[Questo breve saggio è
tratto dal volume collettivo Lo scrittore al tempo di Pasolini e
oggi. Tra società delle lettere e solitudine, a cura di Angela
Felice e Antonio Tricomi, Venezia, Marsilio, 2017.]
Certo, se si assimila il
neoliberalismo, o la liberaldemocrazia in genere, a un capitalismo
imperiale privo di attriti consistenti, a un impero del mercato, a
una variante del totalitarismo, beh, allora ci sta che la cosiddetta
globalizzazione altro non sia che l’intensificazione e lo sviluppo
di ciò che Pasolini denunciava a suo tempo come omologazione
culturale. Ma i fatti, nei decenni trascorsi dalla morte del poeta
corsaro a oggi, si sono incaricati di mostrare che la sua era una
diagnosi sbagliata. Come inesatte si sono rivelate, in un senso più
ampio, le teorie sociologiche circa la secolarizzazione e la
modernizzazione incessanti a cui sarebbe stato destinato l’intero
globo terrestre.
Si comincia già nel
1979, a soli quattro anni dalla scomparsa di Pasolini, con la
rivoluzione iraniana che nacque senza dubbio da un sollevamento
popolare antimperialista, ma quasi subito prese una piega
imprevedibile stando al dogma di una modernizzazione planetaria. Fu
infatti segnata da una svolta teocratica (su cui un osservatore come
Foucault aveva inizialmente scommesso, parlando di una «spiritualità
politica», salvo prenderne rapidamente le distanze), né marxista né
liberale ma neotradizionale, nel senso di una tradizione culturale e
religiosa reinventata in maniera immediatamente politica.
E il consumo, allora? Non
implica necessariamente l’omologazione. Le culture particolari lo
attorcigliano, lo inglobano all’interno della loro ricerca
identitaria. È il caso, per esempio, della coca-cola islamica, la
Mecca-cola, una bevanda presente non soltanto nei paesi
arabo-musulmani ma in Europa, in Francia, dove peraltro è stata
inventata, diffusa nei quartieri dell’immigrazione. La modernità
capitalistica dimostra così di essere ibridante, il che è altra
cosa dall’omologazione. Com’è avvenuto del resto in Giappone –
paese occidentalizzato ma mai del tutto omologato, perché ha
reinserito la modernizzazione nella propria tradizione –, o come
sta avvenendo oggi in Cina nel mix di dispotismo orientale e
ideologia dell’“arricchitevi!”. Tradizioni culturali e sviluppo
economico e tecnologico si tengono; oppure si constata l’aperta
negazione della loro mescolanza in un radicalismo purificatorio
(nell’Afghanistan dominato dai talebani s’impiccavano gli
apparecchi televisivi agli angoli delle strade).
Si potrebbe dire che la
«scandalosa forza rivoluzionaria del passato» sia stata comunque
distrutta: la devastazione è andata avanti, ognuno può vedere le
nostre antiche città trasformate, sfigurate. La mistura di
tradizione e modernità che abbiamo dinanzi, infatti, non è la loro
riconciliazione armonica, è il loro amalgama informe. Le brutture,
le ferite impresse nel paesaggio, sia urbano sia naturale, vengono da
qui: da questa forza ibridante e caotica che non annulla il passato
ma ne depotenzia la pretesa rivoluzionaria. Cadono, insieme, e
l’idillio e la modernizzazione trionfante che quell’idillio
avrebbe cancellato. E cade quindi Pasolini, con il suo avere
accarezzato l’idillio e averne annunciato la fine, mancando l’uno
e l’altra, mentre la storia stava andando da un’altra parte. Ma
coloro che a suo tempo gli opponevano la lotta di classe, di cui lui
intravedeva invece l’esaurimento, sbagliavano anch’essi
rifriggendo un marxismo ormai a corto d’idee. Lo scontro, il
conflitto – lo si è visto dopo – non sono affatto aboliti, anzi
sono più vivi e violenti che mai; soltanto hanno imboccato strade
diverse da quelle previste e prevedibili. Il terrorismo islamista sta
lì a ricordarcelo: né lotta di classe né omologazione culturale
consumistica (che spingerebbe piuttosto a vivere). Forma di vita
anticonsumistica, allora, con il suo ethos del sacrificio suicida? Lo
definirei come la forma informe del conflitto postcoloniale: contro
l’Occidente in quanto cultura dominante, e sottotraccia ancora
colonialista, ma senza una prospettiva anticapitalistica. Il
jihadismo impugna la religione come un’arma, ne fa lo strumento di
una ripresa della tradizione in chiave identitaria, sovrapponendo
alla sfera economica occidentale moderna – de-differenziata e
fattasi cultura antropologica in virtù dello sfolgorio delle merci
estetizzate – una sua propria estetizzazione come culto
politico-religioso della morte, proponendo di fatto un’inversione
del processo di secolarizzazione con la cancellazione della
differenziazione funzionale moderna tra politica e religione; laddove
a prevalere in Occidente è la tendenza alla perdita di autonomia
della politica sotto il primato di un’economia culturalizzata.
Tutto ciò è il portato
di una modernità che mette capo a una formazione di compromesso con
il passato arcaico-tradizionale. Pasolini non colse la trasformazione
– che del resto nessuno dei diagnostici del suo tempo riuscì a
cogliere – della presunta storia universale in un agglomerato di
storie che, già ai suoi tempi, iniziava a palesare i tratti
non-contemporanei di un passato che non passa e di un futuro che
sprofonda. Risultato: una sorta di eterno presente con cui le culture
particolari sono oggi alle prese ciascuna a suo modo, senza che
l’Occidente riesca più a esercitare quella egemonia unificante
aperta al futuro, “progressiva” a doppia faccia, alternativamente
liberaldemocratica o marxista, che riusciva così bene nell’epoca
del mondo diviso in blocchi. Quello dell’Algeria è il caso più
macroscopico: una rivoluzione anticoloniale, che aveva rivolto contro
la metropoli francese le sue stesse armi “giacobine”, andata a
male, sfociata nel predominio di una casta burocratico-militare
filosovietica prima, e poi nel caos degli anni novanta tra islamismo
radicale e repressione statale.
Pasolini vedeva se stesso
come ultimo difensore del passato in una post-storia fondata su uno
sviluppo economico e tecnologico privo di qualsiasi progresso civile.
Ma il documentario del 1971, Le mura di Sana, con il suo
appello all’Unesco affinché intervenga a salvare la bellissima
capitale dello Yemen da una modernizzazione distruttiva, oggi fa
sorridere se si pensa ai bombardamenti che hanno ferito quell’antica
città in profondo nel quadro del confronto armato (tuttora in corso
mentre scrivo) tra la coalizione guidata dalla potenza regionale
saudita e l’Iran sotto le spoglie degli Huthi, detti anche
Partigiani di Dio. È una guerra confessionale tra sunniti e sciiti,
quella che sta devastando lo Yemen in un cortocircuito con il passato
che avrebbe lasciato senza parole Pasolini (e che, d’altronde,
nemmeno sarebbe possibile decifrare in termini di classi sociali). La
post-storia si salda con la preistoria – nel caso specifico con
quella delle guerre di religione. Non diversamente vanno le cose
negli altri paesi protagonisti della cosiddetta primavera araba del
2011: come si legge sull’Huffpost (11 giugno 2017), a firma di
Umberto De Giovannangeli, «[…] il futuro della Libia sembra essere
nel suo passato. Se si vuole contrastare “l’ordine” del
Califfato [cioè dell’organizzazione denominata Stato islamico],
occorre puntare sull’ordine tribale». Quindi tribù tradizionale
versus neotradizionalismo islamista.
Assente è quel
proletariato industriale mondiale, proiettato in un’unica storia
universale, che avrebbe avuto la missione di rovesciare il
capitalismo. Su ciò Pasolini non si era sbagliato: da buon
terzomondista (in linea, su questo, con una parte non secondaria del
pensiero sessantottesco) aveva ben visto l’integrazione della
classe operaia in Occidente – che di lì a poco, con i mutamenti
nell’organizzazione della produzione e il superamento della
fabbrica fordista, si prolungherà in una sua sostanziale scomparsa.
Bisogna però collocare Pasolini nel contesto intellettuale della sua
epoca: lui se la prendeva con l’operaismo italiano (che fu anche
studentesco) degli anni sessanta e settanta, quello che tra i suoi
esponenti aveva il temibile Asor Rosa, l’autore di Scrittori e
popolo, e alcuni rappresentanti della detestata neoavanguardia
letteraria di quegli anni. Alla loro mitologia della classe operaia
aveva opposto la sua propria mitologia, insistendo sul
sottoproletariato romano e poi mondiale, e sulla civiltà contadina,
con accenti populistici (nel senso del populismo russo) se non
addirittura strapaesani. Ma ciò gli era stato possibile fino a un
certo punto, poi la delusione lo aveva sopraffatto. L’aspetto
umorale non va sottovalutato. Pasolini non ragionava con mente pura,
il momento emotivo fa parte a pieno titolo del suo pensiero – ed è
la sua parte migliore, all’origine della sua permanenza oggi.
Perché Moravia è stato risucchiato nel gorgo del tempo e Pasolini,
al contrario, vive? Perché il primo era una sferragliante macchina
narrativa e saggistica e il secondo un intreccio di nervi e passioni.
Io leggo la particolare
combinazione di visceri e intelletto tipica di Pasolini (essa stessa
una forma d’ibridazione, in fondo) nella lente del concetto
ossimorico di impegno scettico: non punto di partenza ma approdo
pressoché involontario da parte del poeta corsaro, inizialmente
votato a una poesia civile tutt’altro che scettica. Se ciò in cui
da giovane aveva creduto gli si sfarinava tra le dita, alla fine non
gli restava altro se non una passione che consumava l’ideologia.
Questa tonalità emotiva diventava completa sfiducia nei confronti
della civilizzazione e critica della civiltà in genere. Pasolini
poteva stigmatizzare di volta in volta la moda giovanile dei capelli
lunghi, o una legge sul diritto all’interruzione della gravidanza,
come pericolosissimi segni della “decadenza” – se si volesse
usare il termine proprio di una critica della cultura di marca
conservatrice – o, piuttosto, della devastazione neocapitalistica
secondo una visione ancora orientata da un super-io in senso lato
marxista.
Ma né l’una né
l’altra terminologia possono rendere pienamente conto della
condizione scettica in cui la rottura delle precedenti certezze fa
precipitare Pasolini. Essa oggi si offre ai lettori nella grande
opera incompiuta chiamata Petrolio, illustrazione di un finale
atteggiamento sadomasochistico generalizzato ma anche
esemplificazione maggiore di quello che chiamo impegno scettico. Né
la forma romanzesca né quella più strettamente autobiografica si
salvano da un umore atrabiliare che pervade l’intera costruzione
affidandole un grandioso compito impossibile, fortemente autocritico
rispetto alla precedente poetica dell’autore. Il romanzo – ed è
questo a renderlo importante ai nostri occhi – è agli antipodi sia
della (a quei tempi) incipiente sindrome che sarebbe stata detta “il
postmoderno”, sia dell’“opera mondo” priva di un punto di
vista vero e proprio. È la registrazione di una crisi – di un
autore e di un intero paese intorno a lui –, ed è un romanzo a
tesi privo di una tesi che non sia il Kulturpessimismus. Un libro
sull’Italia di quegli anni, il paese delle stragi neofasciste
abilmente pilotate da un potere così sciocco da non rendersi conto
di avere già vinto la partita grazie al diffondersi dei consumi.
Anche se proprio qua, nella concezione del potere e della sua
anarchia, i difetti del sociologo appaiono evidenti: quel Potere, che
Pasolini scriveva con la maiuscola o rappresentava mediante la
metafora del Palazzo, non esiste: piuttosto ci sono i poteri al
plurale. Tra questi, quello legato a un passato totalitario che
l’Italia ha ben conosciuto; accanto a esso l’interesse, anche
solo strettamente elettorale, di un partito, la Democrazia cristiana,
nel tenere in tensione costante gli “opposti estremismi” per
ottenere una stabilizzazione al centro dello schieramento politico.
Finanche nell’interpretazione di un fenomeno estremo come quello
delle stragi, nel contesto dell’Italia di allora e del mondo diviso
in blocchi, il passato riprende quota come un nucleo germinale dei
possibili, un serbatoio di significati riattivabili sotto le
condizioni di una selettività storica che li riprende in modo
regressivo e reazionario, o al contrario progressivo e
rivoluzionario, a seconda della situazione e degli equilibri tra i
poteri in campo. Nulla di rivoluzionario in sé, quindi. Ma neppure
qualcosa che possa semplicemente essere inghiottito e scomparire nel
corso del tempo.
Pasolini, in definitiva,
è un autore cui ritornare al di fuori dell’icona postuma
costruitagli attorno sia dalla insulsaggine della estetizzazione
diffusa sia dai suoi troppi critici acritici. E questo malgrado le
carenze del suo discorso, ma non malgrado quella che, con Fortini,
può essere detta la sineciosi della sua presenza letteraria e
civile. Sotto questo aspetto ha ancora senso confrontarsi con
Pasolini. Prendere parte e insieme ritirarsi dal premio Strega, con
una protesta contro l’industria culturale che renderebbe gli
scrittori servi, come lui fece nel fatidico 1968 (anno che, com’è
noto, non gli fu gradito, ma di cui accolse molte più istanze di
quello che si potrebbe credere), è un esempio vivente di sineciosi.
All’epoca, il ragazzino di quattordici anni che ero fu colpito
dalla sua presa di posizione. Teorema – il libro ritirato
dalla competizione, non il film che non potei vedere perché vietato
ai minori – fu così la sua prima opera con cui ebbi modo di
misurarmi, e conservo ancora quella prima edizione Garzanti. Oggi
nessun autore si sogna più di protestare contro i premi letterari.
Tutti ormai definitivamente servi? Certo è che, da allora, un libro
presentato allo Strega per principio non lo prendo in considerazione.
Un impegno scettico, in
se stesso intrinsecamente paradossale, spinge a sbagliare e a
correggersi, e poi a correggersi ancora e magari a sbagliare ancora.
Si tratta di una tensione morale prima che politica, non sorretta da
un’ideologia a tutto tondo in grado di conferire una qualche
presunzione d’infallibilità. Questo impegno è perciò diverso
dall’attivismo dei giovani sessantottini. Ma non gli è opposto. In
un certo senso ne è la coscienza critica. Se Pasolini ebbe torto
nella sua polemica contro il movimento studentesco (salvo poi per un
periodo fare il compagno di strada di Lotta continua), il piccolo
mondo della cosiddetta nuova sinistra sbagliò a considerarlo un
artista “borghese”. Demitizzare la milizia politica, investita in
quegli anni da uno spirito de-differenziante pressoché religioso, e,
d’altro lato, non chiudersi alla chance di progresso che baluginava
nei movimenti dell’epoca – fu quanto mancò, a considerarle
insieme, alle due parti.
dal sito “Fondazione
per la critica sociale”, 8 dicembre 2017
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