Philip Roth |
Le storie che compongono
l’epopea della letteratura moderna americana sono per la maggior
parte avvolte in un’atmosfera d’altri tempi: Dick Stern che
convince Philip Roth a scrivere Goodbye, Columbus (1959) dopo
aver mangiato un hamburger in condizioni igieniche precarie, John
Cheever e Raymond Carver che si ubriacano tra i dormitori dell’Iowa
Writers’ Workshop, Bernard Malamud che vive di una mela e un litro
di caffè al giorno in un palazzo che aspetta di essere demolito.
Probabilmente è vero che le leggende nascono in un minuto come bugie
e impiegano anni a essere ricordate come verità, ma pare che il
panorama letterario americano si sia fermato al mito dei primi
settant’anni del Novecento.
Allo stesso modo, i
romanzieri esordienti pescano miti e ispirazione a due generazioni di
distanza dalla propria. Non è un caso se la rivisitazione del
passato ricorre tanto prepotentemente tra gli esordi: tornare
indietro è il modo per avvicinarsi ai propri modelli.
Molti dei giovani autori
che alimentano il famoso milione di libri stampati all’anno trovano
i loro riferimenti stilistici in maestri del secolo scorso, saltando
a piè pari e quasi completamente un blocco di scrittori attivi dagli
anni Ottanta in poi, che evidentemente non ha lasciato granché di sé
ai posteri. Ci sono eccezioni notevoli e notevolmente incredibili, ma
è molto più facile distinguere in un romanzo d’esordio echi
illustri di Joan Didion, Joyce Carol Oates, Don DeLillo, Arthur
Miller, Kurt Vonnegut o J. D. Salinger, piuttosto che George
Saunders, David Foster Wallace, Elizabeth Strout o Chuck Palanhiuk.
Le nuove generazioni, a quanto pare, preferiscono evitare i loro
professori per riferirsi, paradossalmente ma non inaspettatamente, a
quelle che sono state le fonti di ispirazione di chi gli ha insegnato
l’arte.
La quasi totalità della
letteratura americana di oggi, declinata su centinaia di nuovi autori
all’anno e un’infinità di diverse categorie di lettura, si rifà
a un pugno di autori di stampo classico e al vecchio, rassicurante,
mito del grande romanzo.
Il canone di Bellow
In una raccolta di saggi
uscita da poco in Italia, intitolata Troppe cose a cui pensare –
curata da Benjamin Taylor e tradotta da Luca Briasco per SUR – Saul
Bellow, premio Nobel nel 1976, delinea bene i confini di queste due
generazioni fondanti. Gli ultimi maestri riconoscibili prima della
pioggia di autori intercambiabili, formati in catena di montaggio
dall’automatizzazione dell’insegnamento della scrittura creativa
e dalla sete dell’industria d’intrattenimento di massa.
Tra il 1951 e il 2000,
Bellow ha definito i suoi contemporanei assieme ai loro predecessori
e contribuito a lasciare ai posteri affamati di modelli condivisibili
un canone al quale fare riferimento. Allo stesso tempo, ha
sperimentato e tagliato su misura una lingua nuova per la nascente
nonfiction letteraria, profondamente influenzata dalla narrativa. «Si
dice che i romanzieri utilizzino la mano sinistra, quando si occupano
di saggistica», ha scritto una volta Martin Amis sul “New York
Times”. «Ma posso testimoniare che Bellow è ambidestro».
Un’abilità, non a caso, poi condivisa da Joan Didion, John McPhee
e Susan Sontag, per citare alcuni esempi notevoli.
Nel panorama fondativo
che Roth, allievo principale di Bellow e suo più grande promotore,
ha definito come «colonna vertebrale della cultura americana», quel
brodo primordiale evoluto che ha contribuito a fissare le basi per la
letteratura a venire, ci sono i maestri dei maestri, i colleghi e i
successori. Tra i primi è il caso di citare Ernest Hemingway e
Vladimir Nabokov, che Bellow rilegge con devozione e senso critico,
interrogandosi continuamente sul valore oggettivo delle opere che lo
hanno formato e immergendosi tanto nella lettura da chiedersi a un
certo punto: «Cosa c’è di attraente nella narrativa?». È una
domanda che rimane senza risposta, a dirla tutta, ma che aleggerà
come uno spirito infestante sulle teste di chi se ne occuperà di lì
in poi.
La famiglia
salingeriana
Pensando a Salinger e
riferendosi soprattutto al ciclo di racconti e romanzi brevi che
hanno come protagonista la famiglia Glass – contenuti in Nove
racconti, Franny e Zooey e Alzate l’architrave,
carpentieri e Seymour, pubblicati in Italia in varie
edizioni Einaudi – Bellow individua il futuro della famiglia
perbene, che, con le sue macchie evidenti e i suoi segreti
inconfessabili, diventerà la protagonista di un gran numero di
romanzi a venire. I ragazzi Glass, puri di cuore e di mentalità
aperta ma non per questo privi di di un’anima scura, sono il
prototipo sentimentale e patologico dei Lambert in Le correzioni
di Jonathan Franzen e dei Leary di Matthew Thomas in Non siamo più
noi stessi, ad esempio. La buona linfa della classe media
americana, impegnata giorno dopo giorno a superare la propria
ambizione all’equilibrio emotivo. Volendo fare un passo oltre, ma
accostandosi meglio all’origine salingeriana, i Glass sono i
Tenenbaum del film di Wes Anderson, i Berkman di Il calamaro e la
balena e i Meyerowitz di Noah Baumbach. Bellow, anche in questo
caso, ha designato un punto di partenza, invariato settant'anni più
tardi.
Roth,
l’intellettuale riluttante
Nel saggio dal titolo
La palude della prosperità definisce il primo libro di Philip
Roth «un esordio che non è un esordio, nato con i capelli, le
unghie e i denti», e regala al mondo il suo figlio prediletto. Roth
– del quale uscirà in Italia il primo dei “Meridiani”
Mondadori, curato da Elèna Mortara e che raccoglierà le opere dal
1959 al 1986 – è probabilmente il più influente tra gli scrittori
americani del secondo Novecento (assieme soltanto a Don De Lillo). La
sua figura, quella del romanziere spaesato ma in qualche modo altero,
dell’uomo libertino ma sempre impegnato in goffi tentativi di
riparare ai propri danni, contemporaneamente vittima e artefice della
propria rovina, debole ma abbastanza risoluto da decidere di smettere
di scrivere, è diventata il modello fisico dell’intellettuale
riluttante. La sua scrittura è la base di partenza e lo standard a
cui tendere, tragicamente comica e comicamente spiazzante.
Nel “Meridiano”
assistiamo alla nascita di Nathan Zuckerman, che sarebbe riduttivo
definire un alter ego e ridondante definire un personaggio.
Zuckerman, che fa la sua comparsa in My Life as a Man del 1974
come creatura e si afferma come protagonista in Lo scrittore
fantasma del 1979, è la copertura della copertura: il modo che
Roth ha escogitato per non far trapelare niente di se stesso
attraverso le maglie strette della narrativa. Oppure per rivelare
tutto dando l’impressione di non farlo. Si tratta nuovamente di un
primato, poi riciclato e riutilizzato dalle nuove leve e dagli
estimatori. Mai, fino ad ora, eguagliato.
La linea ebraica
La linea che passa tra
Bellow e Roth, prendendo idealmente avvio da Franz Kafka e Sholem
Aleichem, ramificandosi in Isaac Bashevis Singer, Salinger e Bernard
Malamud, per poi confluire nel genio comico di Fran Lebowitz e in
Norman Mailer ed essere trasmessa a Gary Shteyngart, Nathan Englander
e Shalom Auslander come un’eredità, è riconoscibile nell’identità
ebraica. Bellow si è interrogato spesso sulla matrice dei suoi
scritti e su quanto l’ebraismo li abbia influenzati, concludendo di
poterne fare a meno ma, contemporaneamente, lasciando ai suoi
successori un ennesimo argomento di discussione. È una storia che si
ripete: di maestri, sempre gli stessi, e allievi sempre nuovi, dei
quali è difficile tenere traccia.
Da una parte ci sono due
generazioni di talenti inscalfibili che prendono spunto l’una
dall’altra per modellare la nuova letteratura americana, tra
ubriacature nei campus, critici schiaffeggiati e discussioni sulle
verande delle case di campagna. Dall’altra c’è Franzen che si
ribella a Oprah nel tentativo di acchiappare la maggiore fetta di
pubblico possibile: non un bello spettacolo.
Pagina 99, 3 novembre
2017
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