26.3.18

La chimica dell’amore. Liv Ullmann: “Caro Ingmar Bergman ...”. Intervista di Simonetta Fiori

Liv Ullmann e Ingmar Bergman

BERGAMO
Davanti all’obiettivo dei fotografi, non sembra a suo agio. Cerca l’espressione giusta, inclina la testa di lato, accenna un sorriso incerto, come le persone che non sanno fingere.
Non si direbbe che questa splendida signora con la maglia rossa, il fisico slanciato da ragazza, abbia alle spalle una quarantina di film, un paio di candidature all’Oscar e un lungo sodalizio con un mito del cinema. Forse perché Liv Ullmann non ha mai indossato maschere, e ancora oggi se ne fa un vanto. «Il mio Stradivari», la chiamava Ingmar Bergman, alludendo al timbro prefetto con cui sulla scena riusciva a esprimere emozioni, angosce, solitudine dei suoi personaggi. Gli occhi sono quelli di sempre, lo sguardo di Marianne in Scene da un matrimonio o di Maria in Sussurri e grida, un azzurro profondo nel quale è possibile leggere ciò che le passa in mente, senza infingimenti. Gratitudine, passione, rimpianto.
Quando si incontrarono sul set di Persona – alla metà degli anni Sessanta – lei aveva 28 anni, lui venti di più. La loro storia d’amore è durata cinque anni, l’intesa artistica tutta la vita. Ospite del Bergamo Film Meeting, Liv Ullmann ne parla con la serenità interiore di chi ha fatto un lungo viaggio. E dall’alto dei suoi quasi ottant’anni – li compirà a dicembre - tutto le sembra acquistare una giusta misura, anche il furore d’un genio.

Signora Ullmann, nella sua autobiografia lei ha scritto che siete entrati l’uno nella vita dell’altro troppo presto e troppo tardi. Cosa intendeva?
«È ciò che si pensa sempre quando finisce una storia. E io ho scritto Changing subito dopo la rottura con Ingmar, più di quarant’anni fa. Oggi tendo a pensare che quello fu il momento giusto. Dal nostro incontro è scaturita un’amicizia destinata a durare tutta la vita, al di là dei nostri nuovi matrimoni».

Cosa non ha funzionato?
«Entrambi avevamo bisogno l’uno dell’altro. Ma Ingmar cercava la madre, braccia aperte solo per lui, senza complicazioni. E io non potevo essere questa figura protettiva perché anche io cercavo comprensione e sicurezza. Lui sognava la donna tutta d’un pezzo; io mi sbriciolavo in mille pezzi se non avevo la sua attenzione».

Questo da cosa derivava?
«Il nostro amore era figlio di una duplice solitudine. Ne soffrivamo entrambi, anche se eravamo già sposati. Non è un caso che a questa condizione esistenziale Ingmar abbia dedicato i primi film da me interpretati, Persona, La vergogna e Passione. Quando ci siamo conosciuti, per la prima volta abbiamo sentito di avere qualcuno che fosse lì a rassicurarci: “ti ascolto”, “ti vedo”. Ci siamo aperti completamente l’uno all’altro».

Eravate molto simili.
«Sì. Anche ciò che Ingmar ignorava di sé stesso cominciò a vederlo in me, nonostante fossi una donna e molto più giovane di lui. Ma forse vedeva anche quella parte di sé che magari non gli piaceva. E, come uno specchio, io ero sempre lì a ricordargliela. Questa simbiosi psichica è molto evidente nei film che le ho citato prima».

In che senso?
«Io ero lui. Rappresentavo la sua immagine riflessa».

Quanto è durato questo gioco di specchi?
«Già ne L’ora del lupo, il film uscito nel 1968, smisi di essere Ingmar per cedere il ruolo a Max von Sydow, che incarnava tutti i suoi demoni. E io non capivo niente. “Ma cos’è questo? Cosa significa?”, continuavo a chiedere durante le riprese. Il mio sperdimento restituiva la relazione con lui».

Si sentiva sovrastata dai suoi fantasmi?
«Ero già incinta di nostra figlia Linn e pensavo: “Quest’uomo è troppo complicato per me”. Finito il film, me ne tornai a casa, in Norvegia. Ma Ingmar mi inseguì. Andò da mio marito e gli disse: “Io la rivoglio indietro”. E io tornai da Ingmar. Come vede, i tempi della liberazione della donna erano lontani…». (Liv esplode in una delle sue risate liberatorie, come a disperdere tutti gli incubi del passato).

Vivevate nell’isola di Farö, una sorta di prigione.
«Ingmar costruì intorno a me un gigantesco muro. Amici e famigliari erano vissuti come una minaccia al nostro rapporto. La sua gelosia poteva essere violenta, capace di troncare ogni relazione che potesse mettersi tra noi. Mi sarei potuta ribellare, e non lo feci. E quindi sono stata io costruirmi la prigione, non Ingmar».

Come se ora volesse giustificarlo.
«Per me sono stati cinque anni straordinari. Ho imparato anche dai suoi silenzi. Ho capito che dovevo emanciparmi dalla dipendenza da lui. Certo non avrei potuto resistere oltre perché avevo bisogno di altre relazioni, mentre per Ingmar l’isola era un rifugio. Ingmar stesso era un’isola».

A un certo punto la vostra relazione trovò un equilibrio.
«Fu quando smisi di adorarlo e cominciai a vederlo. A scoprirne le insicurezze. Ad avvertire il suo spaesamento in mezzo agli altri. Potevo sentirlo dire all’improvviso: “O dio mio, vieni, tienimi la mano”. Iniziava l’amore più grande, quello che accoglie le ferite dell’altro».

Da dove venivano questi suoi demoni?
«Non so rispondere. Era capace di svegliarsi nel cuore della notte scosso da sensi di colpa, rabbia, ansietà. Oppure l’insicurezza, la paura di non essere protetti: penso ad alcune foto di Ingmar adolescente, l’aria smarrita di chi non ha amici. Il mio istinto era di abbracciarlo, senza troppe domande».

Ma questa fragilità aveva a che fare con i genitori?
«Non lo sapremo mai. Sia il padre che la madre erano persone adorabili. Suo padre era un pastore della chiesa luterana molto sapiente sia nell’arte del racconto che nell’ascolto, qualità ereditate da Ingmar. Ma lui parlava del padre non sempre in termini entusiastici».

Le sue ossessioni finirono per logorare il vostro rapporto. Lei una volta disse che non c’è dolore più grande di essere lasciati.
«Sì, è doloroso sentire una porta che si chiude e sapere che non si aprirà mai più. Io ho avvertito questa sofferenza, ma anche Ingmar l’ha provata. E dopo sarebbe tornato, ma a quel punto era troppo tardi perché avevo già attraversato tutto il dolore e finalmente ero libera. Lui non aveva ancora fatto lo stesso percorso. Ma fu quello il momento giusto per lasciarsi: eravamo ancora in tempo per costruire la nostra splendida amicizia».

Quanto della vostra storia d’amore è stato trasportato in “Scene da un matrimonio”, un film fondamentale per l’educazione sentimentale di più generazioni?
«È il film che ho amato di più tra quelli fatti con Ingmar. Ed è certo quello più vicino alla nostra relazione, anche per la progressiva emancipazione della figura femminile. Però il film non parlava solo di noi, ma delle tantissime coppie che vi si sarebbero identificate. Ed è questa la grandezza di Bergman».

All’inizio del vostro amore c’era stato un sogno.
«“Ho sognato che io e te siamo dolorosamente legati”, mi disse un giorno Ingmar. E fu davvero così. Siamo stati dolorosamente legati fino alla fine».

Cosa intende?
«Sapevo che Ingmar non stava bene, ma non era così grave. Eppure una mattina di luglio, 11 anni fa, sentii all’improvviso che dovevo correre a Farö. Noleggiai un aereo privato, la prima volta nella mia vita. Entrai nella sua stanza, lui era già assopito. Gli presi la mano e gli dissi alcune cose su di noi, sul nostro rapporto, quanto era stato importante. Non so se abbia sentito, forse la sua anima sì. Sono stata l’ultima persona a vederlo. Ingmar è morto quella notte».

Come se l’avesse aspettata.
«No, non posso dire questo. Ma è stato il dolore a portarmi da lui: non riuscivo a immaginarmi una vita senza Ingmar».

A distanza di tanti anni, ha capito chi era Bergman?
«Un uomo buono che per tutta la vita ha cercato di dare un senso all’esistenza. Lui non amava l’indifferenza tra le persone. Nel “Settimo sigillo”, quando gioca a scacchi con la morte, il Conte dice: per favore, non portarmi via prima che io abbia compiuto almeno un’azione buona. Questo era Bergman: diceva di non credere in Dio, ma tutto quello che ha fatto è stato il tentativo di trovarlo».

Se tornasse per un giorno soltanto, cosa gli direbbe?
(Liv si commuove, come se vivesse davvero quel momento). «Ti prego, aiutami ad avere uno splendido rapporto con nostra figlia. Siediti con noi, parlale di te e di me. Sono sicura che Linn capirà. Io amo nostra figlia. Ma ci serve una terza persona. E sei tu, Ingmar, la persona giusta».

"la Repubblica", 23 marzo 2018

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