SAN MAURO FORTE
(Matera)
Arrivo a Ferrandina verso
mezzogiorno. Vado in una salumeria dall'arredo antico. Scaffali di
metallo coi legumi dentro, mobilio verniciato di bianco. Con dieci
euro esco con una busta piena. La piazza del paese mi dà un senso di
pace. Avverto una clemenza definitiva, non ho rancore per nessuno. E
Ferrandina mi aiuta, è una dolce mattina di febbraio. Sento che in
questa zona dell'Italia c'è ancora qualcosa, non so bene cosa sia,
ma la sento. E la sensazione è ancora più intensa quando prendo la
strada per San Mauro Forte. Vado a trovare il poeta Alfonso Guida.
La prima visione è una
montagna con dei ruderi in cima che sembrano una corona. Mi fermo a
fotografare. Nessuno me ne aveva parlato, mai tra le immagini della
Lucania avevo visto questa montagna merlata. Andrò a vederla da
vicino, ma non oggi, ora devo andare da Alfonso. Intanto il paesaggio
diventa commovente. Non ci sono case, non ci sono insegne. Il grano
appena nato luccica. Vedo pezzi di terreno che sembrano piccole
zattere nel mare dei calanchi. Non ho fretta di arrivare. Ovviamente
non passa nessuna macchina. Mi sembra di aver trovato il cuore
solenne della Lucania.
Quando arrivo al paese mi
sento insolitamente agile e forte. Tutto in un certo senso è come
ovunque, case chiuse, due ragazzi davanti al bar, quattro vecchi nel
punto della piazza dove si può avvistare qualcuno. Eppure avverto un
di più. Ci sono palazzi molto belli, il paese è ben piantato, la
sua pacata desolazione mi arriva dentro come un dono. Arrivo a casa
di Alfonso. La madre mi bacia come se ci conoscessimo da anni. Dopo
qualche minuto chiedo ad Alfonso di leggere. In verità, preso da un
filo della mia vecchia ansia, faccio un po' fatica a seguire i suoi
versi.
Li riprendo adesso che
sono a casa e posso tranquillamente sfogliare i suoi libri. Oggi è
domenica, è il giorno delle elezioni. Nevica da sud. Il lato della
testa che mi duole è sempre lo stesso. Prima ho lungamente
abbracciato la mia sposa. La tristezza di pulire sotto il divano e
trovare tante cose spinte là sotto dal gatto: una noce, una penna,
un euro.
Sfoglio a caso uno dei
libri che mi ha dato Alfonso. Leggere le sue poesie è come mettere
le mani in un armadio ad occhi chiusi: puoi prendere una camicia, il
bavero di una giacca, un bottone. Prima di andarlo a trovare non
avevo i suoi libri, ma mi mandava le poesie col telefonino, le poesie
che scrive ogni giorno, a oltranza. La bellezza per me è tutta nel
guizzo imprevisto e improvviso, come se il grande verso fosse
sfuggito di mano, qualcosa che arriva a rompere l'ordito, la lingua
che s'impunta, che prende una strada sconosciuta.
Quando viene la
tristezza ora queste/ fiabe potrai raccontartele. I morti/ lo fanno
se è inverno, specie se giunge/ l'inverno e il fuoco costruisce
cento isole/ di neve. Sulle tue spalle c'è un paese che dorme.
Ecco comparire più
avanti un semplice bacio che il figlio getta contro le ossa del topo.
Alfonso scrive solo in endecasillabi. Ma qui d'ora in poi voglio
tradirlo. Citerò i suoi versi senza indicare gli accapo (come mi
arrivano via sms); citerò frammenti, scapole volanti, tibie spezzate
della sua poesia.
A casa sua mentre lo
filmavo la madre si lamentava del fatto che lui le fa leggere in
continuazione le poesie e lei non sempre le capisce. Si lamentava
anche del fatto che non fa niente in casa e non vede l'ora che vada a
vivere da solo.
Intanto non mi piace
questo dolore alla testa, sempre lo stesso, come se la mia angoscia
fosse gelosa del fatto che vorrei occuparmi di quella di Alfonso.
Ieri sera mentre ero nel letto ho sentito nel buio che entrava dal
balcone un raggio nero, più cattivo degli altri, la spiga, la spina
di un grano notturno.
A volte si solleva
dall'ombra il dubbio che la morte esista. Finisce così una sua
poesia. E io penso che la poesia non va scrutata con la ragione, ma
assaggiata coi sensi, presa a morsi, a brandelli. Morderla più che
leggerla, per vedere se dentro c'è sangue o segatura. Trovo
impossibili e fallimentari gli esercizi critici intorno ai suoi
versi. Alfonso lo puoi pescare a caso: Quando sono giunto ho visto
le vigne matematiche del sud... Ci si sporca indossando l'aria
consunta... S'incupisce la vecchia zuccheriera di ottone... Una serie
di ansie bellicose... Vergogna in fondo alla stanchezza... Il
desiderio di spogliare i morti...
Uno così andrebbe
liberato dal dovere di fare il maestro elementare. Anche se spesso
ricorre al congedo per malattia è comunque assurdo che il mondo non
riesca a pagare in nessun modo le sue parole. Anzi, le paga lui,
interamente. La follia buona è senza mercato. Girano nel mondo
follie scadenti, basti pensare alla campagna elettorale, follie
ampiamente rimborsate.
Alfonso abita con la
madre e la sorella in una casa popolare alla periferia di San Mauro.
Dice che è nato da una suora e da uno zingaro.
Dopo il pranzo domenicale
ritrovo Alfonso e il suo oceano illuminato con le scimmie nere.
Continuo a leggere, quasi in tutte le poesie c'è una misteriosa
equazione, un piccolo tumulto verbale, un'insurrezione alla logica:
L'assedio è verso la nuca, conosci la neve, le sue forbici
ricamano robuste finestre. E ancora: Chiedo invece una fine.
Non sia dato un limite preciso al sangue, all'estate.
Lui non scrive al
computer. Tutto a mano, prima la brutta copia e poi la bella. I
versi, i farmaci, l'inverno, la schiena dolente. Ora la parola
emaciata non designa chi abita dentro la parola. Ormai quasi non
cammina, e comunque non ha con chi uscire. E nel sangue uno snodarsi
di spine e più oltre anche i lacci del sangue. Continuo a
leggere, so che ogni tanto nelle sue parole troverò una crepa.
Leggere poesie o scriverle è cercare un precipizio, uno squarcio, un
tremore. Alfonso aveva sette anni quando ci fu il terremoto nella mia
terra non lontana dalla sua. Leggo Irpinia, un suo lungo poema.
Fuori, si corre ai ripari e salvi sono solo i morti, solo i morti
parlano lingue di salvezza, un ateismo di frontiera. Prendo un
altro libro, Il dono dell'occhio, anche questo, come Irpinia,
stampato da un piccolo editore che si chiama Poiesis. Continuo il mio
viaggio senza meta tra i versi. L'alba non vuole io mi congeda dal
suo fosso, nel buio. Ma Dio s'impara in silenzio.
Intanto sono andato a
votare, non avevo mai votato con tanta tristezza. Oggi Alfonso è un
riparo, vagare tra i suoi versi mi pare un modo per sfuggire alla
miseria di questa giornata. Adesso sento la mia testa come un frutto
pesante e marcio appeso a un ramo secco e storto.
Cerco altri versi sul
telefonino: Abbiamo custodito le case nel ventre. Ora la terra si è
chiusa. Unzione degli inferi. Ecco cosa trovo in mezzo a una poesia:
Severe le ossa. Severe le capacità fiabesche del sangue. Ci si
insinua nella morte come per nascondere le orme nella neve.
La neve ha il colore
tranquillo dello sperma ed è retrograda. Mi raggiunge in un'altra
questo non dormo più nel mio corpo. Vado avanti a cercare ciò che
mi aveva colpito nella lettura frettolosa sullo schermo. Dio esiste a
brandelli - lentamente - è la carcassa di un cane morto sull'asfalto
per troppa luce.
Intanto è arrivato il
buio. Ho paura che arrivi il nero cattivo di ieri sera. Non so, è
come se fossi sguarnito, come se la stanchezza avesse bruciato ogni
resistenza. In un verso perfino Alfonso mi appare consolatorio, ma
subito la poesia riprende l'interminabile clausura di chi la scrive:
Tutto, prima o poi, viene schiuso. Anche i muri si aprono. Velati
da una notte interminabile. Che ogni cosa copre. Nell'oscurità, dove
mi si uccide, sto in cima alla mia sete.
Alfonso è ingrassato da
vent'anni di psicofarmaci. I tratti belli del suo viso sono annegati
nel grasso. La sua voce oggi è lieta, può leggere, è arrivato un
orecchio. Mi ero ridotto a mangiare il pulviscolo che esce dai
tappeti quando li sbatti sul muro al mattino. Secondo i medici
sarebbe psicotico. E allora la sua poesia è l'incrocio di paesaggio
e follia. Alfonso Guida sembra un Paul Celan, con gli psicofarmaci al
posto del lager. E poi c'è il Sud che ha perso la civiltà contadina
e ha trovato una piccola borghesia meschina e rattrappita. La fortuna
e la bellezza della Lucania è nel fatto che ci sono poche persone e
dunque non si avverte l'intossicazione che si portano dietro oggi le
persone. San Mauro Forte è bellissimo nonostante le palazzine anni
settanta, nonostante l'incuria che ha lasciato il posto ai pasticci
della ricostruzione post terremoto. La bellezza è nel fatto che il
paese è immerso in un paesaggio silenzioso e selvatico. La natura
che canta Alfonso non è molto diversa da quella che poteva
contemplare un poeta dell'Ottocento.
Voglio tornare di maggio
a San Mauro, in un giorno di sole. Ci voglio tornare molte volte.
Voglio portare i miei figli e la mia sposa e tante altre persone. Non
è cosa comune un paese vuoto con un poeta dentro.
“il manifesto”, 26
marzo 2013
Nessun commento:
Posta un commento