Liv Ullmann e Ingmar Bergman |
BERGAMO
Davanti
all’obiettivo dei fotografi, non sembra a suo agio. Cerca
l’espressione giusta, inclina la testa di lato, accenna un sorriso
incerto, come le persone che non sanno fingere.
Non
si direbbe che questa splendida signora con la maglia rossa, il
fisico slanciato da ragazza, abbia alle spalle una quarantina di
film, un paio di candidature all’Oscar e un lungo sodalizio con un
mito del cinema. Forse perché Liv Ullmann non ha mai indossato
maschere, e ancora oggi se ne fa un vanto. «Il mio Stradivari», la
chiamava Ingmar Bergman, alludendo al timbro prefetto con cui sulla
scena riusciva a esprimere emozioni, angosce, solitudine dei suoi
personaggi. Gli occhi sono quelli di sempre, lo sguardo di Marianne
in Scene da un matrimonio
o di Maria in Sussurri e grida,
un azzurro profondo nel quale è possibile leggere ciò che le passa
in mente, senza infingimenti. Gratitudine, passione, rimpianto.
Quando
si incontrarono sul set di Persona
– alla metà degli anni Sessanta – lei aveva 28 anni, lui venti
di più. La loro storia d’amore è durata cinque anni, l’intesa
artistica tutta la vita. Ospite del Bergamo Film Meeting, Liv Ullmann
ne parla con la serenità interiore di chi ha fatto un lungo viaggio.
E dall’alto dei suoi quasi ottant’anni – li compirà a dicembre
- tutto le sembra acquistare una giusta misura, anche il furore d’un
genio.
Signora Ullmann, nella
sua autobiografia lei ha scritto che siete entrati l’uno nella vita
dell’altro troppo presto e troppo tardi. Cosa intendeva?
«È
ciò che si pensa sempre quando finisce una storia. E io ho scritto
Changing subito dopo
la rottura con Ingmar, più di quarant’anni fa. Oggi tendo a
pensare che quello fu il momento giusto. Dal nostro incontro è
scaturita un’amicizia destinata a durare tutta la vita, al di là
dei nostri nuovi matrimoni».
Cosa non ha
funzionato?
«Entrambi
avevamo bisogno l’uno dell’altro. Ma Ingmar cercava la madre,
braccia aperte solo per lui, senza complicazioni. E io non potevo
essere questa figura protettiva perché anche io cercavo comprensione
e sicurezza. Lui sognava la donna tutta d’un pezzo; io mi
sbriciolavo in mille pezzi se non avevo la sua attenzione».
Questo da cosa
derivava?
«Il
nostro amore era figlio di una duplice solitudine. Ne soffrivamo
entrambi, anche se eravamo già sposati. Non è un caso che a questa
condizione esistenziale Ingmar abbia dedicato i primi film da me
interpretati, Persona,
La vergogna e
Passione. Quando ci
siamo conosciuti, per la prima volta abbiamo sentito di avere
qualcuno che fosse lì a rassicurarci: “ti ascolto”, “ti vedo”.
Ci siamo aperti completamente l’uno all’altro».
Eravate molto simili.
«Sì.
Anche ciò che Ingmar ignorava di sé stesso cominciò a vederlo in
me, nonostante fossi una donna e molto più giovane di lui. Ma forse
vedeva anche quella parte di sé che magari non gli piaceva. E, come
uno specchio, io ero sempre lì a ricordargliela. Questa simbiosi
psichica è molto evidente nei film che le ho citato prima».
In che senso?
«Io
ero lui. Rappresentavo la sua immagine riflessa».
Quanto è durato
questo gioco di specchi?
«Già
ne L’ora del lupo,
il film uscito nel 1968, smisi di essere Ingmar per cedere il ruolo a
Max von Sydow, che incarnava tutti i suoi demoni. E io non capivo
niente. “Ma cos’è questo? Cosa significa?”, continuavo a
chiedere durante le riprese. Il mio sperdimento restituiva la
relazione con lui».
Si sentiva sovrastata
dai suoi fantasmi?
«Ero
già incinta di nostra figlia Linn e pensavo: “Quest’uomo è
troppo complicato per me”. Finito il film, me ne tornai a casa, in
Norvegia. Ma Ingmar mi inseguì. Andò da mio marito e gli disse: “Io
la rivoglio indietro”. E io tornai da Ingmar. Come vede, i tempi
della liberazione della donna erano lontani…». (Liv
esplode in una delle sue risate liberatorie, come a disperdere tutti
gli incubi del passato).
Vivevate nell’isola
di Farö, una sorta di prigione.
«Ingmar
costruì intorno a me un gigantesco muro. Amici e famigliari erano
vissuti come una minaccia al nostro rapporto. La sua gelosia poteva
essere violenta, capace di troncare ogni relazione che potesse
mettersi tra noi. Mi sarei potuta ribellare, e non lo feci. E quindi
sono stata io costruirmi la prigione, non Ingmar».
Come se ora volesse
giustificarlo.
«Per
me sono stati cinque anni straordinari. Ho imparato anche dai suoi
silenzi. Ho capito che dovevo emanciparmi dalla dipendenza da lui.
Certo non avrei potuto resistere oltre perché avevo bisogno di altre
relazioni, mentre per Ingmar l’isola era un rifugio. Ingmar stesso
era un’isola».
A un certo punto la
vostra relazione trovò un equilibrio.
«Fu
quando smisi di adorarlo e cominciai a vederlo. A scoprirne le
insicurezze. Ad avvertire il suo spaesamento in mezzo agli altri.
Potevo sentirlo dire all’improvviso: “O dio mio, vieni, tienimi
la mano”. Iniziava l’amore più grande, quello che accoglie le
ferite dell’altro».
Da dove venivano
questi suoi demoni?
«Non
so rispondere. Era capace di svegliarsi nel cuore della notte scosso
da sensi di colpa, rabbia, ansietà. Oppure l’insicurezza, la paura
di non essere protetti: penso ad alcune foto di Ingmar adolescente,
l’aria smarrita di chi non ha amici. Il mio istinto era di
abbracciarlo, senza troppe domande».
Ma questa fragilità
aveva a che fare con i genitori?
«Non
lo sapremo mai. Sia il padre che la madre erano persone adorabili.
Suo padre era un pastore della chiesa luterana molto sapiente sia
nell’arte del racconto che nell’ascolto, qualità ereditate da
Ingmar. Ma lui parlava del padre non sempre in termini entusiastici».
Le sue ossessioni
finirono per logorare il vostro rapporto. Lei una volta disse che non
c’è dolore più grande di essere lasciati.
«Sì,
è doloroso sentire una porta che si chiude e sapere che non si
aprirà mai più. Io ho avvertito questa sofferenza, ma anche Ingmar
l’ha provata. E dopo sarebbe tornato, ma a quel punto era troppo
tardi perché avevo già attraversato tutto il dolore e finalmente
ero libera. Lui non aveva ancora fatto lo stesso percorso. Ma fu
quello il momento giusto per lasciarsi: eravamo ancora in tempo per
costruire la nostra splendida amicizia».
Quanto della vostra
storia d’amore è stato trasportato in “Scene da un matrimonio”,
un film fondamentale per l’educazione sentimentale di più
generazioni?
«È
il film che ho amato di più tra quelli fatti con Ingmar. Ed è certo
quello più vicino alla nostra relazione, anche per la progressiva
emancipazione della figura femminile. Però il film non parlava solo
di noi, ma delle tantissime coppie che vi si sarebbero identificate.
Ed è questa la grandezza di Bergman».
All’inizio del
vostro amore c’era stato un sogno.
«“Ho
sognato che io e te siamo dolorosamente legati”, mi disse un giorno
Ingmar. E fu davvero così. Siamo stati dolorosamente legati fino
alla fine».
Cosa intende?
«Sapevo
che Ingmar non stava bene, ma non era così grave. Eppure una mattina
di luglio, 11 anni fa, sentii all’improvviso che dovevo correre a
Farö. Noleggiai un aereo privato, la prima volta nella mia vita.
Entrai nella sua stanza, lui era già assopito. Gli presi la mano e
gli dissi alcune cose su di noi, sul nostro rapporto, quanto era
stato importante. Non so se abbia sentito, forse la sua anima sì.
Sono stata l’ultima persona a vederlo. Ingmar è morto quella
notte».
Come se l’avesse
aspettata.
«No,
non posso dire questo. Ma è stato il dolore a portarmi da lui: non
riuscivo a immaginarmi una vita senza Ingmar».
A distanza di tanti
anni, ha capito chi era Bergman?
«Un
uomo buono che per tutta la vita ha cercato di dare un senso
all’esistenza. Lui non amava l’indifferenza tra le persone. Nel
“Settimo sigillo”, quando gioca a scacchi con la morte, il Conte
dice: per favore, non portarmi via prima che io abbia compiuto almeno
un’azione buona. Questo era Bergman: diceva di non credere in Dio,
ma tutto quello che ha fatto è stato il tentativo di trovarlo».
Se tornasse per un
giorno soltanto, cosa gli direbbe?
(Liv
si commuove, come se vivesse davvero quel momento).
«Ti prego, aiutami ad avere uno splendido rapporto con nostra
figlia. Siediti con noi, parlale di te e di me. Sono sicura che Linn
capirà. Io amo nostra figlia. Ma ci serve una terza persona. E sei
tu, Ingmar, la persona giusta».
"la
Repubblica", 23 marzo 2018
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