata da Dante Alighieri, si
cristallizzò definitivamente. Tre Regni, uno della dannazione senza
rimedio, uno della sofferenza redentrice, uno della letizia. Inferno,
purgatorio e paradiso.
È
a questo punto, quando tutto è chiaro e ordinato, che comincia tutta
un’altra storia che arriva fino a noi.
L’uomo
si disinteressò sempre più di ciò che accadeva dopo la morte, in
quella mirabile tripartizione che era stata così maniacalmente
preparata: e cominciò a interessarsi sempre più ossessivamente a
ciò che accade prima di morire. E alla morte in sé e per sé. La
storia della cultura moderna è la cronaca di una partita a scacchi
giocata tra l’uomo e la morte.
All’inizio
con la riscoperta dell’antichità e dei suoi valori, nel
Rinascimento, l’uomo sente di nuovo, come i greci, che la vita è
il valore supremo: e teme la morte, rappresentandone gli aspetti più
terrificanti.
Nascono
allora le Artes Moriendi,
arti del ben morire, trattati ascetici che dovrebbero insegnare ad
accettare la morte e che di fatto contribuiscono solo ad aumentare
l’orrore nei suoi confronti. Così come tutti i quadri e le sacre
rappresentazioni, i Trionfi della morte
e le Danze macabre,
che hanno per soggetto la dissoluzione del corpo.
Col
tempo, l’uomo finisce per dimenticare la morte e l'aldilà, vivendo
come se il problema non lo riguardasse. È questo il meccanismo di
rimozione della morte e dell’oltretomba
dalla
vita quotidiana, il fenomeno studiato tanto approfonditamente dal
ta-natologo Philip Ariès. In pratica, dal Settecento ad oggi, la
società si è difesa dal pensiero della morte evitando di parlarne e
creando istituzioni specializzate che si occupano della cosa solo
quando è necessario, come gli ospedali e i cimiteri fuori della
città.
La
cultura occidentale è così tornata alle origini: come i greci,
anche noi pensiamo che l’aldilà sia un luogo angoscioso, dove ci
si trascina in un’agonia perenne. Oppure, se siamo atei, come la
maggioranza dei pensatori moderni, dopo la morte c’è il nulla.
In
questo modo l’Occidente ha rifiutato tutte le speculazioni dei
secoli precedenti sull’aldilà: al contrario dei musulmani, che
credono in un paradiso molto concreto, in cui ci sono belle donne e
divertimenti, e in un inferno con ghignanti diavoli che versano pece
fusa sui dannati, gli europei hanno relegato questo genere di
rappresentazioni in soffitta. Credere a simili immagini è puerile,
infantile, grossolano. Più «virile», invece, credere solo a ciò
che si vede: alla vita terrena, non all’ultraterrena.
Eppure questo
meccanismo non funziona del tutto: non è un caso se il positivismo,
cioè la fede assoluta nella ragione e nella scienza, sia nato alla
fine dell’Ottocento negli stessi anni in cui è nato lo spiritismo,
cioè la fede nella presenza dei morti tra noi. Razionalismo e
terrori irrazionali sono due facce della stessa medaglia: la morte
cacciata dalla porta rientra dalla finestra. Lo dimostrano casi
famosi di illustri personaggi dell'Ottocento, positivisti e scettici
di giorno, angosciati cultori di spiritismo di notte, come lo
studioso Achille Ardigò. Da allora ad oggi le cose non sono
cambiate. La società opulenta evita di parlare dell’aldilà: ma i
suoi membri, privatamente, non parlano d'altro.
E
torniamo così alla questione iniziale: perché il paradiso e non
l’inferno? Visto che si parla dell’aldilà solo nell’intimità,
ma non pubblicamente, è naturale che ciascuno pensi solo al proprio
destino dopo la morte.
Nessuno
ha il coraggio di confessarlo: ma di fatto tutti pensiamo di andare
in paradiso, o al massimo in purgatorio. Ed anche se l’immagine di
questi regni d’oltretomba è sbiadita e fuori moda, anche se il
fuoco e i diavoli fanno sorridere l’uomo d’oggi, nessuno è
disposto ad accettare di dover pagare un conto troppo salato alla
fine del viaggio. Così, ufficialmente, l’altro mondo non esiste;
ma se si accetta che esista in qualche modo, allora non può che
essere un mondo migliore di questo. Un paradiso dunque. Chissà se
tutto questo non significa, indirettamente, che la vita terrena di
oggi, di cui andiamo talmente fieri da dimenticare perfino la morte,
non sia in fondo un inferno.
EUROPEO/15
MARZO 1986
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