Quando mi sono avvicinato
a Fortini per la prima volta partivo – come accade quasi sempre –
da un bagaglio di pregiudizi, da un’immagine scolastica
dell’autore, da un ritratto che, per esigenze didattiche, non
poteva che essere monolitico e semplificato. Fortini mi appariva,
dunque, come un amante della mediazione e del gelo, della vecchiaia e
del Superego, della norma metrica e della lingua borghese. In
seguito, approfondendo la conoscenza del corpus fortiniano, mi sono
reso conto che nelle sue
scritture è sempre possibile riscontrare almeno due proposte, due
poli opposti eppure dialetticamente intrecciati. In altre
parole, l’immagine che avevo scorto prima della lettura diretta era
sostanzialmente corretta ma trascurava l’esistenza di alcune
necessarie e feconde coppie antinomiche: Fortini
è insieme poeta della vecchiaia e della giovinezza, della mediazione
e dell’immediatezza, della pazienza e dell’impazienza.
Ma Fortini non è solo un
poeta, anzi è un esponente di una generazione di intellettuali
completi, capaci di essere insieme romanzieri, lirici, giornalisti,
polemisti, traduttori, insegnanti, copywriter, sceneggiatori,
recensori, ideologi. Ecco allora il primo punto di forza e ricchezza
di opere come Asia Maggiore, I Cani del Sinai, L’ospite ingrato, Un
giorno o l’altro: si tratta di scritture ibride, il cui genere è
incerto e sfuggente. Il più classicista tra gli autori del secondo
Novecento conduce, sotterraneamente, un’ardita sperimentazione e
propone delle spiazzanti contaminazioni. I suoi testi sono un
incrocio tra memorialistica, diario, autobiografia, critica
letteraria, trattato storiografico, pamphlet, reportage. La cifra
unificante è quella del saggismo come saggezza distinta tanto
dall’arbitrio idiosincratico quanto dalla certezza positivistica.
La sua proposta, forse, conserva una sua validità; il suo modello
può essere ripreso e continuato.
Di conseguenza, una prima
ineliminabile duplicità – che è fortiniana solo perché è di
ciascuno di noi – è quella tra io e mondo. Da una parte, Fortini
rivendica le istanze di emancipazione soggettiva, reclama il valore
della felicità qui-e-ora, non dimentica la sfera dei sentimenti,
dell’amicizia, dell’amore, ma anche della morte, della follia,
della malattia. Dall’altra, la sua analisi ha sempre la spietata
lucidità di chi ricerca la posizione oggettiva occupata dal singolo
in un campo di forze che lo trascende e lo determina. Una tensione
simile innerva il rapporto tra morale e politica. Da una parte,
abbiamo il dovere assoluto di dire la verità e di perseguire il
proprio fine utopico, di affrontare la scelta frontale della tragedia
e di non scendere mai a comodi compromessi. Dall’altra, c’è la
necessità di valutare i risultati delle proprie azioni, c’è
l’orizzontalità degli organismi collettivi, c’è l’incarnazione
nelle istituzioni e nei partiti.
Anche il metodo con cui
l’intellettuale fiorentino guarda all’alterità rispecchia una
duplicità di atteggiamenti. Infatti, Fortini compie due operazioni
antitetiche e complementari: da un lato storicizza, legge la lettera,
precisa il contenuto di fatto; dall’altra attualizza, costruisce
l’allegoria, compie lo scatto ermeneutico indispensabile alla
scoperta del contenuto di verità. Per esempio, il suo guardare alla
Cina al fine di cambiare l’Italia e di criticare lo stalinismo non
lo esimeva dal compito di comprenderne a fondo la cultura e le
trasformazioni. Un paese allegorico non perde la propria realtà
drammatica: per comprenderlo è necessario incontrare persone,
visitare luoghi, leggere documenti, studiare economia, diritto,
agronomia. Lo stesso accade con i testi letterari del passato: dalla
parafrasi e dalla minuziosa ricostruzione delle varianti manzoniane
della Pentecoste esce – potente e inaspettata – l’immagine
rivoluzionaria del «bellico coltivator d’Haiti».
Come in Benjamin, perciò,
il passato non è un archivio sicuro, un possesso tranquillo e
garantito per l’eternità: Fortini ha visto le biblioteche bruciare
e crollare. Inoltre, il patrimonio culturale è quello dei vincitori,
l’arte è splendore e orrore allo stesso tempo. Di conseguenza, la
storia deve essere passata a contropelo e deve essere scritta nel
momento di massimo pericolo, nell’urgenza di quell’istante in cui
si scardina il continuum socialdemocratico del tempo, la successione
meccanica delle ere verso il progresso. Sono fondamentali, allora, le
tecniche dello straniamento, della citazione e, soprattutto, del
montaggio.
Prima di tutto, il
montaggio è un procedimento stilistico, dato dai bianchi
tipografici, dai silenzi, dagli stacchi, dal non-detto: cioè da
quella scrittura “difficile” che richiede al lettore uno sforzo e
un impegno costanti. Fortini non parla a tutti; il suo è un pubblico
parziale, selezionato non da un privilegio di casta ma da una
comunanza di intenti. Il montaggio, però, risiede soprattutto nelle
macrostrutture e nella prospettiva mondiale adottata: esso coincide
con la capacità di spezzare quanto è falsamente unito
dall’ideologia dominante e di collegare quanto è falsamente
separato. Siamo di fronte a un’operazione che è insieme razionale
– perché in grado di svelare le leggi, le costanti
economico-politiche dei fenomeni – ed emotiva – perché mirante a
un coinvolgimento passionale del fruitore. Per Fortini, il Congo,
l’Angola, Cuba, il Vietnam, Reggio Emilia, l’Algeria non erano
che episodi di un’unica guerra, manifestazioni di un conflitto di
fondo che è l’ultimo per visibilità in quanto primo per
importanza: quello di classe. Se la sua attenzione si rivolge
all’Asia, all’Africa e all’America latina è perché ogni
ipotesi socialista attuale deve porsi in una dimensione globale, deve
saldare la precarizzazione e la proletarizzazione di ogni attività –
anche quelle intellettuali e del terziario – allo sfruttamento
brutale e occultato dei veri dannati della terra. Lo sguardo è
rivolto al futuro, non a un terzomondismo romantico e regressivo.
Negli anni Settanta,
contro l’“oblio indotto” promosso dal sistema, contro la
fluidità indistinta del Surrealismo di massa, contro la perdita dei
nessi spazio-temporali diffusa da televisione, pubblicità e
stupefacenti, Fortini conduce una vigorosa campagna per la memoria.
La sua memoria, però, è sempre orientata verso una meta, è sempre
partigiana e selettiva. Quando Troia è in fiamme, Enea deve decidere
cosa salvare. La selezione avviene sulla base di una scala di valori
e di un’assiologia gerarchica. Nulla di più distante dal
supermarket postmoderno in cui ogni elemento del passato è una
merce, un prodotto appiattito su uno scaffale privo di profondità
diacronica, ugualmente disponibile all’io-consumatore della società
dello spettacolo. Per Fortini, chi sceglie una tradizione sceglie una
discendenza: la vertiginosa sequenza dei predecessori, i millenni
alle nostre spalle, si ribaltano nella pulsione verso un avvenire
messianico, nella speranza di nipoti capaci di superare, e inverare,
i propri nonni. «Proteggete le nostre verità» non è, ovviamente,
un invito alla conservazione, ma è una preghiera di cambiamento
completo, di trasformazione radicale dello stato di cose presente.
Tuttavia, la difficoltà dei trapassi e delle eredità, della
comunicazione intergenerazionale, delle traduzioni e degli
aggiornamenti, è enorme. Fortini lo sapeva. Se la distinzione
brutale e brechtiana tra chi sta in alto e chi sta in basso è sempre
valida, se i classici del marxismo continuano a descrivere l’oggi,
è però necessario capire volta per volta cosa bisogna riformulare,
che nuove analisi bisogna svolgere, che dati raccogliere, che sintesi
elaborare. Se il tempo lungo della modernità, probabilmente, non è
finito, la creazione di un mercato unico, il problema ecologico, il
neocapitalismo finanziario, la deriva neoliberista delle sinistre ci
pongono degli interrogativi e invocano un faticoso processo di
verifica dei poteri e delle teorie.
Gli ospiti (da
Questo muro)
I presupposti da cui
moviamo non sono arbitrari.
La sola cosa che importa
è
il movimento reale che
abolisce
lo stato di cose
presente.
Tutto è divenuto
gravemente oscuro.
Nulla che prima non sia
perduto ci serve.
La verità cade fuori
della coscienza.
Non sapremo se avremo
avuto ragione.
Ma guarda come già
stendono le loro stuoie
attraverso la tua stanza.
Come distribuiscono le
loro masserizie,
come spartiscono il loro
bene, come
fra poco mangeranno la
nostra verità!
Di noi spiriti curiosi in
ascolto
prima del sonno
parleranno.
Volendo tirare le fila,
cosa può insegnarci Fortini oggi? Il nucleo della sua lezione sta
nella delicata dialettica tra tattica e strategia, nell’articolazione
tra tempi brevi e tempi lunghi. Al versante apocalittico, agonistico,
profetico, egli seppe affiancare un impegno concreto e diuturno, un
servizio umile e paradossalmente riformista.
Come ha recentemente
sostenuto Daniele Balicco – nel primo incontro del ciclo Memorie
per dopodomani – la lettura di Fortini ha, poi, una funzione di
ecologia politica, di pulizia della mente. In altre parole, le sue
pagine consentono di affrancarsi dai luoghi comuni, dalla persuasione
occulta, dall’indottrinamento subdolo divulgati dai mass media. Le
sue semplificazioni provocatorie distruggono il mito di una
incomprensibile complessità del mondo; la sua ricerca di una
ideologia unitaria si oppone allo specialismo come frantumazione
elitaria del sapere. Tutto ciò non implica, però, un mero
riduzionismo della sovrastruttura alla struttura – per usare
termini desueti; né un elogio dell’improvvisazione e
dell’ignoranza. La sua parzialità non è settarismo. In
opposizione all’“informazione inutile” della televisione –
che equipara gli eccidi e le guerre alle eruzioni e ai terremoti –,
Fortini interpreta il presente come un processo, sottraendo la storia
a una mistificatoria naturalizzazione. Le caratteristiche ambientali,
certo, spiegano gli individui; le scienze sociali sono dunque
fondamentali per comprendere appieno il potere delle circostanze.
Eppure, il loro carattere descrittivo non deve divenire segretamente
apologetico. Il donde deve sempre connettersi al dove, a una
prospettiva di lukácsiana memoria: a Fortini e Sartre non interessa
cosa è stato fatto all’uomo, ma cosa egli sa fare di ciò che ha
subito. Contro ogni determinismo biologico e ogni storicismo volgare,
Fortini rivendica sempre un margine di libero arbitrio e di
responsabilità individuali.
Fortini ci rammenta che
ogni liberazione affrettata del soggetto priva di una trasformazione
della società si risolve in narcisismo edonistico. Parimenti, egli
sostiene che la contemplazione elegiaca di un’utopia perfetta
rischia di sfociare in un nobile ma innocuo tragicismo o in un
quietismo attendista. Pertanto, occorre rifiutare sia il rinvio
perpetuo a un domani inverificabile sia la promessa di una soluzione
facile e immediata.
La gioia avvenire
(da Foglio di via)
Ma prima di giungervi
Prima la miseria profonda
come la lebbra
E le maledizioni
imbrogliate e la vera morte
Tu che credi dimenticare
vanitoso
O mascherato di
rivoluzione
La scuola della gioia è
piena di pianto e sangue
Ma anche di eternità
E dalle bocche sparite
dei santi
Come le siepi del marzo
brillano le verità.
In conclusione, se le
parole d’ordine e lo strumentario retorico di Fortini possono
suonare, a qualche orecchio odierno, lontani e datati come
l’eloquenza del Risorgimento, tuttavia il conflitto, le
diseguaglianze, gli sfruttamenti esistono ancora e anzi continuano a
inasprirsi. E se siamo tutti succubi delle manipolazioni mediatiche,
tuttavia bisogna distinguere ostinatamente tra produttori e vittime,
tra venditori e consumatori di un universo simbolico demoralizzante e
depoliticizzato. Fortini ci insegna che dal presente c’è sempre
una via d’uscita, che qualunque situazione può essere mutata, che
il futuro – nonostante l’impressione sempre più forte di
impotenza e frustrazione – rimane affidato nelle nostre mani. «Il
combattimento per il comunismo è il comunismo. È la possibilità
(scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili) che il maggior
numero possibile di esseri umani viva in una contraddizione diversa
da quella odierna». Ai propri amici piacentini, egli ricordava che
il socialismo non è inevitabile. A noi ripete che, nonostante tutto,
non è impossibile.
La gronda
(da Una volta per sempre)
Scopro dalla finestra lo
spigolo d’una gronda,
in una casa invecchiata,
ch’è di legno corroso
e piegato da strati di
tegoli. Rondini vi sostano
qualche volta. Qua e là,
sul tetto, sui giunti
e lungo i tubi, gore di
catrame, calcine
di misere riparazioni. Ma
vento e neve,
se stancano il piombo
delle docce, la trave marcita
non la spezzano ancora.
Penso con qualche gioia
che un giorno, e non
importa
se non ci sarò io,
basterà che una rondine
si posi un attimo lì
perché tutto nel vuoto precipiti
irreparabilmente, quella
volando via.
Il lavoro culturale,
6/12/2014
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