Articolo scritto in
reazione ad una sorta di beatificazione di Sandro Penna che era in
voga all'inizio degli anni Novanta e che di quando in quando
ricompare. Le osservazioni di Giuliani sono in qualche punto acide e
maligne, ma il suo è – comunque – un punto di vista di cui
tenere conto. (S.L.L.)
La prima volta che ho
scritto una recensione delle poesie di Sandro Penna, e in verità si
trattava di un piccolo saggio che poi raccolsi in un libro, mi
guadagnai la fervida stima e l'amicizia dell'autore. Era perfino
imbarazzante, seppure divertente e piacevole, sentirgli dire in giro
anche a distanza di anni che di lui avevo capito tutto. Senza volerlo
avevo conquistato il suo narcisismo, che era massimo. Ho conosciuto
raramente persone tanto innamorate di sé. Un amore sempre presente,
candido e perfido allo stesso modo e allo stesso tempo. Anche del
mondo e della vita era innamorato, solo in quanto il mondo era vivo
in lui, si capisce.
Un'altra volta scrissi di
Penna, in queste pagine, quando il poeta morì nel 1977. Non vorrei
ripetere le parole già scritte, ma in parte dovrò farlo mio
malgrado, perché nella sostanza mi sembrano ancora pertinenti e
inevitabili. Tuttavia cerco ora di mettere a fuoco una rilettura
recente. È, se si vuole, una rivisitazione che mi obbliga anche a un
fastidioso confronto. Con che cosa? Con il culto di Penna, che è
nato in questi ultimi anni e che prima non c'era. Se non sbaglio,
l'unico a dichiarare di essersi fatto un culto di Penna fu in passato
Pier Paolo Pasolini, il quale vedeva in lui addirittura un santo
anarchico, un asceta dispensatore dei propri peccati, grande per la
sua poesia vissuta non meno che per la sua poesia scritta. Oggi la
critica ha perduto pressoché interamente l'equilibrio e
l'attendibilità. Si va sul becero e cialtronesco o sul sublime, e
magari sui due versanti contemporaneamente, senza che il raziocinio
possa farci nulla. Che esista un culto di Penna da parte dei lettori,
specie di certi lettori, posso anche comprenderlo e non mi turba
affatto. Ciò che trovo preoccupante sono le esagitazioni di alcuni
critici reputatissimi intorno a qualcosa che sembrerebbe
l'ineffabilità o una virtù straordinaria della poesia penniana.
Nell'introduzione al
catalogo del prossimo convegno Omaggio dell'Umbria a Sandro Penna,
Cesare Garboli, registrando l'interesse oggi nientemeno che dilagante
per il poeta, lo spiega col fatto che una poesia così tradizionale
nel suo linguaggio e nella sua apparenza formale, tende a espandersi
come un sistema di ossatura morale che si muove e si articola al di
fuori dell'umano. Ora, tralasciando di discutere sull'ossatura a
proposito di una poesia tanto disossata e tenera, e sulla morale
dell'artista, che caso mai vedrei identificata proprio nella sua
viziosa tenerezza, mi domando che cosa voglia dire al di fuori
dell'umano. Nel divino? o semplicemente nel biologico, nella classe
dei mammiferi? In Penna non c'è nessuna affettività, c'è soltanto
desiderio. Ecco la morale, ecco ciò che s' impara dalla sua poesia.
Se è per questo, la formula vale perfettamente per D'Annunzio. In
D'Annunzio non c'è affettività, c'è soltanto desiderio. E
D'Annunzio è stato indubbiamente un maestro (pessimo) di morale. Ma
di quale morale stiamo parlando? Di quella degli esteti, che ai tempi
dannunziani provenivano dai ceti borghesi e oggi possono sbucare da
qualsiasi discarica dei mass media. La morale di chi cerca nella
poesia un messaggio, esplicito o implicito che sia, una suggestione,
un contagio? Di chi inclina, più o meno ingenuamente, a servirsi
della poesia? Non basta, la poesia, intenderla e goderla come una
musica, un quadro, una forma abnorme di discorso? Capirla come si
capisce un altro, un se stesso, uno dei tanti possibili noi stessi? O
anche come una recita? Un paesaggio di parole, una costruzione di
parole? Quanto all'affettività di Penna: essa scaturisce da una
perversione (si fa per dire) che ci tocca tutti: il piacere di
guardare (ciò che in lingua dotta si chiama scopofilia) e di essere
guardati (esibizionismo). Si potrebbe notare che le migliori poesie
di Penna nascono dall'incredibile, variata monotonia di tali atti di
origine infantile. È difficile trovare una poesia insieme più
delicata e più oscena di questa: Un po' di pace è già nella
campagna./ L' ozio che è il padre dei miei sogni guarda/ i miei vizi
coi suoi occhi leggeri.// Qualcuno che era in me ma me non guarda/
bagna e si mostra negligente: appare/ d' un tratto un treno coi suoi
passeggeri/ attoniti e ridenti: ed è già ieri. Nel motivo
dell'essere guardati e del guardare s'intrecciano attori e
spettatori. E il felice disegno trova il suo vago centro nel primo
verso della seconda terzina (che però continua nel bagna del verso
successivo), con la pregnante connotazione psicologica del me non
guarda (l'altro si è rivolto per orinare, evidentemente). (Si è
rivolto per farsi guardare dai passeggeri del treno che
sopraggiunge?). Io ci vedo la gioia maliziosa e sognante di
sbalordire le convenzioni, i piccoli divieti. Di fare all'aria aperta
assortite intimità. E di guardare le proprie sensazioni (la società
vorrebbe proibirle!) con dolce egotismo, dare un garbo squisitamente
scandaloso alla mania omosessuale. Vogliamo vederci una morale? Mah!
A qualcuno farà comodo, forse. Io ci vedo un'arte, spesso mirabile,
a volte troppo facile, ristretta alla personalità ossessiva del
protagonista. Le parole delle sue poesie sembrano venire da tutte le
albagie, i vizi solitari, i possessi, le gioie, le malinconie, le
eccitazioni della passione sessuale per gli adolescenti, i fanciulli.
Suppongo che, fino a quando ha potuto, egli abbia visto anche se
stesso come un fanciullo, solo più spericolato e astuto dei
fanciulli che adescava. Dominare un fanciullo, ed ascoltare / la
propria voce crescere nel canto suona come una poetica abbastanza
goffa, se non esecrabile e retoricamente falsa, sopra le righe.
Eppure il nesso pedofilia-poesia è in lui inscindibile e ne segna la
singolarità. I due versi che ho appena citato sono tra le rare
stecche di una voce che è invece educata a intonare nitidamente
l'idillio decadente e a giocare con gli aloni del non detto. La cheta
follia di Penna deve scoprirsi nel disegno chiaro e impreciso degli
oggetti, non nell'enunciare, nell'immoraleggiare.
Tanti anni fa Luciano
Anceschi notava in Penna una istintività sognante che si risolve in
un gusto pittorico tra Matisse e De Pisis. Puntualissima intuizione.
Tale gusto pittorico è stata la guida, la fortuna di Penna. La sua
poesia è una modulazione a margine disegnata in un momento di
ispirata leggerezza sul risvolto della vita. Una vita beatamente
sofferta e consumata nella continua ricerca del piacere naturale, nel
sogno e nella brama, nella contemplazione dei corpi e dei segni del
piacere: Quando discese la svelta lattaia / un cespo sentì
crescere nell'aia / l'assonnato garzone, e in sulla cima, / aperta
come rosa mattutina, / ma quale una rugiada assai più calda, / il
latte a lui restò, non la lattaia. Questa è una deliziosa
poesia minore in cui avvertiamo sorridendo gli echi leopardiani,
nonché la presenza della rosa matutina di Ariosto (che era
l'Angelica braccata dal circasso Sacripante). Possiamo immaginare
Penna eccitato dall'eccitazione del garzone, teneramente eccitato.
Perché questa è la sua visione del mondo, la forma della sua vita
indisciplinata: la voluttà. Di questa forma di vita, di questa
dolcezza seminale il raptus poetico è la ripetizione astratta e
maniaca. È il verismo irreale di Penna. Le parole sono, di quella
forma, la tattilità estrema figurata nel segno musicale, l'eutanasia
momentanea.
Il miglior Penna mi fa
pensare anche ai pittori della scuola romana, e a Rosai, insomma al
gusto degli anni Trenta. Famoso è questo interno che già entrava
nelle antologie quasi cinquant'anni fa: Dal portiere non c' era
nessuno. / C' era la luce sui poveri letti / disfatti. E sopra un
tavolaccio / dormiva un ragazzaccio / bellissimo. Uscì dalle sue
braccia / annuvolate, esitando, un gattino. Il margine di canto
in cui Penna sopravvive a pene, miserie, umiliazioni, con quella sua
strana gioia di vivere anche nel dolore, non affiora da una volontà
di conoscenza, da uno stupore drammatico, ma dalla percezione
immediata del vedersi e del guardare e vedersi guardato con gli occhi
della cheta follia. Lui, mostro da niente. In tale atto di
sdoppiamento il poeta ricompie continuamente l'atto di accettazione
di sé come diverso compiuto una volta per tutte in gioventù.
Qualche anno fa un mio
studente esaminò la ricorrenza di alcune parole nelle poesie di
Penna e scoprì che la parola di gran lunga predominante è lontano
(che Leopardi nello Zibaldone annota tra le poeticissime e piacevoli
perché destano idee vaste e indefinite). Ora lo studente, che si
chiama Ferretti, scoprì anche che in Penna quasi sempre lontano è
sinonimo di amore. Il che comporta un tono nostalgico connaturato
alla brama di possesso, insaziata dal rapporto erotico, stabile o
nomade poco importa. Considerando Tutte le poesie, Stranezze
e Confuso sogno (escludendo da quest'ultimo le varianti e le
giovanili) Ferretti contò che lontano ricorreva ben
sessantatré volte. Per un poeta dei sensi, più che dei sentimenti,
lontano finisce con l'essere l'oggetto più vicino, l'insaziabile
brama amorosa di cui parlava così stupendamente Lucrezio. Sarà
codesta la moralità di Penna? Sia pure. Ma essa s'impara
dall'esperienza della vita. E così la si può riconoscere nella
poesia. Andando alla rovescia si fa dell'estetismo.
“la Repubblica”, 21
settembre 1990
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