Chi di noi, sentendosi
ben lontano non solo dai burqa ma anche dai gonnelloni delle proprie
nonne e dai colletti inamidati dei loro sposi, non se ne rallegra? A
più riprese dal dopoguerra, al sessantotto, agli anni del
femminismo, ad oggi, abbiamo festeggiato il trionfo del corpo
liberato da vecchi pudori. Finalmente ciascuno può portarlo come un
abito disinvolto non da nascondere ma da mostrare.
Oggi più che mai, di
fronte alle ballerine televisive in tanga, o a cartelloni che
pubblicizzano jeans sapientemente slacciati sulla pelle nuda, o alle
magliette corte della vicina di casa che scoprono il piercing
all'ombelico, sembra paradossale parlare del corpo come di un oggetto
tabù.
Eppure sappiamo bene che
segnali piccoli, come il comparire di una parola di nuovo conio o la
sparizione di una parola, sono a volte rivelatori. A questo proposito
viene allora da chiederci in che modo e perché, in tempi tanto
spregiudicati, sia avvenuta la scomparsa di un'espressione come
andare di corpo. Come mai sia diventata per lo meno
imbarazzante da pronunciare e da ascoltare, e venga sostituita
eventualmente dalla forma: andare in bagno. Un salto dalla
funzione fisiologica, corporea appunto, alla tecnologia igienica.
Dall'evocazione dello svuotamento delle viscere, all'immagine molto
più asettica di sanitari luccicanti, di ambienti piastrellati, di
attività di lavaggio a scroscio.
Alla stessa maniera
un'altra parola derivata: «corporale», è caduta in disuso. Quelli
che erano bisogni corporali, castighi corporali, difetti corporali,
esercizi corporali, diventano bisogni, castighi, difetti, esercizi
fisici.
Nell'appoggiare la mano
sul ventre: «Ho il corpo pieno»; «Ho il corpo vuoto»; «Ho mal di
corpo...», si identificava addirittura il corpo umano con la sua
parte più materica, più indomabilmente animale, meno «nobile»: la
pancia. Era, questo, un buon esempio di sineddoche, quel modo di dire
che scambia il tutto con una sua parte e sembra così voler
significare che questa parte ne è l'essenza più vera. Così si
poneva al centro, e non solo geometrico, del corpo, quel laboratorio
di carne in cui la materia si impasta, si trasforma, si riproduce, e
produce scorie.
Oggi «corpo», o meglio
ancora «body», vuol dire muscolatura da esposizione, pelle
levigata, silouette. Insomma superficie. In questa accezione sì, che
il «corpo» è ben presente. Presente e soprattutto presentabile.
«Presentabile»! Non mi aspettavo che riflettendo sull'atteggiamento
che abbiamo oggi verso il corpo avrei utilizzato un'espressione che
suonerebbe bene in una conversazione da salotto vittoriano. È
impresentabile, invece, se richiama troppo da vicino la propria
materialità. Sconveniente qualsiasi traccia dei suoi fluidi, scarti,
deiezioni.
Eppure è poco più che
cinquantenne chi ha visto in uso oggetti che lascerebbero increduli i
più giovani: le sputacchiere nei luoghi pubblici o i vasi da notte
che troneggiavano dentro i comodini di qua e di là dal letto
coniugale. Anche chi a quei tempi già c'era, stupisce al riemergere
del ricordo. Anche a lui sembrano cose d'altro mondo. Con che strani
contenitori si misura quanta acqua è passata sotto i ponti! Non li
cito per una bizzarra nostalgia della sputacchiera o dell'urinale, ma
perché possono essere un buon indice della distanza. Distanza da
allora, e distanza che abbiamo preso dalla materia.
Dagli odori oggi patiti,
ma abbondantemente lamentati, solo quando ci tocca, ahimè, subire
l'inevitabile promiscuità del tram. Dal proprio sudore tollerato
solo se è di jogging. Dal grasso prodotto dalla propria pelle, che
viene tolto accuratamente e rimpiazzato con grassi di laboratorio.
Dalle persone che, non ancora abbastanza incivilite, ti parlano
troppo a ridosso. Dalla carne che si deve pur mangiare, ma che non ci
ricordi in niente la bestia che è stata. Dal sangue, anche solo di
un foruncoletto scorticato, su cui ormai grava l'ombra sospettosa di
contagio innominabile. Dal proprio pianto e moccio che non si riporta
in tasca fino a casa ma si getta insieme col fazzoletto usa e getta,
appunto, senza traccia.
Distanze. Come se fossimo
altro e altrove. Ma cosa e dove?
Tutto contribuisce alla
perdita di consapevolezza di quell'osmosi fra dentro e fuori che fa
di un corpo un corpo vivo. Osmosi che è scambio, trasformazione, e
implica anche la morte. Ho detto di non nutrire bizzarre e, aggiungo,
neanche più poetiche nostalgie per il buon tempo andato. So quanto
dolorosamente quella consapevolezza passava, sì, proprio attraverso
lacrime, sudore e sangue, e il più spesso delle volte senza nessuna
poesia. Vedo anche però che oggi, insieme alle scorie fastidiose,
rinneghiamo ognuno di quei segni che in maniera costante, quotidiana,
concreta, ci ricordavano il divenire del corpo, la sua immersione nel
mondo, la connessione dei corpi fra loro. Che facevano apparire il
mondo intero come un unico corpo fatto di corpi.
Anche un ragazzino nato
in città aveva conosciuto in casa il pollo con tanto di zampe, collo
spiumato, becco aperto. Ne aveva visto estrarre le viscere che
riempivano la cucina di odore nauseante, togliere con cura senza
romperla la vescichetta del fiele dal fegato, aprire lo stomaco
ancora pieno di granaglie e di insetti mezzo digeriti. A pranzo se lo
ritrovava nel piatto.
In famiglie religiose
c'era a questo punto una pausa. Si chiedeva la benedizione su quel
corpo che si stava per «assumere» affinché ritornasse ad essere
carne e sangue vivi nel corpo dei commensali. Forse in quei momenti a
qualcuno, come a me, sarà passata in testa la parola «Incarnazione»,
sentita tante volte in chiesa: «Il Dio incarnato... Questo è il mio
Corpo...». Magari l'avrà subito scacciata sembrandogli blasfema
davanti ad una coscia di pollo.
Oggi, dal versante laico
in cui sono, se mi fermo a considerare questa parola: incarnarsi,
farsi carne, farsi corpo, sento tutta la reverenza che si ha per un
Mistero. Un mistero che ci portiamo addosso. Di questo ringrazio
quella pausa davanti al piatto; chiedo perdono a mia figlia a cui non
ho saputo insegnare un' attenzione simile
Se tanto avveniva in
città, è inutile dire quanto in campagna il richiamo all'impasto
corporeo della vita fosse presente in ogni cosa e in ogni parola.
Nelle bestie gravide quando era la loro stagione, nei vitelli che si
attaccavano alla poccia, nelle uova prese dalla cova e bevute lì
ancora calde. Nei racconti eroicomici in cui nemici malintenzionati
erano sbaragliati e messi in fuga da peti fragorosi. Nella concimaia
dove andava a finire ogni scarto dei corpi a diventare nutrimento per
la terra e per i suoi frutti e quindi di nuovo per i corpi: un mondo
ciclico e continuo. Nell'accudimento del morto, che non prevedeva
addetti alle pompe funebri, ma figli, nuore, cognate, vicine di casa.
Anche con quest'ultimo
atto il corpo spogliato, lavato e rivestito, chiudeva il cerchio.
Tornava all'affidamento totale della prima infanzia. Affidamento a
mani quasi sempre di donna, che sapessero trattare la carne indifesa.
Mani rese forti dalla lunga dimestichezza con la vulnerabilità dei
corpi.
Toccare il freddo dei
morti, annusare il sudore dei vivi, mangiare corpi sapendo di
mangiare corpi, combattere a suon di scorregge, andar di corpo...
Tutte cose che, per usare un'espressione anche questa caduta in
disuso, oggi «farebbero senso», ribrezzo. Cioè si appellerebbero
troppo da vicino ai nostri sensi: tatto, odorato, udito, gusto. Non a
caso dei cinque sensi quello a cui adesso sembriamo affidare di più
la fruizione dei corpi e del mondo è la vista; quello che permette
di restare a maggiore a distanza. Visti attraverso le telecamere, i
corpi dilaniati o le pance gonfie di fame ci guastano la digestione
sicuramente meno di come farebbe un vicino di tavolo che si lava poco
o che biascica. Eppure la repulsione per un vicino di tal fatta
vorrebbe dimostrare come i nostri sensi e le nostre anime siano
diventati più acuti, più sensibili.
Insomma: la principessa
sul pisello, quella che nella favola non riesce a dormire perché
sente il fastidio di un pisello sotto dodici materassi, è davvero
tanto nobile e sensibile? Oppure è una questione di distanza: dodici
materassi sono ancora troppo pochi per lei?
l'Unità 28 gennaio 2002
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