[Intervento al ciclo
Franco Fortini e gli anni 68, coordinato da Pier Paolo Poggio,
Fondazione Luigi Micheletti, Brescia, 2 ottobre 2017, nell’ambito
del centenario della nascita di Fortini.]
Quando mi è stato
chiesto di intervenire su Fortini e il ’68 ho pensato che un modo
per affrontare un tema così impegnativo, e con una bibliografia
tutt’altro che esigua, poteva essere quello di partire da un flash,
da un momento specifico, lasciando alla discussione il compito di
tentare sintesi e svolgere discorsi più ampi. Un episodio
significativo, da leggere nel contesto del lungo lavoro intellettuale
di Fortini, del suo “impatto” sulla cultura circostante, mi è
parso allora quello che data all’anno precedente, 1967: per la
precisione 23 aprile 1967.
Firenze, piazza Strozzi.
La piazza è colma di studenti convenuti per una manifestazione
contro la guerra del Vietnam. Dal ’65 gli Stati Uniti bombardano il
Vietnam del Nord con una intensità che supera di molto quella della
campagna contro la Germania nazista: è l’operazione Rolling
Thunder, che tuttavia non impedirà, come sappiamo, la vittoria
finale dei vietnamiti. Anche a Berlino, a Pechino gli studenti sono
in rivolta, e di lì a poco lo saranno a Berkeley (“The Summer of
Love”). Proprio quel giorno era arrivata, inoltre, la notizia del
colpo di stato in Grecia. Anni dopo, ha scritto Fortini (cito da
Notizie sui testi in F. Fortini, Saggi ed epigrammi,
Mondadori, Milano, 2003, p. 1794): “Quando venne il mio turno, il
comizio durava già da quasi due ore, veniva buio, gli studenti
accendevano le fiaccole. La tensione della folla non pareva davvero
diminuita. Altri interventi dovevano seguire il mio, disponevo appena
di un quarto dʼora. Ero scorato e furioso: perché il colpo dei
colonnelli greci aveva fornito agli oratori della opposizione
ufficiale la possibilità di attingere all’eterno repertorio
antifascista e di evitare il discorso di fondo sul Vietnam e perché
mi chiedevo come mai, contro le mie convinzioni, avessi accettato di
parlare. So che non devo recitare da tribuno, non è la mia parte, i
letterati che si fanno microfono politico mi ripugnano. Ma c’era
odio e collera sempre più esasperata per il modo, sempre più sicuro
di sé, tenuto per ucciderci. Dico, i vietnamiti; ma anche noi, anche
se in altre forme. Di “finirci”; un verbo molto esatto. Di farci
vomitare la vita in una fogna sempre più stretta. Lessi allora quei
foglietti con impeto. Il consenso mi parve molto grande”.
L’intenzione degli
organizzatori della manifestazione era di creare un fronte unito di
protesta contro la guerra in Vietnam tra le diverse anime della
sinistra parlamentare, quella socialista, comunista, cattolica.
Avevano aderito autorevoli personalità di varia estrazione politica
come Lelio Basso (Psiup), Tristano Codignola (Psi), Giorgio La Pira;
era presente il primo sindaco di Firenze dopo la guerra, il comunista
Mario Fabiani (allora senatore del Pci). L’intenzione unitaria e di
ordine pacifista della serata, tuttavia, non era pienamente
sintonizzata con gli umori e le aspettative dei giovani presenti in
piazza Strozzi, in buona parte studenti universitari (ma non solo); e
l’intervento di Fortini arrivava, in quel frangente, a sparigliare
le carte. Non l’unità del fronte istituzionale gli stava a cuore,
infatti; anzi le sue parole andavano in direzione opposta: «Storia
ed esperienza mi hanno insegnato / che si deve oggi tendere non ad
unire ma a dividere. / A dividere sempre più violentemente il mondo,
/ a promuovere l’approfondita, la sola vera, la sola feconda
divisione, / divenuta sempre più chiara, dolorosa e necessaria, /
per entro l’unità creata dal mercato internazionale, / per entro
l’unità determinata dal potere e dall’oppressione. / Vuol dire
anzitutto distruggere le false divisioni del passato, / vuol dire
vedere identificare interpretare / l’unità confusa e corrotta che
oggi esiste.» (Intervento alla manifestazione per la libertà del
Vietnam, in Saggi ed epigrammi cit., p. 1402).
Numerose sono le
testimonianze su quella serata, che si concluse con degli scontri sul
lungarno davanti al consolato americano. Stigmatizzando la posizione
fortiniana, Giuseppe Zagarrio sul «Ponte» osservò all’indomani
che la manifestazione di piazza Strozzi si inseriva in «tutta una
tradizione di pazientissime tessiture ideologiche e politiche»,
quella che aveva caratterizzato la storia della «sinistra italiana
dagli anni dell’antifascismo a oggi» (G. Zagarrio, Fortini a
Piazza Strozzi, «Il Ponte», XXIII, 5, 31 maggio 1967, p. 568);
e così era, ma il fatto è che dal punto di vista di Fortini, cioè
di uno che, proprio allora – Verifica dei poteri era uscito
due anni prima – con i rituali dell’antifascismo voleva aver a
che fare non più di quanto fosse interessato alle strategie di
autolegittimazione dei partiti ufficiali della sinistra, il punto era
decisamente un altro e quel punto fu perfettamente inteso dagli
studenti presenti. In quel momento, infatti, si affacciava alla
storia un nuovo soggetto, una collettività ancora non pienamente
autoconsapevole di sé ma in movimento e (avrebbe detto Sartre) in
via di “fusione”: è a quel soggetto in formazione che parlava
Fortini, catalizzando e spingendo a maturazione «l’unità confusa
e corrotta che oggi esiste».
Il discorso fortiniano in
piazza Strozzi è rilevante, tuttavia, non solo e non tanto per i
motivi della divisione e del conflitto in sé, enunciati in esordio,
quanto per il modo peculiare in cui questi temi erano da lui
interpretati, tradotti nel qui e ora. Egli procedeva da una precisa e
provocatoria assunzione o meglio identificazione, che a sua volta
implicava una netta divisione presente sia all’interno del paese,
sia dentro alle soggettività (ovvero dentro la cultura ricevuta e lo
stesso inconscio di ognuno): «Quando gli Stati Uniti producono la
metà di tutto quel che il mondo produce, / quando la metà di quel
che mangiamo leggiamo impariamo è / prodotto direttamente o
indirettamente dalla potenza economica e industriale / degli Stati
Uniti / questo significa che noi siamo per metà americani / e che
dobbiamo non solo saperlo ma accettarlo / perché è un modo per dire
che siamo cittadini di quel mondo / che dall’interno del capitale
si dibatte contro il capitale». Dunque noi, il noi storico convocato
in quel luogo e in quel tempo, dice Fortini, «siamo già Stati
Uniti»; ma per un’altra metà, dice ancora, «noi siamo Vietnam.
Siamo / quel che in politica economia cultura / tutto il Vietnam
sarebbe stato / non avesse scelto, in una sua parte, di morire
piuttosto. / Non avesse scelto questa strada, / non avessero scelto
di essere pietra d’intoppo della favola coesistenziale, / pietra
sulla via della controrivoluzione esportata, / non avessero scatenate
contraddizioni altrimenti latenti, / gli Stati Uniti / col garbo di
cui talora non mancano, con quello / che il linguaggio delle loro
“relazioni umane” chiama good will, / li avrebbero accolti come
federati nel loro impero. / Avrebbero loro assegnato un preciso tasso
di sviluppo / – in armonia con i loro interessi mondiali – / e
oggi i Vietnamiti starebbero “bene”, / come noi, più o meno,
stiamo “bene” / nelle città nelle scuole negli ospedali nella
amministrazione. / Avrebbero avuto anche una buona ed apolitica
protezione sindacale. / E dopo vent’anni avrebbero anche potuto
forse / nazionalizzare la loro industria elettrica.» (Intervento…
cit., p. 1403-1404).
Insomma e a farla breve,
niente «pazienti tessiture», in piazza Strozzi. Non a ragionamenti
legati alla gestione del potere, con ogni evidenza e
intenzionalmente, apparteneva il discorso di Fortini; né la sua
lingua era la stessa dei media e dei funzionari di partito,
inchiodata agli stereotipi, alle mezze verità di rapida presa e
breve respiro (come la sclerotizzata contrapposizione URSS – USA, o
l’uso edulcorato della Resistenza, l’appello a valori generici…).
Proprio per questo la sua voce è ascoltata: ha dei destinatari
attenti, quella sera, alle divisioni che attraversano ognuno e il
mondo e al mondo guardano (per usare categorie brechtiane) dal basso
e non dall’alto; destinatari che non si contentano né delle
formule né delle convergenze “parlamentari”. Non a caso un
futuro dirigente della Rai lottizzata prontamente censurò quel
discorso su «Rinascita»: «Quando Franco Fortini, in mezzo a tante
altre deliranti affermazioni, giunge a dire che sul Vietnam non ci si
unisce ma ci si divide, o gruppi di provocatori fischiano Codignola o
La Pira che aderiscono senza equivoci e reticenze alla lotta per la
pace e la libertà del Vietnam, allora esiste un ostacolo, un
pericolo che dobbiamo abbattere e spazzare via» (C. Petruccioli, Sul
Vietnam ci si unisce, «Rinascita», XXIV, 17, 28 aprile 1967, p.
5).
Il finale in stile
alquanto squadrista non inganni: a suo modo il giovane redattore di
«Rinascita» aveva fiutato il pericolo di una convergenza dal basso
sui temi e le prospettive indicate da Fortini; e quanto all’ostacolo,
nel suo zelo conformista e nel tentativo di esorcizzarne la forza
d’urto, aveva pur colto nel segno. Lo stesso discorso di Fortini
accennava al motivo della «pietra d’intoppo», motivo che per
l’appunto, con le sue ascendenze bibliche, rappresenta uno dei
luoghi cruciali – insieme metafora e modo d’essere – del suo
lavoro d’intellettuale; del resto, aveva osservato Walter Benjamin
nel ’39, commentando Brecht, che «per chi non taglia più la
strada a nessuno e non conta più molto non può accadere più nulla
d’importante, che non sia la decisione di mettersi in mezzo ed
obbligare gli altri a tenerne conto» (Commenti a poesie di
Brecht, del 1939, ora nel vol. VII, Scritti 1938-1940, delle
Opere complete di Walter Benjamin, nella traduzione di E.
Filippini; qui cito dalla versione di Renato Solmi, Introduzione a W.
Benjamin, Angelus novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino,
1962, p. XXXI). Ma la storia del mettersi in mezzo o di traverso di
Fortini è lunga: comincia almeno ai tempi del «Politecnico» (cioè
all’indomani della Liberazione) e in realtà non finisce che nel
novembre del ’94, quando entro un orizzonte completamente,
radicalmente mutato da quello del 1967 (non solo in Italia, bensì
nel mondo), non si stancherà di ripetere: «Bisogna spingere la
coscienza agli estremi. Dove, se c’è, c’è ancora e per poco.
Quando non si spinge la coscienza agli estremi, gli estremismi
inutili si mangiano lucidità e coscienza» (Lettera all’assemblea
per la libertà dell’informazione, in Saggi ed epigrammi
cit., p. 1754). Ma tornando al ’68 e per concludere (senza
conclusioni), ricorderò un’osservazione sullo «spirito del ’68»
che si legge nella prefazione all’edizione del 1973 di Dieci
inverni (1957).
Osserva qui Fortini: «nel
’68 criticai [quello spirito] per le sue stoltezze ma […] oggi,
quanto più è attaccato da quelli medesimi che allora si misero a
quattro zampe davanti agli studenti contestatori, tanto più appare
uno dei punti alti della coscienza sovversiva a misura mondiale, dei
nostri tempi» (F. Fortini, Dieci inverni. Contributi a un
discorso socialista, Bari, De Donato, 1973, p. 15). In proposito
va aggiunto che se Fortini non mancò di criticare lo spirito del ’68
(Il dissenso e l’autorità è il testo più noto in questo
senso, apparso originariamente su «Quaderni piacentini», VII, 34,
maggio 1968, pp. 91-100 e poi ripreso in Questioni di frontiera.
Scritti di politica a di letteratura 1965-1977, Torino, Einaudi,
1977), è tuttavia altrettanto certo il suo contributo a quella
«coscienza sovversiva a misura mondiale» (non bisogna separare
sovversiva da mondiale) di cui egli parla retrospettivamente nel
saggio del ’73 ma anche in poesia, per esempio in Questo muro
e in Paesaggio con serpente. Nello stesso passaggio di Dieci
inverni si noterà l’orgoglio, non esibito ma nemmeno celato,
di un’altra annotazione sul libro: «Anche in queste pagine […]
hanno parlato o conversato coloro che, con me, anni dopo, hanno
portato ad una svolta e a una rottura nell’amministrazione
ordinaria del pensiero socialista nel nostro paese».
Se allora scriveva così,
Fortini, era per difendere il libro del ’57 da «chi lo accusa di
mancanza di rigore e di non esser stato scritto da Sartre o da Adorno
o da Marcuse»: difesa che gli consente di nominare come compagni di
strada, per inciso, alcuni dei nomi più influenti per la generazione
del ’68, tutti ben presenti (non a caso, con Fanon, Malcom X,
Chomsky, Foucault, Mandela) nell’antologia di Laterza Profezie e
realtà del Novecento, che insieme a Verifica dei poteri
(dello stesso anno, 1965) rappresenta uno dei vertici, e non solo in
Italia, della riflessione sulla società contemporanea in quel giro
cruciale di anni. «Rottura nell’amministrazione ordinaria del
pensiero socialista»: formula eufemistica, per non dire
cancelleresca; si trattava, in realtà, dell’esito di un processo
(più che un evento) con una sua lunga e tormentata storia, che per
Fortini aveva conosciuto una svolta decisiva proprio intorno al
’56-57, allorché – restituita la tessera del Psi ricevuta da
Silone durante l’esilio svizzero, e consumatesi le tragedie di
Polonia e di Ungheria – gli era parso che il comunismo potesse
tornare ad essere «quello che abbiamo sempre creduto dovesse essere,
e cioè “l’erede della filosofia classica tedesca”» (p. 53).
Per giungere a una tal conclusione, aveva dovuto prima constatare –
lo dice Il senno di poi – che «dai partiti socialisti e comunisti
non poteva venir nulla» (ivi, p. 37), e che dunque i compagni erano
da cercare altrove, fuori dalle formazioni politiche ufficiali e tra
i più giovani; e anzi occorreva farsi, con le sue parole, «allievo
di coloro che quasi potrebbero essermi figli» (p. 55).
Chi erano, allora, si
chiederà il lettore di oggi, questi figli di cui Fortini si fece
allievo? Erano i giovani che (come egli stesso ha notato altrove) in
netto dissenso con la politica dei partiti della sinistra,
rifiutavano tanto il ruolo del dirigente politico quanto quello di
ideologi di una cultura “alternativa”; in primo luogo, i
componenti del gruppo di «Discussioni» (Renato Solmi, Delfino
Insolera, Luciano Amodio, Michele Ranchetti, Roberto Guiducci, Sergio
Caprioglio, Cesare Cases, Claudio Pavone), poi quelli di
«Ragionamenti»; più avanti i redattori di «Quaderni Rossi» e di
«Quaderni Piacentini» (Raniero Panzieri, Sergio Bologna, Edoarda
Masi, Piergiorgio Bellocchio, Grazia Cherchi, Goffredo Fofi); ma poi
sempre, dialogando e battagliando con sodali e avversari, il discorso
di Fortini è ai giovani che sarà rivolto, fino ai suoi ultimi
giorni.
Un’annotazione finale
per la discussione, infine. Dentro le scritture in versi e in prosa
di Fortini, insieme a tante altre cose, c’è anche una specie di
storia o meglio, forse, allegoria di quella «coscienza sovversiva»
di cui parlava (o piuttosto, su cui scommetteva) Dieci inverni:
storia che può essere narrata come parabola consumatasi tra due
momenti esemplari, due funerali, che coincidono con due svolte di
segno opposto (di fine l’una, e di cominciamento l’altra). Se in
Pasolini è il funerale di Togliatti (in Uccellacci e uccellini,
1965) a fare da crinale, in Fortini lo è quello di Raniero Panzieri,
ottobre 1964; mentre a chiudere il periodo è quello di Giuseppe
Pinelli, dicembre 1969. Quest’ultimo, da lui raffigurato anche in
un dipinto, è raccontato in una prosa dell’Ospite ingrato;
datata dicembre 1969, vi si legge (cito da Saggi ed epigrammi
cit., p. 1003): «Non so come ma ho la certezza che con la strage di
pochi giorni fa, l’orrendo coro dei giornali e questo assassinio
del Pinelli, è davvero finita una età, cominciata ai primi del
decennio». Quanto al primo, quello di Raniero Panzieri, in una
testimonianza retrospettiva, dopo aver osservato che al funerale era
stata rifiutata «qualsiasi presenza di partito nonostante egli fosse
stato un militante della sinistra italiana», Fortini aggiungeva: «ma
la cinquantina di persone che quella sera erano al cimitero di
Torino, pochi anni dopo erano alla testa del movimento operaio e
studentesco.» (“Radio 3 Antologia”, intervista a cura di Mirella
Fulvi, Guido Barbieri e Michele Gulinucci, marzo 1988). È forse su
questo genere di allegorie che dovremmo interrogarci, ancora e di
nuovo, oggi, per combattere gli «estremismi inutili» ma anche per
decifrare «l’unità confusa e corrotta» dentro e intorno a noi.
Sito della Fondazione per
la critica sociale, 9 gennaio 2018
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